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24. ORIGINALE 

Riunione di famiglia

100 parole 


Una bella riunione di famiglia, gli hanno detto - hanno cercato di vendergli, perché Michele lo sa benissimo come funzionano le riunioni di famiglia di casa Santi. 

Succede che nonna Paola gli chiede incessantemente quando si deciderà a mettere insieme una fidanzata - 'mai, nonna, sono gay, quante volte te lo devo ripetere?' - e che zia Sabrina invece quanti esami gli mancano alla laurea - 'a te quanti etti mancano per fare il chilo?' No, questo no, che poi sua madre si incazza e non lo invita più.

Oddio, potrebbe essere la soluzione, ma poi dovrebbe rinunciare alla torta di fragole. Quello mai. 


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14. ORIGINALE 

Note: un po’ meta se volete

100 parole 

"Dimmi che ci stiamo infiltrando per smascherare un serial killer," Alice la prega e Maria sbuffa. 

"Ma perché tutte le volte che si parla di organizzare una rimpatriata tu mi salti fuori con queste panzane che uno dei nostri vecchi compagni dovrebbe essere una spia dormiente del Mossad o di che so io?" 

"Il motivo per cui penso che la Piattola in realtà venda segreti di stato e che il suo compratore sia quell'idiota della Mancini è perché penso che nessuno sano di mente andrebbe volontariamente ad una riunione del liceo senza un secondo fine importante.- tipo salvare il mondo." 


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 ORIGINALE

Fantasy

Cow-T #12, w2, m2: Fu sera e fu mattina. 

1510 w


Fu sera, una di quelle che sembravano non terminare mai, con la luce rosea del crepuscolo a tingere il cielo pervinca di una tonalità sanguina. 

Il sonno della ragione, lo chiamavano alcuni, e forse era questo a generare i mostri, o forse erano quelle ombre scure ad aver addormentato qualsiasi forma di ragione o raziocinio, perché quale logica ci poteva mai essere in quei demoni senza anima né pietà che sembravano emergere dalle nebbie, rendendosi corporei soltanto di fronte alle proprie vittime. 

Caeil si strinse il mantello addosso, chinando la testa per proseguire nonostante fosse già sera - una sera calata all’improvviso, che lo aveva sorpreso senza un rifugio lungo il sentiero. La notte sarebbe arrivata presto, Caeil lo sapeva, e con essa le sue creature mostruose e sanguinarie. Decise di proseguire comunque. La runa che lo proteggeva non era abbastanza forte, non lo sarebbe stata mai finché qualcuno non avesse capito di cosa fossero fatte le ombre che infestavano le lande senza lasciare scampo e non avesse creato un incantesimo adatto, forse costruendo una runa nuova.
La luna in cielo non era altro che una pallida falce contro l’azzurro del cielo, ma non appena gli ultimi raggi del sole si fossero dissipati Caeil sarebbe rimasto solo, in mezzo alla piana, alla mercé dei mostri. 

Doveva trovare riparo, si era detto, uscendo dalla foresta labirintica che aveva inghiottito più di un viaggiatore disattento, perdendolo tra fronde tutte uguali tra loro e confondendo lo scorrere del tempo. Un’illusione pericolosa quella foresta e Caeil pensava di essere un viandante più furbo con tutte le leghe che aveva messo sotto i suoi stivali, invece era stato catturato tra le sue maglie. 

Doveva trovare riparo, si era detto quando aveva notato lo stato del cielo, ma la piana che si stagliava dinanzi a lui era spoglia e deserta. Non ci sarebbe stata una casa, nè una cascina, alcun riparo. Poteva scordarsi una fiamma.
La luce della Dea sarà con te, gli aveva detto Xylea quando ancora erano al castello, prima che gli fosse assegnato quell’ingrato compito, e Caeil avrebbe tanto voluto crederle. La luce della Dea, se mai aveva illuminato qualcuno, oramai era spenta da tempo. 

Lo dimostrava la pietra che portava nel tascapane, una reliquia dei tempi andati, vitrea e immota, che si diceva avesse ospitato lo spirito della Dea, illuminando per secoli le sale del Castello di Urll, portando nelle sue sale un calore che si irradiava fin dalle pietre. 

Il castello di Urll era il posto più gelido in cui Caeil avesse mai alloggiato e certamente faticava ad immaginare le scure pietre di fiume come qualcosa che potesse mai diventare caldo per contatto, figurarsi addirittura irradiare tepore. Leggende, tutte quante, stupidaggini che le vecchie massaie si raccontavano per sopravvivere al gelo della notte, alla paura che essa si portava dietro.
La luna era risalita nel cielo imbrunito, gli ultimi raggi di sole lasciavano il posto alle tenebre e Caeil accelerò il passo, pregando i numi che quella notte fosse priva di terrori e disperando nel suo cuore di poter arrivare alla mattina. 

Quando anche l’ultima vestigia di sole fu scomparsa dietro l’orizzonte, l’ombra gli comparve davanti senza che Caeil potesse accorgersi da dove venisse, come se si fosse materializzata davanti a lui, prendendo corpo e forma in una mostruosità dagli occhi glauchi e le zanne affilate, braccia fin troppo lunghe, arti dinoccolati che terminavano in artigli taglienti come spade, in grado di tranciare un uomo adulto in due metà o trapassarlo da parte a parte. Le fattezze vagamente antropomorfe erano distorte da gobbe e bitorzoli che si sfaldavano e si ricomponevano mentre le figure si muovevano, quasi quei mostri fossero fatti di nebbia scura tenuta a malapena insieme da una volontà maligna di distruzione. 

Caeil non aveva scampo, cercò di ritrarsi, di afferrare, la spada che portava al fianco, come se potesse mai servire per qualcosa a uno come lui, abituato a passare il suo tempo nelle biblioteche di Urll piuttosto che nell’arena ad allenarsi. Tirare di spada era quello che ci si aspettava che l’ultimo genito del signore del castello fosse in grado di fare, ma certo lui non conosceva più che i rudimenti, certamente non sufficienti per avere la meglio di quelle ombre letali. 

Eppure la sua mano corse comunque all’elsa dell’arma. E si chiuse invece sul suo tascapane. 

Non ricordava di aver lasciato aperti i lacci della bisaccia, ma preso dalla disperazione vi infilò comunque dentro la mano, chiudendo le dita attorno alla Luce della Dea. 

Forse poteva tirargli addosso la pietra, magari avrebbe attraversato l’ombra da parte a parte, dissolvendola abbastanza a lungo da permettergli di fuggire. Invece fu una sensazione dolorosa quella che lo colse, quasi i lati della pietra fossero divenuto affilati come coltelli e lo avessero tagliato. 

Caeil non ebbe tempo di considerare che altro fare, l’ombra incedeva verso di lui pronta ad ucciderla, e se la sua presa sulla gemma era resa scivolosa dal sangue o se la pietra fredda si stava intiepidendo, poco importava, Caeil estrasse la pietra comunque e si stupì di vederla risplendere luminosa. 

L’ombra si fermò, la luce bianca era resa rosacea dai rivoli di sangue che colavano dal palmo di Caeil, un sacrificio che l’uomo pagava volentieri per sopravvivere. 

La gemma era calda adesso, calda contro il palmo della sua mano dolorante, ma Caeil non aveva la minima intenzione di lasciarla cadere. Le dita erano tanto strette attorno alla superficie lisca e tagliente che le articolazioni gli dolevano e i che i bordi continuavano ad affondare nella carne, spillando altro sangue. 

L’ombra sembrò indugiare con il braccio sollevato, indecisa se colpire o meno ora che quella luce era presente… e poi si dissolse. 

Caeil sbarrò gli occhi, nonostante la luce fosse abbastanza forte da ferirli, e prese un respiro tremante, perché era sopravvissuto. La luce lo aveva salvato. 

Poi cominciò a correre. 

Corse, tenendo la pietra di fronte a sé a dissipare la notte. Corse finché non ebbe più fiato in corpo e anche quando si dovette fermare, piegarsi sulle ginocchia e impedire al misero pasto di qualche ora prima di risalirgli alla bocca, tenne la pietra ben altra sulla sua testa. 

Camminò quando non fu più in grado di correre, camminò tutta la notte, trascinando i piedi stanchi, un passo alla volta per far scorrere il tempo, senza staccare gli occhi dalla pietra nel timore che decidesse di abbandonarlo, di tornare un semplice pezzo di vetro e sprofondarlo nella notte. 

E poi fu mattina, una di quelle che sembrava non arrivare mai, a rischiarare con la sua luce dorata le terre invase delle ombre, insinuando una lama di calore e di colore nella vallata. 

Caeil guardò la pietra illuminata brillare fulgida tra le sue mani, nonostante la luce del sole. 

Gli sembrava di essere un personaggio uscito dritto dritto dalla leggenda del Cavaliere di Sangue, una storia che risaliva a prima che le ombre conquistassero la notte, quando ancora i mostri che popolavano la terra erano di carne e ossa e sangue, e potevano essere ancora combattuti e  trapassati a fil di spada, seppur fosse difficile. Il Cavaliere di Sangue era un giovane il cui nome si era perso nel tempo, un ragazzo, dicevano i miti, che la famiglia aveva sacrificato senza pietà alla Chimera che viveva in quelle terre. Doveva morire per appagarla, dicevano le leggende, perciò era stato mandato nei suoi domini perché la Chimera se ne cibasse, se chi raccontava la storia pensava alle Chimere come animali selvatici, oppure perché fosse smembrato e il suo corpo usato per riti occulti, se il narratore vagheggiava che le Chimere fossero maghi catturati dai loro stessi incantesimi, stregoni che aveva pagato a caro prezzo la rottura degli equilibri naturali. In ogni caso, il giovane era stato stato abbandonato disarmato nei boschi e la Chimera lo aveva trovato, lo aveva braccato e inseguito, finché il giovane non era caduto a terra e non era più riuscito ad alzarsi. Solo allora, mentre la Chimera stava per ucciderlo, mentre disperato rivolgeva preghiere ai numi, la Dea gli aveva salvato la vita, mettendogli tra le dita una pietra, benedetta dal suo potere, che il ragazzo aveva usato per uccidere la Chimera.

Una leggenda, una storia per bambini. Eppure aveva tutto improvvisamente senso, il sangue, la paura, il sacrificio salvato dalla Dea. 

Xylea lo aveva ingannato. Non doveva portare la pietra al Concilio dei Maghi perché potessero studiarla meglio - non aveva senso, no, non quando qualsiasi incantatore avrebbe potuto usare le sue arti per giungere ad Urll. Caeil doveva essere il Cavaliere di Sangue, il giovane sacrificato alle ombre per suscitare la pietà della Dea. 

Come se la Dea potesse farsi ingannare da un misero intrigo umano. 

Perché il Cavaliere del Sangue non aveva spillato una goccia del proprio. Il Sangue con cui era tornato a casa era quello della Chimera, che gli aveva imbrattato i vestiti mentre la colpiva ripetutamente. 

Invece tra le mani di Caeil la pietra riluceva di una luce cremisi, assorbendo il sangue. 

 
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Cow - T #12, w2, m2: La cruna dell’ago
541 w


Note: Tutto questo è (più o meno) successo davvero, grazie Club del Cucito per regalarmi queste perle il martedì sera. 


“Non possiamo davvero star discutendo sull'eteronormatività dei bottoni,” Arianna si passò una mano tra i capelli biondi, scostando una ciocca da viso.
China sull’enorme tavolo bianco, Margherita non alzò gli occhi dai bottoni a pressione che stava cercando di applicare. “Sull’eternormatività dei bottoni a click,” specificò, mentre cercava di infilare l’ago in modo che il bottone stesse adeso alla stoffa, ma comunque attraversando solo l’orlo della cucitura in modo che non si vedesse sul dritto. “Non ho assolutamente nessun problema con i bottoni normali.”  

Arianna alzò gli occhi al cielo, “Eh, certo! Le asole poi, da quando io ho comprato la macchina da cucire nuova che le fa in automatico, sono le tue migliori amiche.” 

“Dettagli,” Margherita scosse il capo, masticando un’imprecazione verso l’ago che aveva trapassato entrambi gli strati di stoffa, “parliamo delle cose serie.”
“Come l’eternomatività dei bottoni?” Arianna alzò un sopracciglio, piena di sarcasmo, e quando Margherita fece per aprire la bocca, si corresse, “Scusa, dei bottoni a pressione.” 

“Non ho capito, scusa, a te sembra una cosa normale che il mezzo bottone con il buco sia la femmina e il mezzo bottone con la protuberanza sia il maschio?” 

“Beh, anatomicamente…”
“Punto numero 1, sono bottoni. Non hanno anatomia. Punto numero 2, senza nemmeno entrare nel discorso della disforia di genere, pure gli uomini hanno un buco.”
“Ommiodio,” Arianna soffocò una risata coprendosi la bocca con la mano. 

“Vogliamo anche parlare della misogina intrinseca nel fatto che la femmina debba stare sotto?” Margherita frustrata, staccò il bottone che non si stava facendo cucire come doveva e lo gettò via. Quello rimbalzò sulla tavola e scivolò a terra, infilandosi sotto il termosifone. 

“Ma che cazzo.” 

Arianna ormai non stava più neanche fingendo di imbastire i fianchi del vestito che sarebbe dovuto essere pronto per la settimana successiva, ma che con tutta probabilità a quel ritmo avrebbe visto la luce tra mesi. Era troppo presa a guardare l’amica imprecare contro i bottoni a pressione, contro il dannato filo che non voleva saperne di infilarsi nella cruna dell’ago, continuando a scivolare via con tutte le sue doppie punte, e contro la dannata gonna che chi le aveva mai suggerito quel cartamodello con i bottoni a pressione non si azzardasse mai più. 

“Potevano chiamarli top e bottom a questo punto,” Margherita esasperata fece il giro del tavolo per recuperare il pezzo che le era caduto. 

Dovette chinarsi e spazzarlo via dalla polvere che si era accumulata nella sala ricreativa. E meno male che dovevano pulirlo spesso perché nel pomeriggio lì ci facevano doposcuola i bambini. 

Margherita rivolse un’occhiataccia al mezzo bottone, quasi ci si fosse infilato da solo in mezzo a tutto quello sporco e il mezzo bottone la fissò di rimando con quel suo occhio nero - era la femmina, il bottone con il buco. Argh, le prudeva il naso solo a pensarci. (O forse era solo la polvere). 

Poi tornò al suo posto perché maschio o femmina, misoginia o meno, quella dannata gonna la doveva finire.

“E se ci mettessi una zip?”


Atavico

Mar. 2nd, 2021 10:39 am
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444 parole 

COW-T #11 (Sagra): Labirinto


Un brivido gli corre lungo la schiena. è stupido, lo sa, dopotutto questo è un parco giochi per bambini e non ci si può davvero perdere nel Labirinto di Alice. al massimo ci si può ritrovare davanti alla statua del Bianconiglio o del Brucaliffo o della Regina di Cuori quando ci si imbatte in un vicolo cieco. 

Però quel brivido gli corre lungo la schiena lo stesso. Forse è un ricordo atavico di quando i labirinti erano costruiti per inghiottirti e non sputarti fuori mai più, per tenerti dentro a camminare alla ricerca dell'uscita fino a che non ti cedono le gambe, fino a che la sete e la fame non hanno la meglio, oppure fino a che la cosa nascosta dentro non ti trovi. 

Sciocchezzre, ovviamente, e poi non è che lui abbia davvero paura dei labirinti o di che altro. 

è solo che quel piccolo brivido - un'attivazione spontanea dell'amigdala che fa produrrre adrenalina alle sue surrenali sulla base di un ricordo che non cìè mai stato -  è lì e lui, cercando di razionalizzare l'inquietudine,  comincia a sentirsi Teseo a caccia del Minotauro per sconfiggerlo, armato della spada della superiorità scentifica di chi ha abbandonato ogni superstizione. Quasi. 

"Andiamo?" 

"Ti sfido a chi raggiunge prima il centro," dice lui, non il  'ti sfido a trovare l'uscita,' ma deve davvero smetterla di farsi impressionare da sensazioni oscure che lo assalgono nei momenti meno indicati. 

"Ma perché deve essere tutto una competizione con te? Non ti puoi rilassare un minuto?" L'altro si infila le mani in tasca e scuote la testa. "Andiamo insieme, non voglio mica perdermi." 

"è un labirinto per bambini." 

"Punto numero uno, dice dai dodici anni in su. Punto numero due è a tema Alice nel Paese delle Meraviglie e io ho un trauma con la regina di Cuori, ok? Dopo aver visto il cartone animato da piccolo sognavo tutte le notti che mi inseguisse con una accetta per tagliarmi la testa. Non ci voglio entrare da solo." 

"Perciò vuoi che ti tenga la mano?" Lui lo prende in giro, ma l'altro gli tende davvero la mano.

"Sì, perché no. Dopotutto questo è un appuntamento, dovresti morire dalla voglia di potermi consolare." 

"E se fossi io quello da consolare?" 

"Perché, qual è il tuo trauma?" 

"Non ho un trauma," si mette sulla difensiva, ma gli prende la mano comunque, "è solo che trovo i labirinti inquietanti." 

"Ah, sei uno di quelli che fa lo spaccone pur di non ammettere che ha un po' di paura." 

"E se fosse? Come tecnica esorcizza piuttosto bene." 

"Può essere, ma io preferisco la mia." 

"Ossia?" 

"Non affrontare la paura da solo." 

E tenendolo per mano si avviano insieme nel labirinto. 


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COW-T #11 (w3, m4): Edificio abbandonato


Il cancello era aperto e così lei era fuggita. 

Doveva essere stata una dimenticanza, perché non c’era mai stata una volta che il cancello fosse aperto e loro non fossero lì, pronti ad osservarla, pronti a fermarla se avesse deciso di andarsene - e lei ormai aveva cominciato a perdere le speranze. 

Invece era accaduto e lei era rimasta a fissare quel quadrato di libertà, quella assenza improvvisa di sbarre, una soluzione di continuità inaspettata. Poteva azzardarsi? 

Si era guardata alle spalle e aveva fatto un cauto passo in avanti e poi un altro. 

Quando non aveva sentito voci intimarle di fermarsi, quando nessuna mano era arrivata ad afferrarla e trascinarla via, lei si era lanciata fuori e aveva cominciato a correre, solo per il gusto di poterlo fare. 

Aveva seguito la strada che si dipanava tra i campi, restando sul ciglio pur preferendo l’erba morbida all’asfalto ruvido e duro, cercando di carpire con lo sguardo tutto il resto del mondo che si trovava al di fuori della sua solita portata, fino che non aveva visto una farfalla volteggiare a poca distanza dalla propria testa e questa, per una volta, aveva potuto seguirla.

Le spighe di grano le frusciavano contro i fianchi, tanto alte che rischiavano di finirle negli occhi, ma non le importava. La rugiada del mattino le aveva bagnato il naso, le si era infilata tra le ciglia e lei aveva sentito per la prima volta la libertà. 

Aveva corso fino a che non le era mancato il fiato, fino che i polmoni non avevano cominciato a bruciarle in petto e la gabbia toracica a sembrarle troppo stretta e allora, solo allora, si era lasciata cadere a terra, da sola nel mondo in mezzo a quel campo di grano, la farfalla completamente dimenticata. Si era rotolata tra le spighe e gliene erano rimaste parecchie incastrate addosso, ma non importava. Ne aveva spazzata via una particolarmente fastidiosa vicino all’orecchio e poi si era tirata in piedi e aveva ricominciato a correre. 

Aveva sentito un odore strano e aveva tentato di seguirlo. 

Era strano ed era ovunque e non era facile, ma dopo essersi lasciata alle spalle le spighe di grano, avviluppato da edera incolta, l’edificio le si era parato davanti, fatiscente e abbandonato, con i suoi cardini cigolanti da cui pendeva quello che una volta era stata un portone di legno. 

Vi si era avvicinata cauta, un passo alla volta, pronta a fuggire al minimo segno di pericolo, ma pericoli non sembravano esservene perché tutto era silenzioso attorno a lei. 

Le grandi finestre erano vuote, assi divelte, schiarite dal sole prima e mezze marcite dal tempo e dalla pioggia poi, ma nelle orbite vuote di quelle al pian terreno stava accovacciato un gatto. 

Aveva fatto un passo verso di lui e quello l’aveva guardata e aveva scossato la coda guardingo. 

Lei non sapeva cosa volesse dire quel gesto e aveva fatto per avvicinarsi di più.

Il gatto aveva spalancato le fauci, rosse di sangue e aveva soffiato, stringendo tra gli artigli quella che doveva essere la carcassa di topo, ma che ormai era soltanto un ammasso sanguinolento. 

Lei non aveva fame, no affatto, in ogni caso, il gatto avrebbe potuto essere più amichevole, per cui con uno sbuffo decise di ignorare l’avvertimento. 

Il gatto le aveva soffiato ancora, poi vedendo che non si sarebbe fermata, aveva raccolto tra le fauci la carogna ed era scappato dentro. 

Lei lo aveva seguito, aveva salito l’ampia scalinata che portava al portone divelto saltando due gradini alla volta e quasi scivolando lungo il marmo ricoperto di escrementi di uccelli che dovevano aver fatto il nido tra le tegole cadenti. 

L’ampio atrio non recava tracce del gatto e lei quasi aveva pensato di tornare fuori, che il campo di grano era più allegro e divertente. Però ci poteva essere altro da vedere, chissà cosa si poteva nascondere dietro quelle porte semi aperte in quel lungo corridoio. 

Aveva spinto con tutto il proprio corpo la prima porta, perché in quella stanza poteva trovarsi il gatto, dopotutto aveva sentito un rumore, e il legno aveva ceduto, scivolando sui cardini con un rumore sinistro. Non era chiusa a chiave e lei era entrata - non si era preoccupata delle scrivanie abbandonate, delle sedie impilate negli angoli, degli stucchi scrostati e dei muri che cadevano a pezzi. 

Aveva percorso la stanza, ma il gatto non c’era, così se l’era lasciata dietro senza nemmeno voltarsi a guardarla. Aveva altro di meglio da fare. 

Era stata metodica nell’esaminare e cercare in ogni stanza, era salita persino al piano di sopra, - arrischiandosi lungo le scale pericolanti, anche se lei non pesava abbastanza per far cedere il legno - ma del gatto non vi era traccia. Aveva trovato un nido di uccelli, però, piccioni dalle piume lucide e dalle uova bianche, ma era troppo in alto perché lei potesse saltare e guardare meglio. 

Le era venuta fame ad un certo punto, perché non aveva fatto altro che correre tutta la mattina, ma non c’era nulla di commestibile in quel posto e per di più l’acqua che aveva provato a bere da una pozza sapeva di fango e muffa. Non era stata schizzinosa, ma all’improvviso aveva cominciato a mancarle casa. 

Si chiese se sarebbe stata in grado di tornare, se persa come si era dietro mille distrazione, avrebbe potuto riconoscere la traccia per ritrovare la strada di casa. Le faceva un po’ paura l’idea e poi si sentiva sola, non era mai stata così tante ore senza la compagnia di qualcuno.

Aveva percorso le scale a ritroso, ed era rimasta a fissare il corridoio, buio ora che la luce del pomeriggio aveva cambiato le ombre agli oggetti. 

E se il gatto fosse stato in agguato? 

Improvvisamente da inseguitrice era passata a sentirsi inseguita e la cosa la spaventava a morte, le faceva rizzare i peli. 

Poi da fuori era giunto un grido e lei aveva alzato la testa, cercando di captarlo meglio.
Il grido era venuto di nuovo, una parola urlata, un suono che era il suo nome! E lei - lei conosceva quella voce! 

Così si era lanciata lungo il corridoio, incurante del gatto perché quella voce dal gatto avrebbe potuto salvarla e si era lanciata giù dalla scalinata, cercando di raggiungerla il più in fretta possibile. Questa volta era riuscita a scivolare davvero e gli ultimi due gradini le avevano colpito la pancia, facendola guaire di dolore. 

Il rumore però doveva aver attirato la voce, perché continuava a sentir urlare il proprio nome, ma era sempre più vicino.
Si era tirata su, ignorando la botta, e poi eccola lì, la proprietaria della voce. 

L’umana le si era parata davanti - il suo personale cavaliere, senza cavallo bianco - pronta a salvarla e lei le era corsa incontro, raggiante di gioia, con la coda che non riusciva a stare ferma, incurante se le sarebbe toccata una sgridata. 

L’umana invece era caduta in ginocchio e l’aveva abbracciata, stringendosela contro il petto. 

“Oh, mio Dio, non farlo mai più!” Aveva detto e se anche lei non aveva capito le parole, se non altro ne aveva compreso il senso. 

Lacrime calde erano scese a bagnarle la testa e lei aveva sollevato lo sguardo per guardare meglio l’umana. Quella aveva fatto un verso strozzato e lei non aveva potuto fare altro che leccarle il muso, inseguendo il sapore salato dalle guance fino agli occhi nel tentativo di fermarlo.

L’umana se l’era caricata in braccio e lei l’aveva lasciata fare, anche se odiava essere trasportata così e preferiva di gran lunga camminare da sola, ma si rendeva conto che in quel momento non poteva esattamente cercare di dire la propria.

Mettendosela in equilibrio su una spalla, l’umana aveva stretto l’oggetto scintillante che aveva in mano e se lo era premuto all’orecchio, dicendovi qualcosa dentro. Gran parte di quei suoni per lei non avevano significato, ma non importava. 

Andava tutto bene. Sarebbe tornata a casa. 




“L’ho trovata! Era nel vecchio municipio abbandonato. Sì, Dio mio, puoi smettere di cercare e venire a casa. Questo cane mi farà venire i capelli bianchi e morire giovane!” 

Occaso

Feb. 23rd, 2021 04:56 pm
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COW-T #11 (w3, m4): Città di notte

Ti porto in un posto, dice e tu non puoi fare nient’altro che annuire, la gola secca e l’alcool che ti dà alla testa. Hai bevuto un po' troppo, puoi ammetterlo, e forse ti si è sciolta un po' troppo la lingua, ti sei lasciata andare con questo affascinante sconosciuto.
 

Hai detto che ti piacerebbe vivere un’avventura, no? Allora vieni, ti porto in un posto, dice e tu mormori a mezza voce che probabilmente lo conosci già, che vivi in questa città da una vita e la conosci come il palmo della tua mano. 

Ma la città di notte è diversa, dice lui e un brivido ti corre lungo la schiena.

La città di notte è un labirinto, una serie di vicoli che sembrano tutti uguali, perché tutti i gatti sono grigi di notte e la luce dei lampioni è talmente fioca che distinguere tra un lastricato di sanpietrini e un asfalto pieno di buche è possibile solo con le piante dei piedi. 

Si finisce male così, ad accettare la mano di uno sconosciuto e farsi portare ‘in un posto’ lo sai, si finisce sui giornali, si finisce in un bidone della spazzatura in almeno in tre sacchi diversi, scovate da un barbone che cercava cartoni per ripararsi dal freddo della notte o rovistate da un gatto che aveva sentito odore di sangue. 

Però. 

Però c’è il brivido dell’ignoto che ti risale lungo la colonna vertebrale, paura e desiderio. 

Ti porto in un posto che non hai mai visto, e anche se ci sei già stata non lo hai mai visto così, andiamo ad esplorare, dov’è il tuo coraggio? e tu sorridi con poca convinzione, ti lasci prendere la mano e trascinare lungo una strada di cui pensavi di conoscere il nome, ma quando sollevi lo sguardo sul cartello bianco smaltato in blu quello non è il nome che ti aspettavi di vedere. 

C’è qualche problema? chiede. 

Tu scossi la testa, Pensavo di essere in un altro punto della città.

Perché, in che punto siamo? 

Ma il nome che hai letto qualche istante prima ti sfugge di mente, non lo ricordi affatto, nemmeno riesci a visualizzarlo - le lettere non sono altro che un branco di formiche azzurre che si muovono e cambiano forma sotto i tuoi occhi e c’è qualcosa che non va, lo sentivi da prima, prima che cascasse il crepuscolo e sigillasse la città nell’oscurità, ma non hai dato retta a quel sesto senso che ti diceva di scappare, tornare a casa e metterti al sicuro sotto una coperta calda. 

Continui a camminare, lo segui come se la sua presenza illuminasse la strada abbastanza per compiere un altro passo, perché altrimenti ti saresti già fermata, inghiottita dalle ombre, paralizzata a decifrare cartelli che hanno perso di significato. 

Coraggio, andiamo, è un avventura.

Dove? chiedi, Dove stiamo andando esattamente? 

Qui. 

Ti guardi in torno, lui non smette di camminare e tu non smetti di arrancargli dieto. 

Qui? 

In città.

Siamo già in città, pensavo avessi una meta un po' più precisa in mente. 

La nostra meta è l’alba, sciocchina. Chi si ferma prima è perduto. 

 

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Originale
SFW 

COW-T #11 (w2, m2): L’abito di piume


Quell’abito non s’aveva da fare. 

Margherita masticò un’imprecazione cercando di non farsi sfuggire gli spilli di bocca e contemporaneamente cercando di non trafiggersi la lingua con le dieci punte acuminate che aveva strette tra le labbra. 

Quando le aveva mostrato il bozzetto, Renata l’aveva guardata scettica. “Un vestito di piume, Margherita? E dove pensi di andare con una cosa del genere?” 

Non era esattamente portabile, no, sicuramente non per una occasione di tutti i giorni, però Margherita aveva visto quel boa di piume e se ne era innamorata, non poteva lasciarselo scappare, anche se avrebbe voluto dire fare un vestito che sarebbe rimasto nell’armadio per l’eternità. 

“A capodanno,” la ragazza aveva risposto, stringendo il blocco da disegno al petto con fare protettivo, cercando di non farla sembrare una domanda. Come se lei il capodanno non lo passasse tutti gli anni sul divano in pigiama a fare il conto alla rovescia con le sue amiche sintonizzata su Amadeus in una giacca di paillettes. 

Fanculo tutto, quell’anno avrebbe passato il capodanno svaccata sul divano in un abito da sera. Le sue amiche erano invitate a fare altrettanto, se volevano. Arianna sarebbe andata giù di testa al pensiero.  

“Ah va bene, va bene, se lo vuoi fare… il progetto è il tuo,” Renata si era stretta nelle spalle, con un’espressione che diceva tutto quello che effettivamente pensava dell’idea di fare un vestito inutile.

Oh beh, Renata era una donna di altri tempi, Margherita l’avrebbe probabilmente soddisfatta solo rispettando strenuamente il cartamodello. Ah, sì, come no. 

Margherita aveva pensato che le sarebbe venuto un infarto quando aveva deciso di attaccare ad un corpino assolutamente anonimo la gonna accorciata di un dirndl tirolese - capiva che il giornale fosse tedesco, ma chi mai avrebbe sprecato stoffa per realizzare un dirndl tirolese? Era ovvio che il modello fosse lì per essere smembrato in tutte le sue parti e usato a piacere, assolutamente ovvio - e sicuramente non le aveva detto che usare il gessetto da sarta era un dito al culo per cui era ricorsa all’uso dei pennarelli per bambini, - quelli che, una volta messo il vestito in lavatrice, sarebbero spariti dalla stoffa completamente, - perché allora probabilmente l’avrebbe cacciata dal corso di cucito con tutti i suoi scampoli di stoffa al seguito. 

“Io non sono sicura che fare un vestito del genere sia un’idea così grandiosa, sai?” Arianna aveva guardato il boa di piume con faccia preoccupata. 

“Eh dai, esci un po’ dagli schemi! E poi guarda quant’è carino! Mi ha chiamata dalla vetrina, non potevo non prenderlo.” 

“Tu e i tuoi colpi di fulmine.” 

“È stato un segno del destino.”

Un segno del destino davvero perché Margherita non solo si era innamorata del boa di piume, ma aveva persino trovato la stoffa adatta da abbinarci -  ad un prezzo abbastanza abbordabile da farle cancellare l’intervento per vendere un rene al mercato nero - e poi nel Burda di quel mese aveva visto il modello perfetto, un vestito da due pallini di difficoltà e che non sembrava così difficile da modificare per inglobare le piume che avrebbe usato per decorare il collo e l’orlo. 

Margherita non aveva mai visto una congiunzione astrale migliore. 

Così aveva tirato giù il cartamodello e aveva tagliato la stoffa e imbastito gli orli cercando di non farsi vedere da Renata ad usare un fottuto pennarello, perché a quanto pareva il gesso da sarta era sacro e tutto ciò che non era ortodosso veniva bandito - come le cerniere da cucire a mano cucite invece a macchina che “no, no, se vuoi usare la macchina, devi comprare le zip a spirale, non quelle normali!” o gli spilli dei cinesi, che ‘poi non passano la stoffa e si piegano’. Ma alla fine Margherita aveva avuto tra le mani il primo abbozzo di vestito. 

Solo che quando era andata a provarselo, questo era di almeno due taglie più grandi. 

Maledicendo i tedeschi, Margherita si chiese quale fosse esattamente il loro problema. Lei le sue misure le aveva prese giù perfettamente, al millimetro, controllando la tabella delle taglie tre volte. Come faceva a ritrovarsi un vestito così grande? Cos’era, gli editori pensavano che la gente mentisse? Cioè, quale demente se ha una 44, pensa che sia una buona idea fare una 42 o una 40? Se non ci entri, vedrai che la prossima volta prendi giù la taglia giusta. 

“Dovresti rifarlo da capo,” suggerì Arianna, con fare desolato. 

“Ho finito la stoffa!”
“Allora dovrai adattarlo,” sentenziò Renata osservando l’abito con occhio critico. Era già entrata in modalità sarta: anche se il vestito che Margherita aveva scelto non le piaceva, ora avrebbe fatto di tutto per aiutarla a farlo diventare perfetto.  

Margherita sospirò desolata, perché odiava adattare gli abiti che aveva già fatto. Le venivano sempre storti e bitorzoluti e orrendi e ci doveva lavorare ore sopra, perché Renata non le dava un momento di tregua. O veniva bene o non poteva abbandonare il progetto a sé stesso. 

Beata Renata, Margherita poteva sbuffare finché voleva, ma in fondo in fondo lo sapeva che era una cosa carina, che la doveva ringraziare per essere il motivo per cui il suo armadio non era pieno di progetti mezzi cuciti e abbandonati senza orli o zip o riprese. 

“Stringi nelle cuciture,” Renata aveva cominciato a istruirla “invece che un centimetro e mezzo ne lasci tre. E poi tagli la stoffa in più, se no fa massa.” 

“Ma dopo fa difetto sulla schiena, sembrerà che io abbia la gobba.” 

“Allora fai due riprese dietro, così ti snellisce ancora di più.”  

Margherita si era messa le mani nei capelli, ma poi si era messa al lavoro. E ce l’aveva fatta. Sì, certo, ci aveva messo più tempo di quello che avrebbe voluto, ma il modello base, - un abito azzurro cielo lungo fino al ginocchio, senza spalline, con troppi pezzi per essere poi, alla base, solamente un tubo di stoffa -, era pronto, con persino la cerniera già imbastita. 

Margherita però non aveva contato con il fatto che le piume non fossero esattamente… collaboranti

Altro che segno del destino e congiunzione astrale, quell’abito non s’aveva da fare. 

Frustrata, Margherita si tolse gli spilli di bocca e li sbatté sul tavolo. 

“Hai bisogno di una mano?” 

“Non riesco a fissare il boa. Scivola via e perde piume come una gallina tutte le volte che lo tocco. Di questo passo sarà spelacchiato per quando avrò finito di cucirlo!” 

Arianna osservò quell’obbrobrio di piume con aria critica. 

“Facciamo così. Io ti fisso il boa e tu mi aiuti con gli strass dei miei pantaloni.” 

“Sì ti prego grazie!” Margherita non la lasciò nemmeno finire di parlare. Era perfetto, era una situazione win - win. Adorava applicare i rhinestones, era un gesto meccanico che la rilassava e per di più alla fine avrebbe avuto anche il suo vestito finito. Margherita le avrebbe fatto una statua. 

“Ok, ok, meno entusiasmo,” ridacchiò Arianna, prendendo il suo posto al tavolo di lavoro. “Poi devi comunque fissare la cerniera, eh, quello non te lo faccio io.” 

Ed era alla lezione successiva, proprio mentre Margherita tirava via il filo dell’imbastitura dalla cerniera ora perfettamente cucita, che Renata si era presentata con una busta.
“Ho una cosa per te.” 

Margherita l’aveva aperta, sperando non fosse il rimborso del corso di cucito da cui sarebbe stata cacciata.
Invece erano due patch, blu reale come il colore del boa e a forma di piuma per di più.  

“Sono bellissime, grazie!”

“Sarebbero da stirare, ma non so se la stoffa che hai scelto riesca a resistere alla temperatura del ferro senza rovinarsi. Puoi sempre cucirle a mano, però.”

“Le cucio a mano, non c’è problema! Non so dove metterle, però.” 

“Provati il vestito, ti dò una mano a scegliere.” 

Margherita aveva infilato il vestito nel camerino di fortuna e, wow, sì da finito non lo aveva ancora provato, ma faceva la sua dannata figura. Le piume frusciavano contro la sua pelle ad ogni passo e a lei sembrava di camminare su una nuvola.
“Marghe, è stupendo!” Arianna sembrava estasiata e anche Renata aveva un sorriso compiaciuto sul viso. 

“È molto bello, davvero, Margherita.” 

La ragazza si pavoneggiò un po’ in giro, mostrando il vestito alle altre del corso. Persino Marta le fece le congratulazioni, quella perfettina a cui riusciva tutto al primo colpo - e no, Margherita non si sarebbe messa in competizione con una donna che aveva dieci anni in più di cucito sulle spalle, nonostante avesse soltanto cinque anni più di lei. 

“Allora, dove le metto le toppe?” Margherita chiese tornando al proprio tavolo di lavoro. 

Con attenzione Renata prese un paio di spilli dal cuscinetto che aveva appuntato sulla giacca. “Questi tornano indietro, eh, che regalare spilli porta sfortuna.” 

Fu il turno di Margherita di inarcare le sopracciglia poco convinta, ma non disse niente, troppo impegnata a tenere in dentro la pancia per evitare di farsi punzecchiare. 

Quando Renata ebbe finito, Margherita si rese conto che le due piume posavano sui suoi fianchi, proprio dove la cresta iliaca premeva contro la pelle.
“Woah,” fu l’utilissimo commento di Arianna. 

Margherita andò a guardarsi allo specchio. 

“Non è un po’… troppo?” 

“Troppo?”
“Non ti offendere, Renata, ma… sotto una certa luce potrebbero sembrare due frecce che indichino… lì sotto.” 

Renata aveva riso. 

“Tesoro, so che mi consideri vecchia, ma quello è proprio il punto.”

“Eh?!”  

“Un vestito così non ha mezze misure, se ti devono guardare tutti almeno fai le cose per bene.” 

Non sapendo se sentirsi offesa in luogo del suo vestito - però dai, aveva le piume, in fondo era fatto per essere il centro dell’attenzione - o più sorpresa, - perché quella era Renata, insomma, cos’altro doveva aspettarsi dal mondo, che il sole sorgesse a ovest? - Margherita si limitò a rigirarsi nello specchio per osservarsi meglio. 

“Non è così eccessivo come lo fai tu,” le disse Arianna. “Secondo me stai bene, sembrano le effe di un violino.” 

“Dici?” 

“Dico.” 

Margherita allora si convinse, perché Arianna non l’avrebbe mai lasciata andare in giro conciata in maniera imbarazzante - cioè, non più imbarazzante di un boa di piume blu, comunque. 

“Grazie ancora, Renata! Io… Veramente, non me l’aspettavo.  

“Eh lo so, sono una donna piena di sorprese,” scherzò l’insegnante, “Per di più, non credere che non mi sia accorta che hai usato dei pennarelli per segnare la stoffa.” 

Margherita spalancò gli occhi, presa in contropiede. 

“Non sono cieca,” Renata le fece l’occhiolino, “ed è un’idea piuttosto furba, sai? Forse la prenderò in considerazione.” 


* * * 


“No, il modello è molto bello, ma la stoffa che hai preso non è abbastanza.” 

“Lo faccio più corto.”
“Non credo basti, ma la stoffa è tua.” 

“Ci provo. Vedrai che riuscirò a farcelo entrare.” 

Renata inarcò le sopracciglia poco convinta, ma la lasciò fare, andando a controllare un altro tavolo. Margherita dentro di sé sorrise con aria trionfante. 

“Hai la tua solita aria da ‘fanculo il drittofilo’,” la informò Arianna, cercando di pareggiare l’orlo dei pantaloni che stava bordando, “certe volte mi chiedo perché tu sia venuta a questo corso di cucito con me, se poi fai sempre il contrario di quello che dice l’insegnante.” 

Margherita si strinse al petto il taglio di stoffa striminzito di cui si era innamorata questa volta. “Perché le regole sono fatte per essere infrante.” 

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COW-T #10 (week 7, m4) - prompt: warning:violence

Prompt di scorta week3 - J2) immagine 


Wordcount: 1600



Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga. 

Dopotutto lo avevo fatto per tutta una vita. 

Avevo iniziato a otto anni, uno zaino della sopravvivenza che contava una bottiglia d’acqua da mezzo litro, dieci pacchetti di cracker e un kit-kat. 

Mi ero sentito così fiero di me stesso allora, come se quelle provviste potessero durarmi più di un giorno. Ma avevo otto anni e mi ero sentito particolarmente previdente. 

Scappare di casa era stato facilissimo, restarne fuori molto più problematico. Faceva freddo, perché non avevo preso la giacca, stupidamente considerando che, visto che mia madre mi ricordava in continuazione di farlo, ora che lei non sapeva che me stessi andando avrei potuto non farlo. 

A mia discolpa, ripeto che avevo otto anni. 

Comunque fece freddo e mi pentii di non aver preso la giacca. 

Così tornai a casa.
La mia fuga era durata esattamente cinque ore e ventidue minuti.
Mia madre non si accorse di niente, ovviamente, perché tornai a casa fingendo di essere andato a scuola. E la cosa finì lì.

No, mi correggo la cosa sarebbe dovuta finire lì. Avrei dovuto disfare lo zaino e dimenticarmi di quell’idea balzana di andarmene a vivere nei boschi solo perché avevo letto “La bambina che amava Tom Gordon” e pensavo che io in realtà in quei boschi avrei potuto viverci e non sarei stato altrettanto inetto. I boschi sarebbero diventati la mia casa, avrei addomesticato le belve feroci e, quando mi fossi stancato di fare l’eremita sarei ritornato a casa, novello Tarzan delle scimmie, a cavallo di un giaguaro per riparare tutti i torti della mia vita, principe azzurro dall’inusuale - ma molto più scenografica - cavalcatura.
A mia discolpa, continuo a ribadire che avevo otto anni - ed ero un bambino particolarmente stupido. Fuggii al parco pubblico e cavalcai l’altalena a molla le cui pareti rappresentavano la testa di un elefante. 

Le cose che facciamo da bambini. 

La seconda volta presi la giacca, e i fiammiferi, perché mi ero reso conto di non avere la minima idea di come creare una fiamma solo con un bastoncino di legno e forse sarebbe stato più utile avere una fiamma a portata di mano invece che perdere prezioso tempo per imparare a farlo. Avevo preso anche il coltellino svizzero di mio padre, quello dal manico rosso, che si apriva di scatto e rivelava una lucente lama metallica dal bordo affilato. O un cavatappi puntuto che sembrava minacciare di cavarti gli occhi se solo lo avessi osservato abbastanza a lungo. 

Rimasi fuori più tempo quella volta, tredici ore e trentasette minuti. 

Avevo undici anni allora e ancora nessuno si accorse della mia sparizione. E come potevano? 

Mamma era svenuta in bagno, dove si era chiusa a leccarsi le ferite. Papà era sparito a ChissàDove - un luogo che mamma chiamava con disprezzo, quasi sputandolo tra i denti serrati, e che per me aveva sempre avuto un aura di mistero dal momento che tutte le volte che mio padre vi andava tornava conciato in maniere diverse, ma sempre con l’alito dolce e pungente, che aveva lo stesso odore della bagna per dolci che mamma usava per fare la zuppa inglese. 

Anche quella volta mi rifugiai in un parco - non lo stesso dell’altra volta, perché insomma, non avevo più otto anni, e sapevo benissimo che quel microscopico appezzamento che nemmeno poteva essere chiamato parco non mi avrebbe nascosto di nuovo. Il parco che scelsi quella volta era più grande, e più grandi erano i ragazzi che lo frequentavano. Adolescenti dalle braghe larghe, che fumavano (forse) sigarette rollate a mano, ridendo sguaiati e imprecando come scaricatori di porto. 

No, stonavo tra quella gente, seduto compitamente su una panchina scrostata con disegni di genitali in uniposca nero sulle doghe di legno marcescente. 

Tornai a casa senza troppe remore, convinto che la scena sarebbe stata sempre al stessa. 

Ma mamma non era in bagno e papà non era ChissàDove

Papà era in casa e da ChissàDove doveva esserci tornato da poco perché il suo alito puzzava davvero ancora di alchermes - rum, avrei scoperto da più grande, ma che importava la qualità del veleno? 

Si era accorto che il coltellino svizzero mancava. E visto che mancava ne aveva usato uno da cucina, uno di quelli grossi che mamma usava per tagliare le carote in tante rondelle sottile, con quelle mani che volavano sul tagliere come quelle di una grande chef, senza mai ferirsi. 

Quella lama non aveva mai tagliato carne prima d’ora, mai assaggiato il sapore del sangue, perché mamma era veloce, ma attenta, e non si era mai tagliata. Mai, prima di quel momento. 

Hai visto cosa mi hai fatto fare? Aveva chiesto mio padre, e si era voltato verso di me e mi aveva dato una sberla, talmente forte il mio collo aveva scricchiolato e per un istante avevo pensato che la mia testa sarebbe rotolata via. 

Poi era arrivato il bruciore, forte come un ferro arroventato dove la palma e le cinque dita si erano imprese sulla mia guancia. 

Dove cazzo lo hai messo, eh? Aveva detto e mi aveva strattonato la giacca e aveva chiuso la mano intorno alla cinghia dello zaino e aveva tirato e avevo sentito il rumore dello strappo della tela cerata. 

Avevo barcollato all’indietro, lasciando andare la mia ancora di sopravvivenza e lui l’aveva squarciata, aprendola con foga. La cerniera rossa adesso sembrava un ferita sanguinolenta e slabbrata, dopo essere stata aperta con tanta violenza. 

Aveva svuotato il contenuto sul pavimento. I cracker e l’acqua e le merendine e i fiammiferi. Era tutto rotolato fuori come terreno franato da una montagna. E poi aveva afferrato la plastica rossa con il cerchio bianco sopra e la croce rossa incastonata dentro e l’aveva fatto scattare. 

Adesso ti insegno io a prendere ciò che non è tuo. 


- - - 


Avevo sempre uno zaino pronto, sempre sotto il letto, cracker e acqua e fiammiferi e un coltellino svizzero dal manico nero e nessuna croce rossa su campo bianco dipinta sopra. E soldi. Una cosa l’avevo imparata. Senza soldi non vai da nessuna parte.
Me ne andai di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. 

Me ne andai dalla signora Galloway. 

Me ne andai dai cognugi Rizzoli.

Me ne andai dalla casa famiglia in cui mi misero e dalla famiglia affidataria a cui mi affibbiarono e dalla seconda casa famiglia in cui mi misero. 

Me ne andai e me ne andai e me ne andai. 

Non lo dissi allora cosa facevo, anche se furono gli altri a dirmelo. 

È scappato di casa di nuovo, quel ragazzo! Non sappiamo proprio che farcene. 

Beh, ma io non stavo scappando, non ne la mia testa, lì non lo avevo ancora ammesso. 

Io me ne stavo solo andando. 

Mi immaginavo che scappare avrebbe voluto dire calarsi dalla finestra con il favore delle tenebre. Io in fondo prendevo solamente l’uscio, andandomene alla luce del giorno, zaino in spalla, salutando la ‘madre’ di turno, e poi continuavo ad andare, fino a che non si accorgevano che sarei dovuto essere già di ritorno e invece non c’ero.

Il trucco era essere imprevedibile. 

Per scappare, bisognava aspettare che abbassassero la guardia, che non si aspettassero che me ne volessi andare. Dovevo lasciare sbollire i moventi. 

Avevo litigato con la ‘nuova mamma’ o con ‘il nuovo papà’ oppure avevo risposto male all’assistente sociale? 

Il trucco era stringere i denti, aspettare una settimana, forse anche due, dipendeva, e poi arraffare lo zaino nascosto sotto il letto e sorridere mentre uscivo di casa, ‘ci vediamo dopo, buon lavoro, sì, certo, buona giornata anche a te, no, non è oggi il compito di chimica’. 

Gli ci voleva più tempo così a rendersi conto che ero sparito. 


- - - 


Mi resi conto presto che il problema, quando vivevi da solo ed eri un adulto, era che non si poteva scappare di casa. 

Me ne andai comunque. 

Eppure con il corpo rimasi sempre lì. 

Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga. 


- - - 


Mi ci volle parecchio tempo e parecchia più disintossicazione per arrivare a chiedermi se anche mio padre in fondo non se ne fosse voluto andare. 

Prendere la porta e uscire. 

E andare, invece che in un parco come me, a ChissàDove. 

Fu il mio momento di chiarezza. 

Che il mondo è tondo e se continui a scappare alla fine torni sempre al punto di partenza. 

Me ne andai anche quella notte, nonostante sapessi che andare era futile e vano e non avesse senso e avrebbe buttato all’aria tutto. 

Ma restare, quello non lo sapevo fare. 


- - - 


Perciò sono qui, ora, e mi guardo indietro e poi guardo anche avanti, e perché no, di lato sia a destra che a sinistra come se dovessi attraversare la strada, ma la strada non c’è più, non è neanche un sentiero nel parco, nemmeno una pista tra le fronde del bosco. 

La strada è ChissàDove. 

A forza di scappare e tornare al punto di partenza e continuare a girare in tondo come una bussola impazzite, le direzioni si sono confuse tutte e il paesaggio è sempre lo stesso. 

Quanto schifo mi farò domani? 

A destra la regia dice ‘parecchio’, a sinistra invece ‘un bel po’. In avanti ridono direttamente, come se la domanda fosse talmente banale da non meritare una risposta. 

Dietro sollevano le sopracciglia con un ‘guarda che facevi già schifo prima’. 

Che paesaggio di merda, in una strada di merda. 

Ecco quello che so fare: come darmi alla fuga. 

E direi che al momento mi è rimasta una sola direzione - e spero che non sia circolare anche quella. 

Adesso andiamo giù. 

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COW-T #10 - week7, m5 (immagine 3 - panorama Roma) 

WC: 1000 parole

- programma fic registrato parzialmente scritta e pensata prima del DPCM sul coronavirus - si ride per non piangere, suvvia - 



Era una notte buia e tempestosa e Caterina aveva preparato le provviste. 

La stufa a pellet ardeva lucente, riscaldando la soffitta che altrimenti sarebbe stato fredda, nonostante quell’inverno fosse stato particolarmente clemente, anche più del solito per essere un’inverno romano. 

Caterina si allontanò dalla finestra e dall’aria fredda che passava comunque attraverso l’infisso, lasciandosi alle spalle la veduta dello skyline della città Eterna. 

Era tempo di controllare che andasse tutto bene, prima che arrivassero le casiniste. 

Connessione wi-fi? Check. 

Patatine? Check.

Sottomarca di birra dell’Eurospin? Check. 

Plaid? Doppio check. 

Pizza da asporto rigorosamente consegnata da un fattorino con mascherina? Triplo check! 

Ora mancavano solamente le ragazze e poi la festa avrebbe potuto avere inizio, probabilmente l’ultima a cui avrebbe partecipato se le voci che volevano che quella sera Conte avrebbe diramato un decreto anche per il resto d’Italia erano vere. 

Caterina scacciò il gatto dal divano mezzo rotto che aveva recuperato in un robivecchi e pregò che Francesca e Margherita si ricordassero di mandarle un messaggio invece che suonare il campanello, perché altrimenti il cane dei vicini avrebbe cominciato ad abbaiare all’impazzata e non avrebbe smesso per le successive quindici ore. 

Se questa piccola grazia le fosse stata concessa, Caterina sarebbe riuscita a passare sopra a tutto il resto, il fatto che fosse una notte buia e tempestosa, che le università fossero chiuse, che ci fossero ancora dei dementi che sparavano Achille Lauro durante le lezioni online, come se dopo cinque giorni lo scherzo non fosse già durato abbastanza, il fatto che la mail del magnifico rettore per quella sera non fosse ancora arrivata (come le mancava Bologna e cosa le era saltato in mente di rimanere a casa fin da Natale a studiare, che tanto l’ultimo esame che le mancava era a fine febbraio e adesso l’Unibo era chiusa e lei era bloccata a Roma) e, ahimè, che Eleonora fosse stata colta dall’ipocondria e al primo starnuto - 'Dio santissimo, sei allergica al polline, ci sono le margherite in fiore da due settimane, non hai il coronavirus!’ - avesse boicottato la serata. 

Margherita suonò il campanello e Caterina maledisse tutti i santi perché lo stronzissimo pastore tedesco dei vicini aveva appena smesso di abbaiare per la scampanellata del fattorino della pizza. 

Quasi quasi le veniva da piangere, e quando poi vide tra le mani di Francesca un gioco da tavolo dovette proprio trattenersi. 

“Hai portato Pandemic?” 

“Mi sembrava il gioco appropriato!” 

Uh, sì, effettivamente cercare di salvare il mondo dalle malattie sarebbe stato anche appropriato - se solo quel gioco non fosse impossibile da battere e Francesca non avesse la sfiga immonda di riuscire a pescare la carta epidemia, tre volte di fila in cinque turni. 

Se solo Caterina al momento non avesse avuto un amore per l’umanità pari a Plague, invece. 

Alle spalle di Francesca, Margherita fece un gesto con la testa e sorrise, e Caterina aggrottò la fronte perché non era mai stata brava a comunicare senza parole.
Saltò fuori che la sorella di Francesca, Maria, aveva fatto un favore se non all’umanità almeno a Caterina e Margherita, e aveva fatto sparire metà delle carte città, così che il gioco fosse infattibile.
Se però Caterina doveva ringraziare la sua buona stella - per una volta -  era un fatto risaputo che le sfighe non venivano mai sole e con un rombo di tuono e uno scroscio d’acqua, il wi-fi cedette le armi e si dichiarò sconfitto. 

“E ora che facciamo se non possiamo guardare Netflix?” chiese Francesca. 

“Da telefono?”

“Perché, tu hai abbastanza dati?” 

Caterina scosse la testa. 

“Sto partecipando al COW-T,” disse Margherita guardandosi le mani. 

“Che fai tu con le mucche?” 

“Ma che mucche, Cate, non ti ricordi? È quella sfida a squadre dove deve scrivere fanfiction a randella per vincere. Io mi ricordo, Marghe, vai avanti!” 

“Beh, niente, pensavo che potremmo scrivere un po’. Il wi-fi non va, ma il computer sì, giusto? Io il tablet sempre in borsa. Possiamo fare a turni.”

“Io potrei usare carta e penna, sono alla vecchia.” 

“Perfetto!”  

“E poi te la rivendi per il COW-T?” 

“Ovviamente!” Il sorriso di Margherita si aprì in un ghigno malefico.

Caterina - che al contrario delle altre due, accanite fanwriter, scriveva una volta all’anno quando le veniva l’ispirazione - ridacchiò. “Io ci sto, però dobbiamo scegliere un fandom comune. Non esiste che mi veniate fuori con roba strana tipo quelle robe superpsichedeliche che scrivi su Devilman Crybaby, che poi mi tocca di stare ad ascoltare mezz’ora di roba che non capisco.”

“D’accordo, cosa vuoi? Harry Potter?” chiese Margherita

Boooring!”
“Dio, non scrivo su Harry Potter da mezzo secolo, una cosa più attuale no?” chiese Francesca, inarcando un sopracciglio. 

“Stavo per proporre Sherlock! Fai tu!”
“E subito dopo, cosa? Merlin?” 

“Cos’hai contro Merlin!”
“Game of thrones?”

“No,” intervenne Caterina, “tu hai letto i libri e ci infili dentro cose che non sappiamo e poi France non ha ancora finito la serie.”

“E allora proponi tu, qualcosa, ma che non sia uno di quegli anime che conoscete tu, l’autore e sua madre, eh!” alzò le mani Margherita.
“Quindi non c’è speranza che si voti per Ajin?” 

“Dei del cielo, no! Ma una cosa più easy e cheesy tipo One Piece?” 

“Ma dove lo vedi easy e cheesy One Piece?” Francesca era a un passo dall’offendersi.
“Solo perché tu sei bloccata a Marineford e non riesci a superare la morte di Ace, non significa che non si possano scrivere cose allegre e divertenti!”
“Ce l’ho!” Quasi urlò Caterina.
“Cosa?” 

“Le originali, ragazze! Le originali! Come abbiamo fatto a non pensarci?” 

“Ma le originali sono difficili!” 

“E allora scrivi di quello che ti pare, ma cambia i nomi. Ma ricordati che deve essere comprensibile anche per noi se non conosciamo il fandom. Pensala come se stessi scrivendo la versione decente delle cinquanta sfumature.”

“Ci sta.” accondiscese Francesca, mentre Margherita annuiva. “Kudos se riconosci il fandom alla base, però!” 

“Andata!” 

“Bene allora, fuori gli strumenti di scrittura. Tra mezz’ora minuti si passa alla lettura.” 

Wonderland

Mar. 18th, 2020 08:31 pm
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 Fandom: Originale

Challenge: COW-T #10 - week 6, mission 4 

Prompt: salto temporale + memory loss 

+ prompt di scorta - F1 - immagine

Wordcount: 916 parole



La casa nel parco non sembra qualcosa di cui fidarsi. Ha lati storti e angoli imperfetti e sembra uscita da una fiaba. 

Non si stupirebbe avvicinandosi di trovarla completamente costruita con marzapane, cioccolata e biscotto. 

Alice lo sa, ha un serio problema di omonimia. Ha lunghi capelli biondi e si rifiuta di indossare vestiti azzurri, perché a dieci anni si è già stancata dei continui scherzi dei suoi cosiddetti amici. 

Anche una bambina ha un limite di sopportazione a quante volte le si possa chiedere dove ha lasciato il Bianconiglio. 

Così al parco oggi ci è andata da sola.
Da sola, perché Marco le ha urlato contro ‘tagliatele la testa!’ e tutta la classe ha cominciato a gridare con lui e lei si è sentita sopraffatta, proprio come la sua omonima alla fine del cartone animato. Con la differenza che lei non si è svegliata di soprassalto. 

Alice sa che nel parco, da sola, lei non ci dovrebbe andare - e che se uno sconosciuto le si avvicina lei deve scappare, e che no, per quanto accattivanti, le caramelle non le deve accettare, sua madre glielo ha ripetuto fino alla nausea - eppure eccola lì, da sola, nel parco. 

Comincia a pentirsi se deve essere onesta, perché quella casina è inquietante e il cielo è plumbeo e promette pioggia. 

Però lei da sola in quella casetta non ci vuole entrare e a casa non vuole tornare. 

La porta si apre, quasi da sola e una testa rossa, una zazzera di capelli rossi ne sbuca fuori. 

“Ciao!” 

L’altra bambina non può essere tanto più grande di lei, un anno al massimo, eppure non ha avuto nessun problema a percorrere quei pochi passi che la distanziavano dalla porta sghemba e fare di quella casupola il proprio passatempo pomeridiano. 

“Come ti chiami?” 

“Alice!” 

“Io sono Tania! Non startene lì impalata, vieni a giocare!” 

Alice quella strana bimba non l’ha mai vista prima e poi quella casa le sembra stregata. A dieci anni, Alice non si fa nessun problema a dirglielo in faccia. 

Tania è una bimba itinerante, figlia di circensi in paese per lo spettacolo. Hanno i tendoni piantati proprio nel parcheggio del parco e poco tempo da dedicare ad un’undicenne scapestrata che si annoia un po’ troppo. Tania non lo racconta con così tante parole, semplicemente scrolla le spalle e poi ridacchia, “Certo che è stregata. È proprio questo il suo bello, no?” 

Con un balzo salta sulla piccola ringhiera di legno e, braccia aperte la percorre sinuosa come un gatto, prima di saltare giù con un piccolo balzo. 

“Dentro ci sono i folletti, Alice.” Le strizza un occhio quando è abbastanza vicina. 

Poi le prende la mano e la trascina dentro. 

E in compagnia quella casetta non fa più tanta paura. 


* * * 


La casa nel parco non sembra più qualcosa di cui non fidarsi. Ha sempre i lati storti e gli angoli imperfetti, ma non sembra più uscita da una fiaba. Non sembra più costruita con marzapane, biscotto e cioccolata. 

Le pareti sono mezze marcite, la pioggia ha corrotto il tetto, che ora è crollato in almeno due punti e il muschio ha preso possesso di quel poco che era rimasto. 

Inoltre adesso la casa è molto più piccola. 

No. Non è più piccola, ovviamente. È solo che lei non ha più dieci anni. 

Se deve essere onesta, Alice non si aspettava di tornare in questo parco, non dopo così tanti anni - trentadue, dannazione, sono passati trentadue anni da quel giorno - e di trovare quel relitto ancora lì. 

Ci aveva sperato, certo, perché era quello il punto dopotutto, no? Che la speranza è l’ultima a morire. 

Quasi le sembra che la porta si possa aprire da sola come l’ultima volta - sono passati trentadue anni e se lo ricorda come fosse successo ieri - e Tania sbuchi fuori, come uno dei folletti dei boschi che speravano di trovare allora. 

Avevano passato l’intera estate a cercarli, quei magici esseri misteriosi, da sole nel parco, tenendosi per mano e rifugiandosi nella casupola stregata - fatata - quando il sole picchiava troppo forte, a bere succo di frutta caldo. 

Poi quando Tania era ripartita, le aveva scritto lettere, da ogni parte del mondo e, quando tornava, una volta ogni due anni, sempre in un nuovo completino sbrilluccicante, con un nuovo trucco da mettere in scena, passavano ogni istante del loro tempo libero insieme. 

Alla casina però non ci erano mai tornate, troppo grandi e cresciute per visitare l’altare su cui si era cementata la loro decennale amicizia.  

“Ti ricordi?” Alice chiede, e si maledice, perché ovviamente, no, lei non ricorda un accidenti. 

“Cosa?” Tania alza gli occhi azzurri, leggermente acquosi e lucidi, verso di lei. 

Alice si prende un attimo per mandare giù il groppo che si ritrova in gola - una bambina, è di nuovo una bambina. La sua migliore amica si è ridotta a questo. 

Glielo aveva detto Alice, che era troppo vecchia, che a quarantadue anni avrebbe dovuto appendere la fune al chiodo.
Tania aveva sempre scrollato la testa, con la sua solita risata cristallina e aveva continuato a farlo finché la testolina non l’aveva picchiata contro una traversa, prima di essere raccattata dalla rete durante la sua ultima caduta. 

E da allora non ricordava più nulla. 

“Non ti ricordi proprio nulla?” 

Tania scossa la testa, i riccioli rossastri sembrano danzare intorno al suo viso. “Mi ripeti chi sei, esattamente?” 

Ci sono tante cose che Alice vorrebbe rispondere. 

Non ne dice nemmeno una. 

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Fandom: Originale

Rating: Safe

Challenge: COW-T, w5, m2

Prompt: Argentina

Wordcount: 3117 parole


Note: L’accuratezza storica di questo racconto è molto discutibile e spero che non si offenda nessuno dei due gatti che eventualmente lo leggeranno. 

Il fatto che invece gli addestratori facessero nonnismo alle reclute facendogli prendere in mano i cardi con le spine è vero (o per lo meno, così mi ha raccontato mio padre che ha fatto la leva lì in quegli anni). 



‘Tiago i fichi d’india li aveva sempre amati prima. 

Dolci e succosi, crescevano spontaneamente dietro casa sua, quel rudere giallo sperduto nella pampa a nord di Buenos Aires, nel triangolo di verde compreso tra la capitale, Rosario e Santa Fè. 

Li aveva sbucciati mentre sua madre canticchiava “Por el río Paraná venía navegando un piojo, con un hachazo en el ojo y una flor en el ojal,” facendo caramellare il latte in dulce de leche, e gli scacciava le mani con il mestolo, perché era troppo caldo e non ancora pronto. 

Li aveva sbucciati seduto accanto a sua sorella Maria che impastava la farina e la maizena e stendeva tanti piccoli dischetti di pasta frolla da cuocere nel vecchio forno. 

Li aveva sbucciati mentre suo padre dava le carte per il truco, passandosi la calabaza del mate con l’amico Miguel, sfidandosi a vicenda a bere dalla cannuccia metallica bollente senza emettere un suono, con suo nonno che masticava imprecazioni incomprensibili in Quechua quando perdeva e poi sbatteva l’asso di spade sul tavolo andandosene, mentre sue nonna rideva e lo canzonava in un  italiano ricco di accento, nessuno dei due capendo esattamente cosa dicesse l’altro se non nel senso - ma un senso in comune lo avevano trovato se poi alla fine si erano sposati e avevano fatto Gabriela, sua madre. 

Li aveva sbucciati e, sbucciandoli, li aveva associati per sempre alla famiglia, al focolare, alla casa felice e serena che lo aspettava dopo aver percorso a piedi i pochi chilometri che lo separavano da Victoria, la cittadina di Entre Rios dove lui e Juan, il suo migliore amico, il figlio di Miguel, potevano andare a scuola, o almeno fingere di farlo. 

‘Tiago i fichi d’India li aveva sempre amati per traslitterazione di sentimenti. 

Ma questo era prima. 

Questo era prima di ritrovarsi con i palmi delle mani al cielo e Juan chinato su di lui con un paio di pinzette a cercare di togliergli le spine ancorate in profondità nella carne, mentre malediva l’esistenza stessa dei fichi d’india, dei cardi e del sergente Rinaldi, quel figlio di puttana. 

‘Tiago aveva soffocato un’imprecazione tra i denti, quando l’ennesimo aculeo era stato estratto, lasciando al suo posto un punto rosso sanguinante. 

“Smettila di lamentarti! Se avessi fatto subito come ti diceva Rinaldi adesso non saremmo qui.” 

“Quell’uomo è un sadico-oh! OH! Fai piano, imbecille! Fa male!”

Juan aveva sbuffato, strappando un altro aculeo e la pelle di ‘Tiago si era tirata dolorosamente prima di lasciarlo uscire insieme a uno schizzo di sangue. “Lo fa per noi.”

“Non dire puttanate! Spiegami in che cazzo di modo sarebbe utile avere i soldati che non possono marciare per le vesciche ai piedi o che non riescono a tenere in mano un fucile perché si sono piantati da soli sta merda nelle mani.” 

Juan lo aveva guardato con occhi di ghiaccio, azzurri e duri, pieni di convinzione, la stessa convinzione che - ‘Tiago ne era sicuro - lo avrebbe portato ad una bella medaglia d’onore riposta con cura in una scatolina di velluto consegnata a Miguel insieme alle sue spoglie, sotto una bandiera albiceleste. Una fanfara funeraria, ecco a cosa lo avrebbe portato tutta quella voglia di eroismo. 

Come se dirglielo servisse a farglielo capire. 

“Spiegami quanto pensi di restare in vita tu, se alla prima spina che prenderai strisciando tra i rovi ti dovessi mettere a strillare come una ragazzina davanti a un ragno, rivelando la posizione ai nemici,” Juan gli aveva sbattuto le pinzette in fronte, come se stesse cercando di capire dal rumore se la sua testa fosse vuota o meno, ma dalle sue parole mancava il consueto scherno. “Il punto è che devi imparare a tenere in mano il fucile nonostante tu abbia spine di fichi d’india che ti escono dal culo.”

‘Tiago aveva fatto una smorfia, scacciando le pinzette con la mano come avrebbe fatto con una mosca. 

“È nonnismo, puro e semplice.”  

“Lo fa per noi,” aveva ribadito l’amico e per una volta Santiago aveva evitato di prenderlo per il culo dandogli del maricòn de mierda e insinuando che lo difendesse solo perché a Rinaldi gli sbavava dietro, uno dei tanti motti che facevano parte del loro crudo cameratismo. 

Come se ‘Tiago non avesse visto Juan morire dietro a Isabela per un intero anno prima di partire per l’addestramento. 

Però era troppo divertente far arrabbiare l’amico e farlo diventare rosso, quando in fondo c’erano le basi per farlo. Perché del sergente Rinaldi tutto si poteva dire, ma non che non fosse bello, Santiago poteva ammetterlo candidamente.

Rinaldi era esattamente tanto bello quanto era stronzo, biondo e con gli occhi azzurri - tanto che per anni molti l’avevano chiamato il Polacco -, dai lineamenti delicati come quelli di una donna e lunghe ciglia che lo facevano sembrare di un’innocenza virginale - se solo ‘Tiago non fosse stato dall’altro lato della sua rabbia -, superbo dall’alto dei suoi poco meno che venticinque, figlio di papà con carriera nell’esercito già spianata di fronte a lui. E poi, come se non bastasse la raccomandazione del padre a dargli la spinta a scalare i gradi, Ignacio Rinaldi era riuscito a farsi sparare ad una gamba nel ’78, durante l’Operación Soberanía. 

‘Tiago insisteva che sicuramente si era sparato da solo per fare scena perché, punto uno, non era morto - ahi ahi, ¡que mala suerte la mia!- e perché, punto secondo, in quell’aborto di invasione non c’era stato conflitto e questo lo dicevano persino le fonti che insistevano che l’esercito Argentino  fosse effettivamente sbarcato e avesse passato il confine con il Cile - informazione piuttosto di parte e patriottica e, molto probabilmente, falsa. 

Sì, quella pallottola nel polpaccio - probabilmente l’unica volata in tutta la serata del 22 dicembre 1978 -  gli era valsa la promozione da Caporale a Sergente. Come se non avessero perso pure quella di guerra. 

“Non l’abbiamo persa,” aveva rincarato Juan quando ne avevano parlato e ‘Tiago aveva alzato gli occhi al cielo. 

“Ah, già scusa. Abbiamo negoziato. E con cosa siamo rimasti?” 

Juan si era rifiutato di rispondere, ma ‘Tiago aveva dovuto rigirare il coltello nella piaga. 

“Picton, Nueva e Lennox non erano nostre prima e, guarda un po’, non sono nostre nemmeno adesso.” 

“Sì, ma possiamo attraversare lo stretto di Beagle, ora.” 

“E come noi, qualsiasi altra nazione.”

Ora.”
“Già, per la grande gloria del popolo Argentino nel mondo. Ci ringrazieranno tutti,” aveva fatto schioccare le labbra ‘Tiago. “E vedrai se non rimarremo con un pugno di mosche anche questa volta. Toccherà di nuovo al papa intervenire.” 

“Quanto sei negativo.”

“Si chiama realismo.” 

“E allora, signor realismo, che dovremmo fare secondo te, eh? Niente addestramento, sciogliamo l’esercito?”
“Non ho detto questo. Ma potremmo, per esempio, che so… iniziare non invadendo isole che stanno benissimo da sole?!” 

“Dio, ‘Tiago, vuoi una bandiera inglese da appuntarti al petto?” 

“Ma sono inglesi, porca puttana! Si sento inglesi, parlano inglese e…” 

“E sono su territorio argentino,” lo aveva interrotto Juan e Santiago aveva capito che era inutile tentare di farlo ragionare. “Dov’è il tuo orgoglio patriottico?” 

“Appena dietro il mio istinto di sopravvivenza, grazie tante.” 

“Sei impossibile, ‘Tiago.” 

“Sarà il nome, che mi inquina l’amore per la patria, dannati Cileni e la loro capitale” aveva ridacchiato Santiago, ma Juan non lo aveva trovato affatto divertente. 

“Non fare il coglione.”

Ma il coglione aveva continuato a farlo, antagonizzando il sergente Rinaldi più di quanto non fosse consigliabile e Rinaldi per tutta risposta aveva continuato a sorridere con quelle labbra pallide e sottili stirate in un ghigno. 

“Devi prenderli in mano quei cardi, Ortega, voglio vedere il sangue alla fine della giornata.” 

E Santiago aveva preso in mano i cardi e i fichi d’india e i rovi, fino a che i suoi palmi non ne erano usciti costellate di infinite stille di sangue che erano diventate croste e cicatrici e che poi erano sbiadite, mentre Juan perdeva la vista nel cercare di estrarre quegli aculei, le dita doloranti - che di quelle cicatrici ne aveva anche lui, anche se molte meno - strette attorno alle pinzette metalliche da ospedale da campo.

“Devi smetterla,” aveva sussurrato Juan e ‘Tiago aveva annuito, mentendo sapendo di mentire, che fare il coglione era la sua unica rivincita per essere stato portato in una guerra che non voleva combattere. 


* * *

Erano riusciti a tornare a casa, alla fine, dopo pochi mesi di guerra - troppo pochi in confronto a tutti quelli di addestramento che avevano dovuto sopportare, ma sempre abbastanza da bastargli per una vita intera - forse grazie alle catene di rosari che sua nonna Piera e sua madre Gabriela recitavano ogni domenica a messa, forse solo perché il loro momento non era ancora arrivato.

Ma erano tornati a casa. 

Erano di nuovo in mezzo alla pampa, alla pianura verde così vicina al fiume Paranà (lungo il quale veniva navigando un pidocchio con un accetta nell’occhio e un fiore all’occhiello) e alla casa gialla che sembrava tanto più grande ai loro occhi di ragazzi che del mondo non avevano visto che una briciola. 

Erano tornati a casa e sua madre aveva abbracciato entrambi e suo padre gli aveva dato delle pacche sulle spalle e Miguel era lì perché in fondo lo sapeva che il figlio avrebbe seguito ‘Tiago a casa prima di riprendere il cammino verso la propria e allora tanto valeva saltare un passaggio - e poco importava che ormai anche per Miguel e Juan la casa gialla in mezzo alla pampa fosse più hogar dei quattro muri vuoti più avanti lungo la strada. 

Nonna Piera aveva pianto e Maria aveva gettato le braccia al collo di entrambi e Santiago aveva sorriso alla sua famiglia, abbracciando anche Juan 


* * * 


Avevano approfittato del cielo terso e dell’assenza del beccheggiare della nave sotto i loro piedi e del fucile tra le loro dita per sedere attorno al focolare e sentirsi raccontare dal nonno di quella volta che insieme ad altri gauchos avevano bevuto troppo e quasi perso una mandria nella pampa, impiegando due giorni a riprendersi tutti i capi di bestiame dispersi per la pianura. 

Avevano giocato a carte, le regole del truco che finalmente avevano perso quell’alone di mistero, ora che da grandi potevano fingere anche loro di  - non aver visto cose - non avere quel dannato asso di spade in mano. 

Si erano passati la teiera di acqua bollente e la calabaza con la cannuccia metallica piena fino all’orlo di mate amaro, ricalcando i gesti dei loro padri, e quando Gabriela aveva portato loro alfajores appena fatti - la pasta frolla ancora calda, con il dulce de leche morbido che grondava sulle loro dita e lo zucchero a velo che gli impiastricciava il naso e il collo della camicia come quando erano bambini - Juan l’aveva ringraziata e aveva improvvisato quella canzone sciocca che lei cantava sempre - “Por el río Paraná venía navegando un piojo, con un hachazo en el ojo y una flor en el ojal,” - e Gabriela aveva riso veramente per la prima volta da quando era arrivata a casa la lettera di leva per Santiago, le rughe intorno agli occhi stanchi che per una volta si erano approfondate in gioia invece che preoccupazione.


* * * 


“Che cosa farai adesso?” aveva chiesto Santiago, sdraiato nel prato una mattina, mentre maggio volgeva al termine e la mucche vagavano placide. 

Juan si era puntellato su un gomito, per poterlo guardare in viso. “Il gaucho, come mio padre. Perché, tu che altro volevi fare?” 

‘Tiago si era massaggiato il collo, imbarazzato, tirandosi a sedere. “Pensavo… pensavo che potrei iscrivermi all’Università.” 

Juan aveva aperto la bocca senza sapere cosa rispondere. 

 No, non andare. 

Avrebbe voluto dire. 

 Rimani con me a bere mate e magiare alfajores e guardare le nuvole, mentre le vacche pascolano e  il mondo va avanti senza di noi. 

Avrebbe dovuto cercare di dissuaderlo. 

“Ti farai ammazzare, ‘Tiago.” 

“Pensavo la stessa esatta cosa di te all’addestramento, eppure eccoci qui,” Santiago aveva indicato la prateria con le mani aperte, le palme scarificate dalle migliaia di spine che Juan aveva passato una vita intera a togliergli. 

Ho dato abbastanza a questo fottuto stato, non voglio dargli anche te. 

Avrebbe potuto dire, e ‘Tiago lo avrebbe preso per il culo dandogli del maricòn sentimentale e gli avrebbe detto che la dittatura stava per finire, che ora che l’attacco alle Malvinas - alle Falklands - era fallito e che i militari se ne erano dovuti tornare a casa con la coda tra le gambe ci sarebbe stata la Democrazia, quella con la D maiuscola e lui voleva essere lì a farla accadere, o per lo meno a vederla accadere - se uno studente al primo anno di scienze politiche non avesse potuto fare di più. 

“Ti ricordi Esteban?” 

“Condividevamo la branda meno di un mese fa, demente, certo che mi ricordo Esteban.” 

“Gli ho scritto, ha detto che ai suoi serve un cameriere all’osteria e mi sono offerto di andare questa estate. Metterei via i soldi per iscrivermi e comincerei a conoscere gente.”
Non andare. 

“Quanto avanti sei già nella tua pianificazione?” Aveva chiesto Juan cercando contenere i danni, di non sembrare troppo acido, né ferito, né tradito. 

“Devo ancora dirlo a mamma e per papà sarà un colpo, ma comunque ci sarai tu qui, no? Praticamente sei stato adottato…” aveva svicolato e Juan aveva sentito lo stomaco farsi sempre più pensate e il nodo alla gola stringersi e il cuore tamburargli in petto. 

“Quando parti, ‘Tiago?” 

Santiago aveva guardato il cielo. “Ho il treno il 5. Di giugno.” 

Rimani con me, Cristo santo, perché cazzo te ne devi andare? 

Juan non aveva detto niente, la decisione di ‘Tiago, calata forte come una mannaia d’acciaio tra loro. 

“Fai il cazzo che ti pare,” aveva sputato Juan alzandosi, “non ce li porterò i fiori sulla tua tomba.” 

Sempre che tu sia abbastanza fortunato da averne una. 


 

* * * 


Il 18 giugno 1983 la Giunta di Galtieri si dimise.

Con il Generale Leopoldo Galtieri, oltre ai settecento militari argentini morti nella guerra delle Falklands, sparirono oltre novemila oppositori. 


* * * 


La corolla del crisantemo è rosso come una chiazza di sangue sul bavero del - fu Sergente - Rinaldi. 

“La trovo in forma, Rinaldi. È venuto a chiedere perdono per i suoi peccati?” 

Ignacio Rinaldi si volta, facendo perno sul bastone di legno - quello che ora è costretto a usare un giorno sì e uno no, perché quando cambia il tempo la placca di metallo nella tibia gli fa male quasi come se gli avessero sparato ieri, invece che più di vent’anni fa, - e si toglie il cappello. 

“Una cosa del genere.” 

Il Parque de la Memoria era gremito di gente qualche settimana prima, ma con il tempo la folla accalcatasi per l’inaugurazione era andata scemando e ora, tra le lastre di pietra con i trentamila nomi dei desaparecidos incisi sopra, si attardano poche persone. 

“E come mai invece è qui lei? Sono abbastanza sicuro che non abbia peccati di cui chiedere perdono.” 

No, nessuno dei due, direttamente, avrebbe peccati da cui essere assolti.  

Rinaldi aveva addestrato reclute, non fatto sparire studenti e comunisti e oppositori dentro le galere dell’ESMA. Ma fare parte della macchina a volte lascia un macchia invisibile di colpa addosso che è difficile da lavare via per quanto si sfreghi.

“A volte più che il perdono si ricerca la punizione, sergente. Girare il coltello nella piaga per aumentare gli ‘e se’ che ci frullano nel cervello.” 

“E se?” 

E se mi fossi impegnato di più per trattenerlo qui. 

E se lo avessi costretto a rimanere un altro paio di mesi, sarebbero bastati. 

E se… 

“Sì. E se. Ci pensa mai, sergente?”

Rinaldi scuote la testa con un sorriso stanco. “A cosa, Castaldi? A ‘e se non mi fossi beccato una pallottola’? E se fossi stato nella Capitale? E se fosse successo tutto questo, parte di quei nomi sarebbe colpa mia? Li avrei fatti sparire io?” Rinaldi si calca il cappello sulla testa, stringendosi nel cappotto contro il freddo dell’inverno. “O ‘e se la pallottola mi avesse colpito più su’? Tipo in testa?” Rinaldi scuote la testa ancora. “Non serve a niente chiedersi gli ‘e se’. Con i rimpianti e con i rimorsi i morti ci si puliscono il culo.” 

“Dovrei comunque cercare il suo nome,” Juan indica con un cenno del capo la lastra di pietra. 

“Di chi?” 

“Santiago.” 

“Ah, Ortega,” c’è un lampo di riconoscimento nei suoi occhi. Il loro deve essere stato l’ultimo gruppo a venire addestrato prima della disfatta, forse è per questo che se ne ricorda - il suo ultimo momento di gloria prima di essere costretto a tenere un profilo basso e sparire. “È qui anche lui?” 

“Sì, da qualche parte.”

“Da qualche parte,” Rinaldi sospira e alza il viso al cielo, inspirando l’aria fredda. “Sembra un po’ inutile con tutti i cardi che gli ho fatto tastare, ma guarda te. Cerchi di insegnare a sopravvivere a uno… ah, ma se non è lui il primo a tenerci, c’è poco da fare.”

Juan pensa che dovrebbe sentirsi offeso, ma non c’è cattiveria nelle parole di Rinaldi. 

“Lo so che mi odiava, eh? Era il mio lavoro farmi odiare. Forse ci provavo più gusto di quanto non avrei dovuto, ma che ci vuoi fare. Io ero bloccato qui, con i miei gradi nuovi e una gamba inutilizzabile e voi sareste andati a ricoprirvi di gloria, o così pensavo.” 

“Non c’è gloria nella guerra, sergente.” 

Rinaldi ridacchia. “Questo me lo dici adesso che hai - quanto? Quarant’anni?”
“Trentotto.” 

“Beh, trentotto allora. Ma io mi ricordo quando ne avevi a malapena diciotto, recluta Castaldi. Tu e il tuo spirito patriottico del cazzo. Il nostro spirito patriottico del cazzo.” Rinaldi claudica verso di lui e si ferma, “La vita è ironica, no? Ortega pensava che quello che si sarebbe fatto ammazzare in nome di un ideale saresti stato tu.” 

Juan sorride, “Già. È vero.” 

Rinaldi lo supera, sempre col suo passo ondeggiante e si ferma ancora, dandogli le spalle. 

“Puoi andare a cercare il suo nome, Castaldi. Non ti trattengo. Ma fatti dare un consiglio da uno che non è mai stato molto bravo a darne. Certe ferite bisognerebbe lasciarle cicatrizzare, soprattutto dopo vent’anni, non continuare a spargerci sale sopra. Non serve a te e sicuramente non serve nemmeno a lui.” 

“Quindi non dovrei neanche cercarlo, secondo lei?”
“Perché pensi che non ci sia? Che sia vivo e vegeto in un’isola tropicale dall’altra parte del mondo? Andiamo, non dirmi - e non dirti - stronzate, Castaldi.”  

“E che dovrei fare, eh?” 

“Accompagnami a prendere un mate.” 


* * * 


Avevo detto che non avrei portato fiori sulla sua tomba e sono stato di parola, no? 


danzanelfuoco: (Default)
 Fandom: Originale

Rating: Arancione

Challenge: COW-T, w5, m1

Prompt: Colpo di scena

Wordcount: 1554 parole (canzone esclusa)



 

In the land of make-believe, the situation’s critical 


Il divano su cui si sveglia non è il suo. La testa gli pulsa ancora dalla sbronza della sera prima e nel cercare di tirarsi in piedi rovescia lattine di birra vuote sparse ovunque sul pavimento. 

“Merda” impreca tra i denti, quando sente il liquido impregnargli il calzino. Evidentemente non tutte le lattine erano vuote. 

La stanza è un letamaio, confezioni di cinese take away abbandonate negli angoli che ormai hanno richiamato nugoli di mosche nella calura estiva, piatti abbandonati nel lavello, pacchetti di patatine accartocciati e rotolati ovunque. Ma Jake ha dormito in posti peggiori. 

Recupera da sotto il cuscino la semi-automatica con cui ha dormito e la infila nella fondina, senza fissarla con il gancio. Non si può mai sapere quanto in fretta dovrà estrarla e anche quei pochi secondi necessari a far saltare il bottoncino metallico potrebbero essergli fatali. 

Fruga nella dispensa alla ricerca di qualcosa di commestibile, nella speranza che non tutto il cibo sia troppo scaduto. Dio, quanto gli manca il caffè. Una bella tazza di caffè nero fumante, magari accompagnato da una ciambella al cioccolato. Ma principalmente il caffè. Cosa non darebbe per averne una bella tazza bollente. Gli viene l’acquolina solo al pensiero. 

Sbatte lo sportello della credenza con frustrazione. Da quando hanno tagliato la corrente il caffè se lo può solo sognare. 

Il mal di testa si fa sentire con una fitta che gli trapana il cervello, come a ricordargli che sta vincendo il dopo sbornia su qualsiasi rimedio della nonna lui possa provare a inventarsi. Il suo spirito di sopravvivenza gli ricorda che forse può recuperare un’aspirina, se la fortuna l’assiste, quindi cerca di raggiungere il bagno, scavalcando i mucchi di spazzatura di cui non vuole indagare l’origine. 

“Dio grazie” sussurra aprendo l’armadietto del bagno e trovandolo più fornito di una farmacia. “Una botta di culo, ogni tanto!”

Oltre all’aspirina in bella vista, che si affretta a stringere tra le labbra e ingoiare a secco, senza preoccuparsi di provare la leva del rubinetto da cui sa non uscirà un bel niente, sulle mensoline di vetro sono allineate boccette arancioni di ogni genere, tutte fornite di apposite etichette. 

Esamina frettolosamente una boccetta alla volta, accatastandole nel lavandino. Tre quarti della roba non sa nemmeno a cosa serva e, per quanto secondo la legge di Murphy quello che sta scartando gli sarà assolutamente necessario in futuro, a meno che non incontri un farmacista (cosa di cui dubita molto, sarà tanto se troverà qualcun altro di vivo), probabilmente morirà anche portandosi dietro tutte quelle pillole. 

“Beh, Hank Wilder, ti ringrazio molto” Jake fa sparire nella tasca dei jeans due flaconi di morfina - quella la conosce bene - e decide che la sua violazione di domicilio è durata anche fin troppo. 

Non che qualche poliziotto possa venire a dirgli qualcosa. Anzi, darebbe un braccio per incontrare un uomo delle forze dell’ordine in questo momento, se poi fosse anche armato di pistola non sarebbe male. 

Passano i tre secondi che Jake si concede per veder realizzato il suo desiderio, ma no, nessun essere umano si materializza dal nulla davanti a lui, divisa blu o meno. 

Beh, non che Jake ci sperasse dopotutto.

I poliziotti sono tutti morti. 

E quelli che non lo sono, sono tutti non-morti.

Il che non è molto meglio agli occhi di Jake. 

Si rimette in marcia, la bretella dello zaino che gli sega una spalla nonostante il cotone della maglietta. Il sole di mezzogiorno - almeno secondo il suo orologio da polso, ma non è che possa mantenerlo settato sul segnale orario della stazione ufficiale di Vattelapesca - gli appiccica la camicia addosso e la stoffa che sfrega contro la pelle bagnata di sudore e gli tira i peli, gli fa rimpiangere di non potersi mettere a petto nudo. 

Jake si domanda per l’ennesima volta quale sia il senso di tirare a campare. 

Metà della popolazione umana si è ammalata di un virus che li ha trasformati in zombie e l’altra metà è stata fatta fuori da tali zombie prima di potersi rendere conto che c’era qualcosa che non andava. 

Jake si dice che certo, ci devono essere delle altre persone vive, altre eccezioni alla regola, altri soggetti agli estremi della gaussiana - all’estremo dei vivi, possibilmente, e non dei morti di altro, nonostante gli zombie - ma per il momento lui non ha ancora incontrato nessuno. 

E se anche li incontrasse? 

Qual è il senso?

Jake non si è lasciato alle spalle una famiglia, una moglie o dei figli, niente di così drammatico, lui non sarebbe mai stato il perfetto protagonista di un film apocalittico - a volte si sorprende di essere il protagonista della sua stessa vita - proprio perché non ha nulla da cercare. 

Sì, d’accordo aveva una ragazza, ma lei era andata mesi prima, stroncata da un tizio a cui mancava metà della testa. Se ne è fatto una ragione. Stavano insieme da un mese e avevano scopato sì e no tre volte. Non ci ha pianto più di tanto, manco la conosceva così bene - cinico, sì, ma l’istinto di sopravvivenza tende a tagliare fuori tutte le perdite di energie inutili e il lutto è una di quelle. 

Comunque sia, lui non ha figli da ritrovare dall’altra parte del paese o una cura magica da tirare fuori come un asso nella manica una volta che abbia raggiunto l’irraggiungibile laboratorio all’orizzonte. No, lui non è il protagonista adatto, e se lo fosse questo sarebbe ‘Io sono leggenda’ - il libro, non quel film orribile con Will Smith - e a lui mancherebbe solo avere un cane, ma in ogni caso niente che possa portare un barlume di speranza nel suo prossimo futuro.

Anche se, considerando la fine orribile del cane, forse è meglio che questo non sia un film.

Comunque, Jake va avanti, cammina tutto il giorno senza meta spostandosi ai margini della città, evitando i cadaveri marcescenti - che camminino o meno - e, non appena il sole comincia la sua discesa verso il mare, comincia a cercare un’appartamento vuoto la cui serratura sia frettolosamente forzabile e con possibilmente qualcosa da mangiare. Quando è fortunato, come la sera prima, trova anche medicine, vestiti puliti, qualche lusso - l’ultima volta è stata una tavoletta di cioccolato, duro e secco, con la patina biancastra della data di scadenza passata da un po’, ma ormai cosa non è marcito? 

Se continua di questo passo ancora a lungo, Jake è convinto che gli verrà lo scorbuto. 

Sempre che qualcosa altro non lo ammazzi prima. 

Jake ridacchia. 

E in fondo potrebbe anche sperare che qualcosa lo ammazzi prima. 

Potrebbe anche lasciare che qualcosa lo ammazzi prima. 

Perché andare avanti sotto il sole cocente della California, spiagge dorate che sembrano cartoline del Sahara, il silenzio rotto solamente dall’occasionale sparo e lo splat dei cervelli che si spiaccicano sull’asfalto rovente in poltacei frammenti rossi, comincia a sembrare sempre più senza senso.

In lontananza Jake vede un’ombra. 

Se questo fosse un film sarebbe la morte. 

Se questo fosse un film sarebbe un amico, un essere vivente con cui fare squadra, con cui condividere qualcosa, con cui parlare.
Se questo fosse un film questo sarebbe l’inizio del secondo atto. 

Se solo questo fosse un film… 



 

Dead man walking, audition for the big show 



“Quanto credi che durerà?” 

“Non lo so, gli zombie li abbatte abbastanza bene, niente di grave. Ci siamo giocati la telecamera del Wallmart, ma in fondo possiamo riprenderlo da almeno altri tre angoli. E poi non prevediamo che rimarrà in zona ancora a lungo.” 

“Non ha un pattern di spostamenti.” 

“No. Non ha nemmeno una ragione per andare avanti in realtà. I suoi indici di gradimento stanno scemando. Il pubblico si deprime a vederlo depresso.”
“Ora ci vorrebbe un bel colpo di scena.” 

“Infatti abbiamo aperto il settore di Karen.” 

“Ma lei era alla ricerca del figlio, agli spettatori piaceva.”  

“Sì, ma tutti gli altri soggetti erano troppo lontani. Karen è l’unica che sia riuscita ad attraversare Los Angeles abbastanza in fretta da essere vicina a Jake.” 

“Ah, bene. Mio caro, prevedo un’impennata di ascolti.”

“Beh, la gente nei bunker dovrà pure guardare qualcosa no? È catartico.”

“Chi l’avrebbe mai detto che un’apocalisse zombie ci avrebbe fatto fare i soldi.” 

“E quando mai qualcosa non ci fa fare soldi?” 



 

You wanna go to heaven but you sold your soul 



In lontananza Jake vede un’ombra. 

Se questo fosse un film sarebbe la morte. 

Se questo fosse un film sarebbe un amico, un essere vivente con cui fare squadra, con cui condividere qualcosa, con cui parlare.
Se questo fosse un film questo sarebbe l’inizio del secondo atto. 

Jake si dice che se è uno zombie non gli sparerà. No, se è uno zombie, Jake lascerà che gli strappi via il cuore o il cervello o qualsiasi altra parte di sé gli interessi mangiare e si dichiarerà vinto. 

L’ombra si avvicina, assume i contorni definiti di una figura e, porca puttana, quella è una persona ed è viva. 

La ragazza gli sta puntando una pistola contro, la mano le trema visibilmente quando si rende conto che la persona davanti a lei non ha evidenti mutilazioni.

“Sei umano?” 

E Jake rabbrividisce, perché gli zombie non parlano.

“Sì, sono Jake. Jake Callahan.” 

La ragazza abbassa la pistola, visibilmente sollevata. Jake è il primo essere umano che incontra da quando tutta questa merda è iniziata, qualche mese prima. 

Con le lacrime agli occhi, la ragazza si presenta. “Karen. Chiamami Karen.” 



 

We never sleep, in California we’re dreaming

 

danzanelfuoco: (Default)
 Fandom: Originale

Rating: NSFW

Challenge: COW-T, w4, m3

Prompt: Non commettere adulterio o atti impuri 

Wordcount: 2900 parole


Note: BDSM, fem!dom, light whipping, aftercare


Quando la porta si apre Francesco sussulta. 

"Sono a casa!" urla Lucia, e il ragazzo sente la porta d'ingresso sbattere 

Ok, ok, può farcela. Non ha mai preso lui l'iniziativa e sta violando qualsiasi principio in cui abbia mai creduto, ma… può farcela.

Non commettere atti impuri, gli ricorda la voce di sua madre nella sua testa, e no, questo non é proprio il momento adatto per ricordarsi della volta in cui sua madre l'aveva beccato con le mani nelle mutande e di tutti gli Ave Maria che aveva dovuto recitare per penitenza.

"Francesco?" chiama Lucia non avendo avuto risposta.

"In camera da letto!" Risponde con voce strozzata. 

È solo la seconda volta che lo fanno e la prima… beh, diciamo che non era certo stato lui a prendere l’iniziativa. Piuttosto, Lucia lo aveva colto con le mani nel sacco e le cose avevano preso una piega inaspettata. 

Una meravigliosa piega in aspettata, ed è vero, Lucia gli ha detto che la cosa le piace e che lui deve assolutamente sentirsi libero di presentarsi in lingerie quando gli pare, che ci penserà lei a farlo sentire davvero bene, ma… il fatto di essere lui a fare la prima mossa questa volta gli fa battere il cuore a mille nel petto. 

Lucia si affaccia alla porta della camera e si inchioda sui suoi passi, sgranando gli occhi.

"Francesco?" 

Francesco, sdraiato sul letto, completamente nudo se non per le mutande di pizzo e le calze a rete nere agganciate alla giarrettiera, la fissa, cercando sul suo volto il minimo segno di retromarcia. 

"Sí?" risponde lui esitante.

Lucia si lecca le labbra "Cosa ho fatto di bello per meritarmi questo premio?" 

Il cuore quasi gli fa un balzo in gola. "Ti - ti piace?" 

Lucia, senza staccargli gli occhi di dosso, comincia a sbottonarsi la camicia.

"Oh tesoro, ma devi anche chiederlo? Sei un pasticcino. Mi fai venire l'acquolina in bocca." 

Lucia calcia via le scarpe e si avvicina al letto, con uno sguardo famelico che sembra davvero volerselo mangiare vivo. 

Francesco non si é mai sentito così esposto come ora e non sa se la cosa gli piaccia, gli sembra un po’ troppo, un po’ eccessivo e dunque abbassa lo sguardo, ma Lucia gli afferra il mento con una mano e gli solleva il volto perché lui possa guardarla in faccia.

“Posso fare una richiesta?” 

“S - sì?” 

"Un po' di trucco. Ti starebbe così bene."

Francesco deglutisce a vuoto. “Di - dici?” 

Lucia traccia il contorno delle sue labbra con il pollice, prima di ficcarglielo in bocca.

Francesco quasi senza pensarci succhia. 

“Sì, Dio, vorrei vederti con il rossetto sbavato come una puttana.”  

Francesco freme sotto le sue dita. 

“Perché è questo che sei, vero? La mia puttana.” 

Lucia sfila il pollice, grondante saliva, e gli spinge via la testa. 

“Alzati in piedi,” ordina e Francesco si affretta ad obbedire, mentre il sollievo per l’apprezzamento di Lucia si trasforma in eccitazione e aspettativa. 

“Ti ricordi la nostra parola di sicurezza?” 

Francesco annuisce, ma non pensa di riuscire a parlare, la gola troppo secca. 

“Ho bisogno che tu me la dica, tesoro. Qual è la nostra parola di sicurezza?”
“Koala.” 

“Molto bene,” Lucia gli sorride. “Adesso in ginocchio.” 

Francesco quasi cade come un sacco di patate e forse domani avrà due lividi neri, ma al momento non gli importa. 

Lucia si sfila la cintura di cuoio lentamente - consapevole che il ragazzo si sta bevendo ogni suo minimo movimento senza mai staccarle gli occhi di dosso -  poi la piega in due e afferra i due capi con una mano, facendola schioccare sul palmo aperto dell’altra. 

Il respiro di Francesco accelera, mentre Lucia gli si avvicina con passo ferale, girandogli attorno. Schiocca ancora la cintura contro il suo palmo e il ragazzo, teso come una corda, un fascio di muscoli contratti dall’adrenalina, sobbalza al rumore. 

Ciak. 

Un sussulto.

Ciak.

Un altro sussulto.

Lucia gli si posiziona davanti, gli posa la cintura sulla fronte e lentamente la fa scendere lungo il suo viso, lungo gli addominali fino alle mutande di pizzo quasi trasparenti, tese dalla sua erezione, poi risale, la sensazione del cuoio tiepido e duro contro la pelle calda del suo addome, del suo petto, del suo collo. 

Lucia usa la rigidità della cintura piegata per costringerlo ad alzare la testa. “Ne vuoi?”
“S- sì” balbetta lui, troppo poco sangue al cervello per articolare una risposta coerente.

“Sì, cosa?”
“Sì, domina.” 

Lucia si ritira, tre passi indietro. 

“Carponi.”  

Francesco si lascia cadere sui palmi delle mani e Lucia fa scorrere ancora una volta la cintura sul suo corpo, sulla sua schiena, seguendo il solco della colonna vertebrale fino ai suoi glutei. 

Può vederlo fremere sotto quel tocco, la paura e il desiderio di provare dolore.

Lucia afferra la fibbia della cintura e se la avvolge attorno alla mano fino a che non ne rimane che la porzione terminale, non troppo lunga da causare vero dolore, ma abbastanza perché a Francesco non sembri una passeggiata. 

Il sibilo della cintura nell’aria é l'unico avvertimento che riceve prima che il cuoio si abbatta sulla sua pelle, lasciandogli un'impronta rossastra su un gluteo. 

Francesco sobbalza con un “ahi”.

“No, no,” gli nega Lucia, “niente ‘ahi’ oppure smetto. Vuoi che smetta?” 

“No.”

“No, cosa?”

“No, domina.” 

“Allora chiedimelo gentilmente.”

“Cosa?”

“Chiedimelo gentilmente. Dì: ‘domina, ti prego, frustami’. Coraggio.”

“Domina, ti prego, frustami.” 

Lucia gli accarezza la schiena, ma non lo colpisce. 

“Ancora.”

“Domina, ti prego, frustami.”

“E non piagnucolerai come una mammoletta quando ti colpirò?”

“No, domina.”

La frusta improvvisata schiocca nell’aria ancora una volta, prima di calare sulla sua schiena e Francesco geme, ma non si lascia sfuggire una parola. 

 “Ancora?” 

“Sì - sì domina.” 

Ma Lucia non si muove.

“Ti prego, domina, ancora.”

“Molto meglio.” 

Lucia ripete il gesto, attenta a non fare cadere la cinghia più di un paio di volte su un punto già colpito. 

“Di più, domina, ti prego.”

Lucia colpisce un gluteo, poi l’altro, il retro delle gambe e la sua schiena, le sue spalle. 

Quando si ferma, il dorso di Francesco è una maschera arrossata su cui spiccano vermigli i segni delle frustate. 

“Basta, così, non vorrai farti male davvero, no?” 

Francesco ansima, cerca di riprendere fiato, troppo stordito ed eccitato. 

“Rimettiti in ginocchio.”

Il ragazzo ci mette un po’ ad obbedire, e non le risponde nemmeno il ‘sì, domina’ di rito, ma Lucia al momento può perdonarlo. 

“Mani dietro la schiena,” ordina lei di nuovo e questa volta lui è un po’ più veloce nel reagire. Incrocia i polsi dietro la schiena, ondeggiando un po’ nel sistemarsi, messo in difficolta dai talloni velati dal nylon affondano nei suoi glutei, arrossando ancora di più la pelle già irritata. 

Lucia si inginocchia alle sue spalle e, svolgendo la cinta e facendola passare intorno ai suoi polsi, gli blocca le mani, congratulandosi mentalmente con sé stessa per aver punzonato più buchi in modo da poter usare la fibbia e rendere più stabile la legatura. 

“Sei proprio una puttanella, non è vero?” Gli lecca il collo, risalendo per sussurrargli all’orecchio, poi strattona la cintura per essere certa che non ceda, e Francesco vibra contro i suo petto, mentre le parole gli vanno direttamente all’inguine e la sua sue erezione pulsa 

“Sì, cazzo!” sospira, quasi disperato. 

“No, no, niente parolacce, tesoro. Fai il bravo, altrimenti mi toccherà punirti.” 

Lucia si prende un istante per osservare il suo ragazzo, inginocchio ai suoi piedi, i capelli scarmigliati e il volto madido di sudore. Scendendo con lo sguardo un po’ si pente di avergli risparmiato il petto, ma non voleva nemmeno esagerare, questa era la loro seconda volta dopo tutto e non vuole certo che Francesco scappi via dandole della pazza malata. 

No, starà attenta e farà in modo che a lui non venga nemmeno in mente di dirle la parola Koala. 

Lucia si sfila i pantaloni, poi le mutande e getta tutto in un angolo. Avrebbe voluto farsi spogliare da Francesco, gli avrebbe fatto usare solo la bocca, ma lui non ha ancora la destrezza per una cosa del genere e lei è troppo eccitata per sottoporsi ai suoi infruttuosi tentativi, perciò per questa volta ha fatto da sola. 

Francesco si lecca le labbra, in attesa, ma non dice una parola. 

È un sottomesso naturale, ha già imparato che può ottenere di più se non chiede - a meno che non voglia essere punito per la sua impertinenza, ma anche questo fa parte del gioco. 

Lucia si avvicina al letto e posa un piede sul materasso, lasciando l’altro a terra, in modo da divaricare le gambe senza smettere di incombere su di lui, poi lo chiama. 

“Vieni, qui, tra le mie gambe.”

Francesco fa per alzarsi, ma Lucia lo blocca. 

“No, no, sulle ginocchia.” 

Così il ragazzo quasi striscia verso di lei e quando la raggiunge la guarda da sotto quelle lunghe ciglia su cui Lucia darebbe qualsiasi cosa per vedere un po’ di mascara. 

“Sai cosa devi fare, non è vero?”
“Sì, domina.” 

“Allora lecca.” 

La lingua di Francesco è prima esitante e incerta mentre lecca le sue grandi labbra risalendo verso l’alto, ancora e ancora. Sfiora il suo clitoride appena con la punta della lingua prima di tornare a scendere e ripetere il gesto. 

Lucia lo lascia fare, non ha bisogno di tutto e subito, si lascia andare al foreplay,  permettendo all’eccitazione montare dentro di lei. 

Francesco continua, guardandola dal basso con aspettativa, come se implorasse un segno di apprezzamento. 

Lucia mugula, “Oh, dovrai impegnarti molto più di così” e gli occhi di Francesco si induriscono di determinazione. 

La sua lingua si fa strada dentro di lei, saettando dentro e fuori come se a simulare un rapporto, veloce e rude, quasi a volerle dimostrare che ‘sì, si può impegnare molto più di così, deve solo stare a guardare’. 

Poi Francesco lappa il suo clitoride e, prima che la scossa di piacere abbia il tempo di arrivare al cervello di Lucia, chiude la bocca intorno a quel piccolo bottoncino e succhia. 

“Ah!” Lucia si lascia scappare sorpresa, mentre si scioglie e tutto si focalizza su quella sensazione, la suzione alternata alle brevi leccate.

Gli afferra i capelli, arricciandosi le ciocche tra le dita, spingendolo verso di sé come se potesse premerselo contro ancora di più e Francesco quasi non riesce a respirare affondato com’è nelle pieghe della sua carne. 

Lucia muove i fianchi, in scosse e singulti disperati, e Francesco non smette di leccare e succhiare dove può, dove arriva, senza nemmeno tentare di mantenere un ritmo. 

Lucia viene, sorprendendo persino sé stessa, perché non si aspettava un risultato così… appagante. 

Nell’afterglow dell’orgasmo, Lucia sente i muscoli dell’addome e delle gambe rilassarsi per impulso autonomo e si costringe ad aprire i pugni serrati sui capelli di Francesco. 

Quello coglie il segnale e si allontana, saliva e umori che gli colano sul mento e Lucia pensa di non aver mai visto una scena tanto erotica e che la ecciti così tanto, nonostante si appena venuta. 

“In piedi” Lucia ordina, ma le ginocchia di Francesco gli si sono anchilosate a stare così a lungo sul pavimento e i suoi muscoli sono a molto vicini a essere bloccati da un crampo, così lei gli slega i polsi, massaggiandogli la pelle arrossata e lo aiuta a tirarsi su e sedersi sul letto. 

“Tutto bene? Koala?” 

Francesco scuote la testa, “No, no, sto bene.” 

Lucia annuisce e con un gesto fluido si inginocchia tra le sue gambe. 

“Ma -” Francesco cerca di protestare, “non ho detto Koala!” 

La ragazza sorride, ghigna, “Divarica le gambe e sta zitto, devo prendermi cura del mio schiavetto. Altrimenti come farai ad essere abbastanza duro per scoparmi?” 

Francesco sgrana gli occhi, sorpreso, ma non si sogna di protestare oltre o disobbedire. 

“Mani dietro la schiena e resta fermo immobile. Se ti muovi, mi toccherà legarti di nuovo. O forse è proprio ciò che vuoi?” Chiede, facendo scorrere un dito sull’erezione intrappolata dal pizzo ormai fradicio di liquido pre-eiaculatorio.  

Lui scuote la testa e Lucia continua ad accarezzarlo, a stuzzicarlo senza mai dargli soddisfazione. 

Francesco spinge in avanti le anche, cercando di aumentare il contatto, ma Lucia ritira la mano e gliela pianta sulla coscia, spingendolo giù. 

“Fermo,” gli ordina e lui geme di frustrazione, ma si costringe all’immobilità. 

Gli accarezza lentamente le cosce, risalendo dal ginocchio verso l’inguine, le unghie che grattano contro il nylon delle calze, poi gli sposta lo slip, senza sfilarglielo e l’erezione di Francesco è già sotto i suoi occhi, dritto e lucido e grondante. 

Lucia lo lecca, un unica lappata dalla base alla punta, portandosi via il sale del sudore e del seme. Gli posa un bacio sulla cappella, poi le sue labbra si schiudono lentamente per prenderlo in bocca. 

Francesco trema e pulsa, e urla quando sbatte contro il fondo della sua gola. 

Lucia inclina la testa e lo lascia scivolare fuori quasi del tutto prima di riprenderlo dentro, ancora e ancora, e succhia, stringendolo tra le pareti umide della sua bocca.  

Lo sente diventare duro, di marmo, più di quanto riteneva possibile e questo è il segnale per smettere prima che lui venga, quindi si sfila con un oscenamente bagnato “pop” e un filo di saliva ancora ad unirli. 

Francesco protesta, o per lo meno ci prova, dalla sua bocca escono solamente parole incoerenti, e poi Lucia è già in piedi e in un attimo gli è a cavalcioni. 

È talmente bagnata che lui le scivola dentro immediatamente, affondando dentro di lei come in burro fuso, e Lucia muove le anche avanti e indietro, freneticamente. 

Da qualche parte lungo la strada, Francesco deve aver dimenticato del Koala - e anche Lucia - perché le sue mani le artigliano i fianchi, le afferrano le natiche e lui la sbatte già con foga, impalandola sulla sua erezione ancora e ancora e ancora.  

Lucia freme contro la sua pelle, singhiozza e si abbandona, senza nemmeno rendersi conto che se non fosse completamente persa dovrebbe ordinargli qualcosa e non lasciarsi trasportare da lui. 

Francesco geme, singhiozza, contro la sua spalla, le morde il collo e lei si contrae intorno a lui ed improvvisamente è troppo, troppo il calore di Lucia che lo avvolge e lo inghiotte e lo intrappola completamente, troppo il calore dell’attrito delle coperte sulla sua pelle già arrossata dalla cinta. Troppo tutto. 

Francesco urla e si riversa dentro di lei e il suo tepore le riempie il ventre e lei continua a muoversi aggrappandosi a quel poco che rimane dei suoi singulti. 

“Sei… stato… fantastico…” ansima, lasciandogli un bacio sulla fronte madida.

Rimangono abbracciati e incastrati insieme, con Lucia che gli accarezza i capelli fradici, a cercare di riprendere fiato.

“Proprio fantastico,” ripete, in una litania. 

Non è nemmeno del tutto certa che lui la senta al momento, ma non è importante. Continuerà a ripeterglielo finché non sarà abbastanza presente a sé stesso per rendersi conto delle sue parole. 

Lucia si alza, sfilandosi da lui, e la sua testa scatta a cercarla, gli occhi un po’ persi. 

“Va tutto bene,” Lucia gli accarezza i capelli dolcemente, “sono qui.” 

Poi si inginocchia tra le sue gambe e sgancia le calze dalla giarrettiera. 

“Lascia che ci pensi io a prendermi cura di te, vuoi? Sei stato bravissimo,” gli dice e gli sfila una calza.

“Guarda quanto sei bello,” continua, togliendogli anche l’altra.

“Proprio un bijoux, o un bisou,” ridacchia dello stupido gioco di parole, lasciandogli un bacio sulla coscia, mentre gli slaccia la giarrettiera. 

“Bravissimo.” Lentamente gli sfila anche gli slip di pizzo, stando attenta a non toccare parti eccessivamente sensibili per non fargli male. 

“Lo sai, quanto sei stato bravo?” Gli chiede rialzandosi e sedendosi accanto a lui. “Dimmi che sai quanto sei stato bravo.” 

“Sono stato bravo?” 

“Oh, di più, molto più che bravo. Stupendo. Ma voglio che me lo dici tu. E voglio che me lo dici credendoci, perché, davvero, Francesco sei stato meraviglioso.” 

“Sono stato bravo.” 

“Meraviglioso,” insiste Lucia, afferrando una coperta e coprendolo. 

“Sono stato meraviglioso.” 

“Sì, esatto. Posso venire sotto la coperta con te?” 

Francesco la guarda un po’ spaesato. “Sì, certo.” 

Il perché non dovresti? rimane sospeso nell’aria tra loro e Lucia sorride e si accoccola contro di lui. 


* * * 


“C’è altro che mi sto perdendo?” chiede Francesco mentre Lucia gli applica un velo di rossetto rosso sulle labbra carnose. 

“Un intero mondo, tesoro mio, un intero mondo.”
Francesco deglutisce abbastanza rumorosamente da essere tenero. “E mi insegnerai?”
“Tutto quello che vuoi.” 

Il ragazzo rimane in silenzio per un istante ponderando la risposta.

“Cosa… cosa mi insegnerai adesso?” 

“Potrei... Potremmo usare questo?” 

Francesco osserva l’ovulo, rosa e piccolo, e il telecomandino nelle mani di Lucia. 

“Quel… coso va su per -?”

Lucia annuisce e arrossisce, perché l’imbarazzo di Francesco è contagioso e questo forse è un po’ troppo? Lei vuole ancora poterlo guardare in faccia il suo fidanzato al di fuori della camera da letto. Forse sta sperimentando un po’ di top-drop - la paura di essere troppo intensa, di essere troppo e di romperlo, Francesco e tutto quello che hanno. 

“Oh,” Francesco non sembra particolarmente contento, ma neanche rifiuta e Lucia si permette di sperare. 

E in effetti il ragazzo è titubante ad aggiungere anche la sodomia all’elenco di atti impuri che non avrebbe dovuto compiere, ma… beh, è un po’ tardi per questo no? 

In fondo, se deve andare all'inferno, tanto vale farlo con stile.

Francesco annuisce. “Sì, va bene.” 


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Fandom: Originale
Rating: Verde
Wordcount: 2831
Prompt: Spia, Denaro, Relazione

Il cuore le batteva all’impazzata nel petto e l’ansia le stava torcendo le viscere. 

È solo l’adrenalina, Karen si costrinse a pensare. Solo il fottuto sistema ortosimpatico. Non c’è davvero un pericolo per cui calmati, porca puttana! 

Karen si costrinse a regolare il respiro, inspirando ed espirando ritmicamente. 

“Rilassati, andrà tutto bene,” Lauren le sussurrò all’orecchio, stringendole il braccio nell’unico gesto di conforto permesso in un luogo tanto ufficiale. 

Mentre attendevano che l’aula di tribunale venisse sgombrata dal processo ancora in corso, Karen non potè fare altro che chiedersi se questa volta non avesse fatto il passo più lungo della gamba. 

Fare causa ai suoi ex-datori di lavoro… Fare causa ad Harry… no, non Harry. Mr. Stoneway. 

Diamine, e Karen pensava che la sua vita fosse incasinata prima? 

Era stata tutta colpa sua, se solo non si fosse infatuata di uno stronzo sposato ora forse la sua vita sarebbe stata molto più semplice. 

Era stato quello il problema, il punto di rottura. 

Karen non era mai stata una di quelle che andavano a cercarsi i guai. Fin da bambina era stata abituata ad essere la “classica brava ragazza”, tre parole che erano state ripetute a profusione da chiunque la conoscesse, un’etichetta che Karen si era appuntata sul petto con orgoglio. 

Ligia al dovere e diligente, buoni voti a scuola da sempre, aiutava la madre in casa senza sbuffare, niente crisi adolescenziali, mai una droga, una sigaretta, una goccia d’alcool. Karen era “una ragazza acqua e sapone”, come sua madre ripeteva spesso. Era quasi un mantra per lei, una di quelle frasi che Mel Witthaker adorava ripetere spesso, soprattuto da quando suo marito le aveva abbandonate entrambe ed era fuggito con la segretaria di vent’anni più giovane. Quasi che Karen fosse stata la sua unica consolazione. 

Karen aveva terminato l’università e si era portata a casa il suo bel pezzo di carta, poi aveva trovato lavoro alla Ineseide Pharma Tech. La sua vita sembrava perfetta. 

E poi aveva conosciuto Harry. 

Che non fosse stata una grande idea invaghirsi del suo capo sposato, con diciassette anni più di lei e due figli a casa, Karen lo aveva capito subito. Ma al cuor non si comanda e stronzate varie. 

Oh, certo che lo avrebbe visto tutti i giorni comunque in ufficio, ma Karen avrebbe potuto evitare benissimo di innamorarsi di lui, per esempio evitando le lunghissime pause caffè e i drink dopo l’ufficio. Invece si era concessa il lusso di sbagliare per una volta nella sua vita. Un lusso che le era costato carissimo.
Karen aveva lavorato quattro anni alla Ineseide e ne aveva passati tre a rubare ore in camere di alberghi, mentre lei ed Harry inventavano riunioni durate fino a tardi per giustificare il ritardo nel rientro a casa. Non che alla madre di Karen importasse, le scuse non erano a suo beneficio. 

Tanto attenti lei e Harry non erano stati però, perché le voci avevano cominciato a girare e, col tempo, erano arrivate alle orecchie della signora Stoneway. 

Se Karen fosse stata un’idiota avrebbe detto che quello era il momento in cui la sua vita era andata a piedi per aria, ma Karen non lo era e sapeva benissimo che tutto quello che le era successo era una diretta conseguenza delle sue azioni. Karma, se vogliamo, anche se lei non ci aveva mai creduto. 

Sapeva di stare sbagliando eppure aveva sbagliato lo stesso. 

Violet Stoneway aveva messo il marito davanti ad un aut aut. O il suo matrimonio o la sua dipendente. Harry non aveva nemmeno dovuto pensarci prima di licenziarla. E proprio mentre stava per presentare un progetto per un nuovo farmaco. Karen aveva avuto una illuminazione quando aveva ritrovato la sua tesi di laurea, relegata in un angolo polveroso della stanza, perché chi mai rileggeva la propria tesi una volta discussa? L’idea le era venuta quasi per caso e sulla carta avrebbe potuto funzionare. 

Ma quando era stata licenziata, non se ne era più fatto niente. 

Certo, Karen ne deteneva la proprietà intellettuale, ma a chi mai avrebbe potuto venderla se nessuna azienda farmaceutica l’aveva assunta? C’era crisi e lei era stata mandata via e sebbene ai colloqui di lavoro avesse tentato di dire che era la sua cacciata era avvenuta per motivi personali, nessuno l’aveva poi richiamata. 

Se non fosse bastato sua madre l’aveva cacciata di casa, perché la sua dolce e brava bambina non avrebbe mai dovuto fare ad un’altra donna quello che il padre aveva fatto a loro e questa Karen - sua madre aveva sputato il suo nome come se fosse un insulto - Mel non la conosceva e non la voleva nemmeno conoscere. 

Così lei si era ritrovata senza lavoro e senza casa, costretta a dormire sul divano di Hélene, la sua migliore amica, finché non era riuscita a trovarsi un impiego sottopagato come centralinista e aveva potuto permettersi un monolocale delle dimensioni di una scatola da scarpe. Metà della cucina mancava per poterle permettere di avere un divano letto in cui dormire la notte. 

Non era ottimale, ma era decisamente un inizio. 

Era stata Hélene a presentarsi a “casa” sua con una idea. “Perché non ti iscrivi al Reality Challenge?”

Karen aveva riso, ma Helena era seria. 

“Qual è il problema? Pagano e anche bene, ho controllato. Pensi che se ti licenzi da questo prestigioso call center, poi non ne troverai un altro?” Hélene a volte abusava del diritto al sarcasmo. 

“Io odio i reality!” 

“Odi anche lavorare in quel dannato call center, ma lo fai lo stesso perché devi. Sono otto settimane, sempre che tu arrivi in finale, due mesi e ti pagherebbero quasi quanto guadagni in un anno lavorando a quella dannata scrivania. 

“Sempre che mi prendano.”

“Se ti prendono ti pagano, se non ti prendono non sei costretta a partecipare. È una win-win situation.”

Karen si era iscritta e fuori da ogni logica era stata accettata. Diamine, contro ogni probabilità era riuscita ad arrivare in finale. Questa non se l’era aspettata.

Aveva anche stretto qualche amicizia durante quel periodo - e con alcuni anche qualcosa di più - ma erano persone troppo diverse e i contatti che avevano cercato di mantenere una volta fuori si erano pian piano diradati fino a che le uscite di gruppo si erano ridotte a un paio di volte l’anno. Dopotutto era difficile incastrare gli impegni di così tante persone per frequenti rimpatriate, specie dal momento che nemmeno abitavano tutti nella stessa città. 

Ma se Karen ne aveva guadagnato in bagaglio sociale - non era mai stata brava a farsi degli amici - era anche vero che il Reality l’aveva riempita di opportunità. 

Oltre alla cifra che le aveva permesso di cambiare appartamento e di potersi concedere almeno una vera stanza da letto, gli strascichi della fama televisiva l’avevano seguita. Talk show e programmi serali la volevano come opinionista e per quanto Karen avesse sempre aborrito la cosa, i suoi interventi venivano pagati. Così Karen era stata chiamata a dare il suo parere sulle più svariate relazioni di gente di cui non gliene importava assolutamente niente. 

Alla fine era stato solo un colpo di fortuna che uno degli ospiti di una serata, circa nove mesi dopo la fine del Reality, avesse dato buca a poche ore dalla diretta e i giornalisti si fossero dovuti affrettare a riempire lo spazio con un servizio raffazzonato alla bell’e meglio su un argomento di attualità. 

Che per caso si trovasse ad essere un reportage sui no-vax era stato solo casuale, ma Karen era davvero un’esperta nel campo per una volta, così aveva parlato. Non che la conduttrice gli avesse concesso poi così tanto spazio, in fondo quello non era un argomento così interessante rispetto alle tresche di una show girl, ma a Karen era bastato per farsi notare. 

Il suo intervento successivo era stato in un programma di stampo scientifico e infine era riuscita a passare dietro le quinte, dove lei preferiva stare - le luci della ribalta non facevano per lei -, una perfetta consultant che solo raramente compariva in un qualche programma e, quando lo faceva, non era più la ragazza del reality. 

Per un po’ era sembrato andare tutto bene. 

Poi il suo difficoltosamente conquistato e fragile equilibrio era stato infranto. Era passato solamente un mese e e già le parevano secoli, da quando Carl era tornato nella sua vita. 

Lo squillo del telefono l’aveva distratta dalla sequenza di numeri davanti ai suoi occhi. 

Sollevando la testa dalla pagina, Karen aveva adocchiato il cellulare abbandonato sul comò e si era chiesta se valesse davvero la pena alzarsi dal suo caldo e comodo letto per percorrere quei pochi metri. Mentre si domandava se non fosse il caso di lasciar squillare il telefono (perché, davvero, chi chiamava alle dieci di sera? Poteva essere un centralinista in India che non aveva ben chiaro il fuso orario - e Karen ne aveva avuto abbastanza dei call center per bastarle una vita intera - oppure poteva essere urgente - ma Karen non aveva nessuno che la volesse contattare per una urgenza) il cellulare aveva smesso di squillare. 

“E questo risolve il mio dilemma” aveva pensato la ragazza prima di tornare a concentrarsi sul suo sudoku. Ah, come aveva fatto a non vederlo prima, in quella casella ci andava sicuramente un tre. 

Il telefono aveva ripreso a squillare. 

“Fanculo!” imprecando ad alta voce, Karen si era decisa ad alzarsi. Se fosse stato un telefonista indiano se non altro gliene avrebbe dette quattro. 

Il numero sul display non era salvato in rubrica, ma era locale. Karen aveva premuto l’icona verde. 

“Pronto?” 

“Karen?”

Le ci era voluto qualche istante per associare la voce ad un nome e collocarlo in un contesto. Non era passato poi così tanto tempo - cinque anni - ma era stato una vita fa. 

“Carl?” aveva chiesto con voce incerta. 

Cosa diamine poteva mai volere Carl da lei alle dieci di sera?

“Sì, ciao, Karen, scusa l’orario, ma in azienda abbiamo finito adesso, sai com’è la riunione è finita tardi e…”

Già, si ricordava i turni massacranti, le riunioni a tarda notte, gli straordinari quasi giornalieri, ma se non altro ben pagati. Tutto il suo lavoro ruotava a quanto tempo potesse passare in laboratorio sottraendolo alla propria vita. Non c’era da meravigliarsi che l’amore lei lo avesse trovato proprio sul posto di lavoro visto che viveva praticamente in azienda. 

“Mi hai chiamato solo per ricordare i vecchi tempi, Carl?” Aveva tagliato corto, forse più bruscamente di quello che avrebbe voluto. Dopotutto Carl le era sempre stato simpatico, forse se lei non avesse avuto la testa infilata tanto in profondità nel culo sarebbe pure potuto nascere qualcosa fra loro - qualcosa che non le avrebbe fatto perdere il lavoro per esempio.

“Cosa? Ah, no, scusami Karen, lo sai come sono fatto, tendo sempre a divagare. Arrivo al punto.” 

Ma Carl non sembrava voler arrivare al punto. Aveva esitato dall’altro capo della linea e Karen aveva cominciato a spazientirsi. 

Il suo licenziamento era ancora una ferita aperta nonostante i cinque anni passati e la telefonata di Carl non aveva fatto altro che spargervi sopra del sale. 

“Carl? Per quanto apprezzassi conversare con te all’epoca, sono le dieci di sera. O mi dici cosa cazzo vuoi o metto giù e torno a letto.” 

“Merda, Karen, è che non so come dirtelo, ma penso dovresti saperlo…” 

La ragazza aveva trattenuto il respiro. Quale notizia avrebbe mai spinto Carl a telefonarle dopo anni - forse c’entrava Harry? Un barlume di speranza le era tremolato in petto e lei, acidamente, si era costretta a sopprimerlo. Che stupida! E se anche ci fosse stato di mezzo Harry? Quello stronzo del suo capo le aveva promesso amore eterno solo per portarsela a letto e quando la moglie lo aveva scoperto… Non le doveva importare. 

Non le sarebbe dovuto importare. 

“… vogliono usare la tua ricerca.”
Le parole di Carl l’avevano riportata alla realtà come con l’acutezza di una secchiata di acqua gelida.

“Come?” 

“La tua ricerca sulle interazioni tra Amiodarone e tiroxina. È valida, qualche mese dopo che te ne sei andata hanno fatto partire la sperimentazione pre-clinica e funziona. Alla riunione di stasera hanno annunciato il passaggio alla fase clinica. Pensavo dovessi saperlo.” 

Karen non poteva crederci. 

“Cos- Carl, sei sicuro? Voglio dire…”
Una miriade di pensieri aveva cominciato a turbinarle in testa.

“Sono sicuro. E posso portarti le prove.” 

“Perché stai facendo la spia per me? Voglio dire, potrebbero licenziarti!” 

“Perché non è giusto, Karen. Senti, ho lavorato in questa azienda per molti anni e so come vanno le cose. So com’è Stoneway. E non penso che sia giusto il fatto che ti abbiano licenziato e il motivo per cui l’ha fatto.” 

“Lo - lo sai?”
“Ho visto il Reality, Karen. Hanno mandato in onda pezzi della tua audizione. Lo abbiamo saputo tutti.”

“Merda.”

“Ci dispiace. Stoneway ci aveva detto che era stato perché avevi falsato il rapporto sui dati dell’anti-coagulante, lo ha detto a tutti quelli che hanno telefonato per chiedere referenze sul tuo conto -”

“Che figlio di puttana!”

“Lo so! Ne ho parlato con Michael e Liza e anche loro sono disposti ad aiutarti.”

“Io - Non so cosa dovrei fare.”
“Noi sì. Conosci l’avvocato Lauren Jonnasson?”

“Quella che ha vinto la causa contro la Innermost Pharmaceutics l’anno scorso?” 

“È la compagna di Liza.” 

Ed ecco come Karen si era trovata nel corridoio della Sala di Giustizia al fianco di Lauren. 

Non capiva perché fosse così agitata. Si era ricostruita una vita, pezzo dopo pezzo e a fatica, ma ora era felice. 

Perché ora si sentiva come se tutto il suo mondo dipendesse da quel singolo responso?

Diamine, aveva davvero bisogno di una sigaretta. Aveva cominciato quando era stata licenziata, scegliendo la più lenta forma di suicidio, e si era costretta a smettere quando la sua vita aveva smesso di sembrarle completamente grigia. 

Non avrebbe ripreso proprio ora, sarebbe stata una sconfitta. 


E poi aveva capito. 

Quello era un capitolo della sua vita che era terminato così bruscamente - tranciato di netto, dalla mattina alla sera - che lei non aveva avuto chiusura. 

Aveva chiuso con il fumo, aveva chiuso con sua madre, aveva chiuso con il call center, ma non aveva mai avuto la sua chiusura con Harry, con il lavoro, con la ricerca. 

Era ancora una reietta. E no, non voleva tornare indietro, era perfettamente contenta con quello che aveva ora. Aveva cominciato a uscire con Carl, aveva preso un altro gatto, aveva un lavoro soddisfacente e una carriera che non le faceva sentire di aver buttato tutti i suoi anni di studio. 

Non sarebbe tornata indietro. 

Ma avrebbe fatto mangiare loro - alla Ineseide e a Harry - tutta la merda che le avevano buttato addosso. 

Si trattava di vendetta. 

E a giudicare dalle parole di Lauren - “Abbiamo il caso in pugno, Karen, vedrai che andrà tutto bene” - l’avrebbe avuta. 

“Miss Witthaker?” 

“Sì?” Karen alzò gli occhi sulla donna che le aveva parlato. L’aveva riconosciuta subito, era la Mayer, uno dei dirigenti della Ineseide, il volto che avrebbe rappresentato l’azienda in tribunale e che avrebbe trattato con gli avvocati. 

“Sono Ann Mayer e sono qui per proporle un accordo.” 


* * * 


“Chiariamoci, Harry, tu sei un manager bravissimo, ma sei laureato in ingegneria gestionale. Sei sostituibile. Se lei si porta via la ricerca noi avremmo quattro miliardi di dollari buttati nel cesso che andranno a vantaggio di qualsiasi azienda a cui lei scelga vendere il farmaco. Possiamo permetterci un fallimento, ma non possiamo permetterci che un’altra azienda si intaschi il nostro ritorno.”

“Io -” 

“Ci capisci non è vero, Harry?” 

Karen osservò lo scambio da lontano. Non riusciva a sentire le voci, ma poteva immaginare cosa stesse accadendo. Vedeva Harry gesticolare, l’espressione sconvolta sul suo viso, le sue spalle abbassarsi in segno di sconfitta. 

Karen sorrise e inalò il profumo di detergente al limone che permeava l’aria del quinto piano della Ineseide. 

Aveva detto che non sarebbe tornata indietro, si era riproposta di stroncare la Ineseide e quando aveva ascoltato la proposta della Meyer, si era dipinta un sorriso sprezzante sul volto mentre quella cercava di convincerla che sarebbe stato molto più vantaggioso per tutti se la Ineseide le avesse garantito un esoso risarcimento, si fosse scusata per le calunnie e l’avesse reintegrata a capo della ricerca. 

Alla fine Karen aveva fatto una sola domanda. “Quanto esoso?” 

Ann Mayer le aveva allungato un bigliettino con una fila di zeri notevole. 

La Ineseide non le aveva mai offerto amore eterno e non l’aveva mai tradita, non erano loro i veri cattivi. 

“Manterrò il mio attuale lavoro e il mio nome sarà il primo nella pubblicazione scientifica.”

“D’accordo.”

Karen si era chinata verso la donna con fare cospiratorio e le aveva detto. “Ed ho un’altra condizione.”

Non si era aspettata che la Meyer accettasse. “Io e lei andremo molto d’accordo, Miss Witthaker.” 

Karen sorrise mentre Harry veniva scortato all’ingresso dalla sicurezza. Poi l’uomo in giacca e cravatta si voltò verso di lei. 

“La sua scrivania è pronta, Miss Witthaker.” 


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Fandom: Originale

Prompt: Scorpione

Wordcount: 310

Challenge: COW-T #9, missione 12


“Sai, non amo che mi si prenda per il culo” aveva detto lo Scorpione, inclinando la testa. E aveva lasciato che il coltello sbattesse col piatto della lama sul palmo della sua mano, una, due, tre volte. 

“Non amo che mi si prenda per il culo, perciò ora tu mi dirai quello che voglio sapere.” 

Lo Scorpione non era famoso per i suoi modi gentili. 

A essere onesti lo Scorpione non era famoso, punto. Nessuno lo aveva mai visto. Nessuno di vivo se non altro. 

Era solo un nome, una leggenda. Se non fosse stato per il veleno che ricopriva i suoi stiletti - talmente particolare che nessuno era mai riuscito a riprodurlo, per quanto ci avessero provato - molti avrebbero provato ad imitarlo, a prendere il suo posto. 

“E perché mai dovrei farlo?” L’uomo legato ad una sedia aveva sputato ai suoi piedi e aveva guardato lo Scorpione con scherno. 

“Perché,” lo Scorpione si era chinato su di lui, "mio caro, io pungo.” 

Il viso dell’uomo si era contratto in una smorfia di incredulità e derisione. “Tu non sei lo Scorpione!”

Lo Scorpione aveva inarcato un sopracciglio e aveva sorriso. 

“Ah no?”

“Tu non puoi essere lo Scorpione. Sei una donna.” 

Lo Scorpione aveva riso e lasciato cadere il pugnale a terra. 

“Sei un altro di quelli.”

L’uomo non aveva avuto tempo di gridare. 

Gli occhi dello Scorpione erano diventati due spilli neri e dalla sua schiena, veloce come una saetta, la coda aveva colpito. Una puntura rapida, veloce, veleno iniettato nel suo collo e sangue spillato dalla giugulare

“Tu -” aveva gracchiato l’uomo, con la poca voce che gli rimaneva. Tu non sei umana. 

Non gli era riuscito di dirlo. 

Lo Scorpione si era sistemata il retro del vestito con le mani e aveva raccolto il coltello dal pavimento. 

“Oh, beh. Suppongo che dovrò cercare un’altra fonte.” 


Clashing

Apr. 3rd, 2019 04:46 pm
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Fandom: Originale

Prompt: Capricorno

Wordcount: 163

Challenge: COW-T #9, missione 12


Lei, Clara, all’oroscopo non ci aveva mai creduto, a differenza della sua ragazza che la prendeva in giro in continuazione. Che le stelle potessero influenzare il comportamento di qualcuno era una supposizione quantomeno irrealistica. 

Permettere a un qualsiasi imbecille di predire come la propria giornata sarebbe andata a partire da  modelli stereotipati poteva anche essere un’opzione, dopotutto non era così sciocca da pensare che ogni essere umano fosse unico e irripetibile a modo suo - per grandi capi, sì, insomma era tutta questione di DNA e sequenze di basi azotate che non sarebbero mai state ripetute uguali in nessuna persona, ma non era questo il punto. Il punto era che per quanto ognuno volesse essere un piccolo fiocco di neve superspeciale, alla fine gli schemi mentali erano sempre gli stessi. La vita era proprio come uno di quesi giochini giapponesi a scelte multiple. 

“Dio, quanto sei pragmatica. Sei proprio un Capricorno!” 

Clara si era dovuta trattenere dallo sbattere la testa contro il muro.


Breathing

Apr. 3rd, 2019 04:43 pm
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Fandom: Originale

Prompt: Cancro

Wordcount: 279 

Challenge: COW-T #9, missione 12


Tic, tic, tic. 

La lancetta dell’orologio proseguiva inarrestabile, scandendo il tempo secondo dopo secondo, nel silenzio della stanza. 

Irene taceva e si fissava le mani, senza sapere che dire. 

Quarto stadio, aveva detto. 

Ma che significava? 

Irene aveva osservato un minuscolo sbecco sulla lacca rossa che metteva a nudo l’unghia rosa sottostante e aveva lasciato che quella piccola crepa catalizzasse le sue lacrime. 

Quarto stadio. Ossa, polmoni, fegato. 

Quarto stadio. Cervello. 

Ecco perché si era svegliata una mattina senza riuscire a mettere un piede davanti all’altro, il braccio dentro che le formicolava e la stanza che le girava intorno.
In breve, ci sono cellule di polmone nel sup cervello. Possiamo provare a rimouoverle con un intervento, ma... 

Massa, tumore, neoplasia. 


Il rumore della chiave che gira nella toppa e poi dei suoi tacchi nell’ingresso, attutiti solo per un istante dallo zerbino, e suo marito dalla camera da letto che chiama. 

“Irene? Come è andata dal dottore, che ti ha detto?” 

“Niente, va tutto bene.” 

Non va bene un cazzo. Ho il cancro, sto morendo. 

Ma questo lei non lo dice. 

“E i capogiri?”
“Un po’ di pressione bassa, mi ha prescritto delle goccine.” 

Il fruscio del cartone che si apre, la rotella dell’accendino che scatta, lo sfrigolio della carta che prende fuoco e l’odore di tabacco riempie la cucina. 

“Dovresti smettere, Irene, lo sai che non ti fa bene.” 

Irene inala, sente il tremolio alle mani che recede, i nervi che si distendono e raccontare una bugia è ancora più facile.
“Prima o poi.”
Non dice, ormai è tardi. 

Suo marito annuisce, infilandosi il cappotto ed esce. Irene sente il fantasma del bacio che le ha lasciato sulla guancia. 



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Fandom: Originale
Rating: SAFE
Wordcount: 849
Prompt: La Luna
Challenge: COW-T #9, missione 11

Había algo de extremamente doloroso en quedarse en el cielo, noche tras noche, mirando hombres y mujeres pasar por esa tierra sin entender nada de la vida, sin entender qué precioso era lo que tenían entre las manos. 

Ella lo sabia, ella, mujer de vientre vacío, nunca hubiera tratado a su sangre como algunos seres humanos trataban a sus hijos. 

Y qué, si cada tanto podía tener su venganza y podía ser mezquina? Ella no era humana, no era una divinidad buena y justa. Ella simplemente era la Luna, blanca y alta en el cielo y si una mujer era tan imbécil como para conjurarla - a ella, la Luna, como si ella fuera una cualquiera hada madrina de los cuentos - bueno, esa mujer hubiera tenido que pensarlo mejor. 

Habían cuentos sobre ella, mujeres que sabían cómo el universo siempre tenia su maneras de restablecer el orden que se decían de madre en hija de tener cuidado en pedir cosas a la Luna. Pero en cada generación siempre había esa chica que pensaba “no, a mi no, yo soy mas lista, mas inteligente, a mí la Luna no me va a engañar”. 

Siempre. 

Pasaban años, décadas, a veces siglos, pero su paciencia siempre venia recompensada. 

Y ahora allí estaba, una gitana, llorando, ruegaándo para su intercession, conjurando la Luna con palabras mas viejas que el mismo mundo. 

“Para que quieres mi ajuda?” Le preguntó la Luna, escondiendo una sonrisa detrás una fachada de indiferencia.

“Hay un hombre…”

“Siempre hay un hombre.” 

“Me ha dejado.” 

“Y quieres que vuelva.” 

“Si.” 

“Sabes que todo tiene un precio.” 

“Que quieres? Qué puedo darte para que me lo devuelvas?” 

“Estas seguras que tenerlo de vuelta valga la pena?”

“Si” asintió la gitana sin necesitar ni un minuto para pensarlo. 

“Bueno, yo quiero el primer hijo que le bajas a engendrar.” 

“Pero -”

“Queres pensarlo mejor? Me puedo ir, si te has arrepentido de haberme conjurado.” 

“No!” La parò la mujer. “No. Esta bien.” 

“Tiene que ser un hombre maravilloso para que merezca este sacrificio.”

La gitana la mirò con ojos nublados de amor y luxuria. “Si, si lo merece.” 

No, no lo merecía, no podia ser un hombre tan maravilloso si la había dejada. Pero la Luna no era alguien a quien les importara. 

“Bueno, tendrás a tu hombre” desde el cielo habló la Luna llena, yéndose. “Vendré a recoger mi precio cuando estes embarazada.”

Quien su hijo inmola para no estar sola, poco le iba a querer.   


* * *


La Luna sonrió con la sonrisa de quién sabe perfectamente de poder ganar sin problemas y que resistir no las llevaría a ningún sitio.

“Ese hijo es mio!” Lloraba la gitana. 

“Me lo has prometido y ahora me lo vas a entregar.” 

“No.” 

“Y que dirà tu esposo cuando vea de que color es su hijo? Le vas a contar que fue toda una mentira? Que el unico motivo para que el te quiere es porqué yo lo obligué?”

“No, él sabe que este hijo es suyo, me va a creer, le diré que el niño esta enfermo. Hay enfermedades que le permitirían de ser tan blanco como nosotros padres no somos.” 

“Unos de los padres es tan blanco. Yo.” 

“Nunca te entregare mi hijo” la mujer se apretó el chico al pecho, negándose soltarlo y ponerlo entre los brazos tendido de la Luna.  

“Como quieres,” se retira ella. “Vamos para la malas entonces. Sabes que esto no se termina así, por supuesto.” 

Pero la mujer no quería escucharla. 

“No, a mi no, yo soy mas lista, mas inteligente, a mí la Luna no me va a engañar”. 


* * *


“De veras crees que es niño sea tuyo?” La Luna se río de él, malevola. “Es chico es blanco como su padre, tiene ojos grises. Que a caso te ves con ojos grises, tu? Quieres que te traiga un espejo?” La Luna le acarició el brazo, para insinuarle la oposición entre su mano blanca y la piel canela del hombre.  

“Eres un hombre de mundo, cariño. Los dos sabemos que otro hombre tendría que hacerse cargo de ese chico. Dejaras que esa mujeres te siga engañando? Los dos se ríen de ti. Dejaras que puedan hacerlo?” 

El hombre se dio vuelta en la cama y siguió durmiendo, las palabras de la Luna bien plantadas en su mente. 

Desdeñosamente, la Luna se fue. Ese hombre no era nada más y nada menos que como todos los demás. Para que esa mujer hubiese querido que regresara era un misterio para ella. 

Lo vio simplemente una vez más, en el mismo lugar donde la gitana la había conjurada la primera vez. Le dejó el niño, abandonándolo en el medio del bosque, para que se lo comieran los lobos. 

Y allí la Luna estaba, lista para recoger el chico, su chico. No era que los lobos se le hubieran comido en realidad. Ellos sabían que ese chico le pertenecía y eran animales fieles, más fieles que los seres humanos. 

La Luna no había podido evitar de notar que sus manos estaban manchada de sangre. 


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