Où mónon

Apr. 3rd, 2022 11:21 am
danzanelfuoco: (Default)
DEATH NOTE 

L/Light 

Cow-T #12, w6, m6: Sport (tennis) + NSFW
1125 parole

 

Sottovalutare il suo avversario era un privilegio che Light non si sarebbe mai concesso. Certo Ryuzaki non sembrava un grande sportivo, così pallido e scheletrico Light lo avrebbe preso più per un hikikomori sempre chiuso in casa davanti ad un computer, nemmeno in grado di tenere tra le mani una racchetta da tennis. 

E invece questo fantomatico L, se di L davvero si trattava, sul campo sapeva il fatto suo.
Light si deterse il sudore dalla fronte, pronto a scattare, mentre il braccio di L compiva un arco perfetto e la pallina impattava contro le corde. 

La palla volò oltre la rete in una parabola stretta e cadde sul terreno di terra rossa esattamente dove Light aveva previsto. Lo studente attese il rimbalzo e rispedì con un rovescio la palla dall’altro lato del campo. 

Ryuzaki era bravo, Light doveva ammetterlo, anche se l’idea non gli piaceva affatto, il suo cervello riusciva a calcolare gli angoli e le traiettorie per servirgli palle difficili e poi il suo corpo era in grado a tradurle in mosse ben riuscite. 

Stringendo i denti, Light corse dal lato opposto del campo, tendendo il braccio verso il lato più esterno per evitare che la palla, dopo il rimbalzo, finisse fuori. 

Poteva sembrare un errore, che L avesse tirato con un po’ troppa forza la pallina e che solo per un caso fortuito quella non fosse uscita direttamente dal campo. Ma Light era già al secondo set e dell’avversario aveva preso le misure. Ryuzaki non era uno da commettere errori così grossolani. L stava giocando per vincere, in tutto e per tutto, nel tennis come nella caccia a Kira. 

E rispedendo la palla dall’altro lato con così tanta forza e frustrazione da mandarla fuori campo, Light si disse che non se ne doveva dimenticare. 

 

 

Era bastato uno sguardo, una di quelle regole non dette degli spogliatoio maschili per cui sotto la doccia ognuno finge di essere da solo e non stacca gli occhi dall’irrigatore. 

Invece Light lo aveva guardato di sottecchi, solo per valutare l’avversario, e lo aveva trovato a ricambiare il suo sguardo.
L aveva inclinato la testa verso di lui, senza una parola e aveva sostenuto il peso dei suoi occhi. Forse Ryuzaki non la conosceva quella regola non detta, ma Light si era rifiutato di essere il primo a cedere e voltare la testa 

Si erano fissati per interi istanti che erano parsi secoli, con l’acqua che scorreva calda lungo i loro corpi nudi, e poi Ryuzaki aveva chiuso il rubinetto e senza prendere un asciugamano, ancora grondante, aveva girato attorno al muretto che divideva i due box. 

Forse Ryuzaki quella regola non detta la conosceva benissimo e conosceva anche il significato di infrangerla. 

Light non se lo aspettava, tutto avrebbe pensato tranne che L, o chi per lui, potesse volere questo da lui. 

Invece Ryuzaki gli si era avvicinato e poi gli si era premuto contro, incastrandolo contro la parete della doccia prima di baciarlo. 

Light lo aveva lasciato fare, curioso di sapere fino a dove si sarebbe spinto, di sapere se avrebbe potuto rivoltare a suo favore anche una avance del genere. 

Ryuzaki aveva fatto scorrere le mani lungo i suoi fianchi, sfregando i loro bacini insieme nel tentativo di far diventare duri i loro cazzi a mezz’asta. 

Light per tutta risposta non si era tirato indietro. Gli aveva morso il labbro inferiore e gli aveva afferrato il culo, tirandoselo più vicino. 

Ryuzaki si era lasciato sfuggire un gemito contro la sua bocca, e poi si era staccato da lui per guardarlo in faccia. “Prima di andare oltre, l’etica mi impone di informarti che penso che tu sia Kira.” 

Light aveva aperto la bocca sorpreso e l’aveva richiusa, senza sapere cosa dire. Poi era scoppiato a ridere. 

Ryuzaki lo aveva osservato incuriosito, senza capire cosa avesse scatenato la sua ilarità.

“Cioè, l’etica ti impone di dirmelo, ma non ti impone di non scoparti un sospettato?” 

L aveva schioccato le labbra. “Esattamente. Dovremmo giocare a carte scoperte.” 

“Stai cercando di portarmi a letto solo per scoprire se sono Kira?” Light gli aveva chiesto divertito, stringendo la presa sul suo culo. 

“No,” Ryuzaki aveva scosso la testa, “Non solo per questo.” 

“Non solo?”
“Non solo. È un problema?” 

“Assolutamente no.” 

Light lo aveva baciato, gli aveva fatto passare la lingua tra le labbra, costringendolo ad aprirle, e Ryuzaki per tutta risposta aveva cercato di invadere la sua bocca. 

Era una gara anche quella, una sfida, ed entrambi avevano intenzione di vincere.

“Sei andato a letto con tutti i tuoi altri sospettati?” 

“Chi ti dice che io abbia altri sospettati?” 

Poi, senza dargli il tempo di replicare, L si era lasciato cadere in ginocchio sul piatto della doccia e lo aveva preso in bocca. 

Light aveva provato a muoversi, a spingere le anche verso di lui, ma Ryuzaki lo aveva tenuto fermo, gli aveva impedito di scopargli la bocca. Anche in quella posizione, stavano lottando per il comando. E qualcuno potrebbe pure pensare che con i denti così vicini alla sua erezione, quello in posizione dominante fosse in realtà L. 

Non che a Light importasse al momento, la sua mente lucida, era appannata dalla suzione della bocca attorno al suo cazzo, alla mano di Ruyzaki che si muoveva dalla base fino alla punta seguendo il movimento ritmico e ondeggiante della sua testa. 

L non gli aveva lasciato possibilità di muoversi, nemmeno di tentare di sopraffarlo e di nuovo Light si era stupito della forza nascosta in quelle mani sottili, in quei muscoli inesistenti, poi non era riuscito a pensare più a niente, non abbastanza coerente nel suo piacere per mettere in fila due parole. 

L si era tirato in piedi e si era pulito l’angolo della bocca con il pollice, Light lo aveva osservato tra le palpebre socchiuse. 

“Di soliti preferisco il dolce,” aveva detto, quasi tra sé e sé, e Light aveva sentito un fremito al pensiero che avesse ingoiato. Al pensiero che il più grande detective del mondo gli avesse appena fatto un pompino nelle docce. 

Si era staccato dalla parete e si era avvicinato a lui. L lo aveva lasciato fare, senza staccargli gli occhi di dosso. Poi Light aveva chiuso la mano attorno alla sua erezione e aveva cercato di ricambiare il favore, leggermente incerto, lui che era perfetto in tutto quello che faceva. Imparava in fretta, però, e aveva considerato una vittoria ogni gemito strappato alle labbra strette tra i denti di Ryuzaki. 

L era venuto sulla sua mano, era venuto con un grido, ma non aveva chiuso gli occhi, quello no. Non si fidava di lui abbastanza per perderlo di vista. 

Light era intrigato. Quella, oh quella sarebbe stata davvero una bella partita. 

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MCU 

Tony Stark/Loki 

COW-T #12, w3, m4: Millionaire playboy 

1565 wordcount 

Five times Tony screwed up literally and metaphorically (and one time he still did, but just literally)  


I. Tony Stark doesn’t need a lecture about things he shouldn’t do, he needs a whole University class dedicated to him and on how not to screw your life over.
Corollary on: how not to do so by screwing one of Earth’s worst nightmares. 

The thing is, when Tony Stark - genius, billionaire, playboy, philanthropist, you know the drill - is threatened he recurs to sarcasm, irony and witty remarks. Really it’s not his fault if that’s also the way he flirts. Somebody should really cut him so slack.
And, if he might add in his defense, he didn’t know being a sarcastic jerk was also Loki’s way of flirting so that they went from trying to up each other, escalating while trying to make the other feel uncomfortable to the point when the ended up actually kissing and hate fucking on every surface of the lounge for hours. 

Not his fault, even if, honestly, Tony should have expected a god to have that much stamina. 


II. Tony Stark is very very smart - genius, billionaire, playboy, philanthropist, and really are we still hung on that definition? It was a smart ass remark he had done once to spite Captain Popsicle. 

Anyway, Tony Stark is very very smart, so it’s a given he should learned faster than other people - fool me once, shame on you; fool me twice shame on me, and all that shit.
So how come had he managed to end up in this situation again?  

“It’s because 

“Modest.” 

“You did worship me quite a lot tonight.”
“I don’t call that worshipp- wait a second, is that the way you do it? Because if that’s so, I’ve prayed at the wrong church all this time.” 

“You don’t pray, Stark.” 

“True,” Tony nods, “Still, I could be swayed.”
“Could you?” Loki looks at him with a calculating glance and no, no, abort mission, he can see his thoughts heading down the wrong route. 

“Hey, hold your horses, Shakespeare in Love. You can’t fuck me to your side of the barricade, do you realize?” 

“Of course,” Loki’s still looking at him, and Tony really hopes he’s agreeing to the fact that he won’t be swayed, ever. Like not even in a million years. Why does it sound like ‘of course, I can’? 

“I have principles,” Tony reiterates, just to make it clear. 

Loki hums, and looks at their naked bodies on the bed - at least this time they made it to the bed - as if indicating what he really thinks of the moral fiber of his principles, but spares him any comment. 

Thank him for small mercies. 


III. If one is an accident and twice is a coincidence, then three is a pattern, and Tony has just fallen into one hook, line and sinker. 

Maybe he’s not that bad - because Tony Stark is also a skillful liar, and the person he lies best to is himself.
Maybe it’s not that bad, if Loki’s with him, he surely can’t be out there destroying half the city or planning to take over the world.
Sure Loki can multiply himself - three is the magic number - but Tony’s almost sure that his clones can act on the physical realm just in close range to the original Loki and even then he’s sure enough of himself to know that when he does that thing with his tongue even a god cannot resist him - hey, ‘modest’ wasn’t in the job description. 

And oh, look at him, he’s also collecting intel on the enemy’s abilities. 

Maybe it’s not that bad. Hey, maybe it’s even a good thing. (A fool, he’s a fool, but it’s a thin line between genius and insanity). 


IV. It goes all well until it doesn’t. 

He should have seen it coming, he should have expected some fallout, but Tony is just that much of an optimist. 

There are the Avengers there and they caught him hands in the cookie jar - where the cookie jar is Loki and Tony has his hands in him. 

Then Loki disappears, one moments he’s sprawled under him, moaning in his ear how good he his, clutching his muscles around his cock, clawing at his shoulder as he rocks in time with him, and then - 

“What the fuck?” Steve asks, his best impression of the ‘I’m clutching my pearls’ meme Tony has showed him some days before. 

“Do you mind?” 

Which probably isn’t the best answer he could get, because Steve’s looking at him as if he were about to explode - a sane persone doesn’t get found in bed with one of humanity worst enemy and then just asks for some privacy, but then again, a sane person probably wouldn’t have slept with Loki in the first place. 

- and then Loki’s gone, vanished from under his fingers, and Tony’s left with a bunch of Avengers to deal with, trying to explain to them why he was having sex with Loki of all people. 

As he tries to make it clear to Natasha that no, he doesn’t have that much of a death wish, he can’t help but think that this could have gone another way if Loki had wanted so. He could have made them invisible, while they kept fucking mere inches by Captain America (Tony’s sure this is something Loki would have enjoyed immensely) or he could have left before he could be seen, or he could have told him, or. 

No, he wanted to be found out, he wanted the Avengers to know and Tony to be in deep shit. And oh, how his plan worked. 


V. There’s an internal trial and they pinpoints him to be mentally controlled. Loki never could with his scepter, and Tony’s pretty sure that it was all him and his bad decision making skills that screw it up. Still, they think that him denying it and taking all the blame is a serious proof that he was actually manipulated into thinking so. It wouldn’t be the first time, even if Wanda’s power and Loki’s powers are nothing alike and he should know because he has experimented both of them on his skin and isn’t that amazing how as soon as he gives them some casual intel on Loki’s magic Shield is suddenly much more keen in keeping him free?

It also doesn’t go unnoticed that Tony might have been delusional, but Loki’s attacks on Earth, from a purely statistic standpoint, have drastically reduced. 

They don’t know if that’s a pattern, because that’s just six months, and it doesn’t mean anything in the long run, but it’s also undeniable that just one artifact theft in an Oslo museum in six months is almost boy scout behavior for Loki. 

Tony doesn’t know what to think about it, but Thor vouches for him - Tony would have expected the shovel talk, but considering the ‘I love you, my brother, why won’t you come back to the good side?’ puppy expression Thor always gets when he thinks about anything even remotely connected with Loki, maybe the god of thunder just hopes that Tony could fuck him to their side of the barricade instead of the other way around. And oh, well, maybe that’s a plan that Tony could put in action. 

After all, Tony is really confident of that thing he can do with his tongue. 




+1 

"If you talk again about my brother in such a venue, I shall evirate you and then proceed to lead an alien invasion on a city of your choice." 

Tony stops nibbling at his ear and doesn't comment on the fact that Loki has referred to Thor as 'brother'. 

“Of my choice?”
“I am that magnanimous.”

"Ok, ok, no talking about work in bed," he says and wickedly smiles before licking a stripe of skin, following the column of his neck. 

"It's not work," Loki points out, but doesn't throw him out of the window, so Tony makes the most from what he has. He could be petty and obnoxious and going on telling him that yes, it is, but Tony knows his limits. 

"Fine, no talking about rehabilitative programs and what you are doing to help us, but that is totally not a foot in to the initiative," Tony goes on, because, who is he kidding, of course he won't let him have the last word - he also knows his own limits. 

"Do you realize that telling me Thor would be so happy to have me there is actually a deterrent to join your useless Avengers thing, right?" Loki asks as if Tony where stupid - hello, uh, genius, anybody? 

"I do, but I also hoped to give you an incentive to stay that was way bigger than whatever counterpoint you could have." 

"Bigger, eh?" 

Tony licks his lips in reply. 

"Oh, Stark, you are not that good."

"Yes, sure," Tony doesn't let his grin falter, after all he was really good enough to bring him to their side, and decides to let it go, "Let's just see if that's true.”

danzanelfuoco: (Default)
Fandom: Harry Potter

Ship: Harry Potter/Severus Snape

Rating: NSFW 

Challenge: COW-T #11, w6, m6

Prompt: Relazione forzata tra due protagonisti che si odiano, ma poi l'amore troverà la via. 


Previous chapters
 

The first day Harry was actually relieved. 

Snape was giving him space, or so the vial of Suppressing Potion left on the table along with breakfast and the study program for the day implied, and Harry thought that was really a smart move. 

He didn’t know what he was thinking when he had asked Snape to use Legilimency on him - maybe that he would make up his mind about Harry, maybe that their strained relationship would ease… For sure, he wasn’t expecting the professor to Mark him on the spot, but at least he could give him some form of recognition. Instead Snape had retired from his mind with an unreadable expression and had excused himself telling him he need time to think. 

Which ultimately was what Harry wanted, wasn’t it?

For Snape to think and re-think what he (thought he) knew about him. 

Yes, a little bit of distance was what they needed and then they could sort that mess out. 

Except Snape didn’t return for lunch, nor for dinner and Harry waited all evening on the couch, only half reading his copy of “Quidditch through the Ages” while putting out an ear for Snape’s approach until he fell asleep.
When he woke up, Snape’s door was closed shut and he was tucked in a blanket, the book he was reading delicately closed on the coffee table with his glasses folded over it. 

So the second day, it was weird. 

Snape was avoiding him, Harry realized. 

He was the one who had laid his whole existence bare in front of the man who had made his life’s goal to hinder him at every possible chance - and Snape was the one avoiding him.
Harry repressed the need to write back a big “fuck you” on the daily study program and downed the potion. 

By lunch time anger had subsided to the more rational thought of ‘maybe he needs time to process the fact that he has been an asshole for four year and he was wrong all along’. Wishful thinking, he knew.
What ever went on in Snape’s mind, he was curious. 

But the third day though, he was beginning to feel itchy. 

The Suppressing Potions were doing what they were supposed to do in replacing the Alpha’s touch, but they just… they just weren’t enough. Snape had to know, because he was the one who told him in the first place that a minimum of contact was required. 

And Snape was denying him that contact, out of what? Spite? Or was it because he couldn’t face him? What was his problem? 

Harry hadn’t allowed him on his mind just to be completely ignored afterwards.  

So Harry didn’t take the third potion in a row. 

No, Harry waited and gathered his well known Gryffindor courage, and when he woke up again on the couch under that damn blanket, he didn’t go to his room feeling betrayed. 

He reached for Snape’s closed door and knocked. 


* * * 


Snape closed his eyes and pushed the blanket away. 

He couldn’t sleep. 

He kept seeing the same scenes, again and again, as if they were carved in the back of his eyelids. 

Harry Potter, sleeping in a cupboard for almost ten years of his life, the darkness, the cobwebs, the solitude. 

Harry Potter, being chased and kicked and punched, just because it was funny to his cousin, that little pathetic boy crying on cue and blaming Harry just because he could, and Petunia and Vernon taking it out on him, closing him in that cupboard, denying him food, forcing him to work in the garden and in the kitchen, cooking breakfast he wouldn’t be able to eat, washing dishes he didn’t use. 

Harry in a room and bars at the window and a cat flap on a locked door, segregation, imprisonment, that’s what it was, and Dudley asking him if Cedric Diggory was his boyfriend, mocking him without even knowing what was happening in the world outside his little pretty white muggle house and neighborhood. 

Harry facing Voldemort in a dark graveyard, his blood spilled, and clutching Diggory’s corpse as he escaped. 

Harry being an Horcrux and having to die. 

Then back to Petunia trowing a frying pan at Harry and Harry dodging it. 

He watched and he knew Harry would dodge it, Petunia knew Harry would dodge it, Dudley knew it and Vernon too because this kind of things happened when Harry was involved. But still, she threw a fucking frying pan at him. 

Then the gaslighting, his parents dead in a car crush, his father belittled, his mother a freak, he himself just a useless brat they got stuck with.

Harry starving, his stomach grumbling, eyeing leftovers and wondering if he could get away with stealing them. Stealing leftovers. 

Now he knew why Hagrid had tried to turn the other boy in a pig the first time he had met the Dursleys, Severus would have done the same. Oh no, Severus would have done so much worse. He would have killed and maimed and burned because they dared… they dared touch Harry, his beautiful boy…

His

Severus wanted to laugh ‘till he was deemed crazy and interned at St. Mungo’s. 

Any decent human being would have feel sorry for Harry, appalled, enraged for his mistreatment. 

His.

But Snape had known a long time ago that he was not a decent human being. He was not, and that was proof enough. 

His.

God, sometimes he just wanted to tear his chest apart and rip out his heart, check how black it had become. 

How much more could he take?
Oh, everything. 

He would take everything, because that was his punishment and his atonement. 

And while a part of himself was asking him why - why had he accepted to voluntarily use Legimancy on the boy? Why did he have to open his eyes about what was happening, why when it had been so easy to blame it all on the spoilt offspring of James Potter and hide behind his anger and bitterness? - another biggest part of him was demanding another kind of why - why didn’t he realized what was happening sooner? Why did it take him more than four years and Legilimency to understand that Harry was being abused, when it was so obvious? 

He should have known. 

Hell, the signs were all there for everyone to see, and he had ignored them. 

The boy had asked Albus to stay at Hogwarts in the summer, for fuck’s sake. Who ever asked to spend his summer at Hogwarts? 

(Snape, that’s who. And Voldermort, even thought only Albus Dumbledore knew of this. And now Harry too.) 

Severus should have known. 

Instead he had seen what he had wanted to see, a Gryffindor spoilt little brat who didn’t even bother to open his books before going to Hogwarts - and why would he?, pampered as Snape had expected him to be, he surely couldn’t have the craving for knowledge on the magical world he already took for granted. Snape couldn’t imagine it was because those hideous muggles didn’t allow him access to his books and belongings, - but he could, oh, of course, he could. Hadn’t he known Petunia for years, almost a decade? How could he tell himself, in all honesty, that that woman would respect her sister’s memory? 

He had been so willingly blind - but that had always been his sin, ignoring what didn’t fit in his preconceived idea until it was too late and he had to face the consequences of his selective blindness. 

Snape knew he was breaking his own rules - because self-pitying wasn’t helpful, because feeling guilt didn’t change the past, but he was doing all those things nonetheless, because sometimes he couldn’t help himself. 

Then there was a knock at his door. 


* * * 


Snape opened the door, even though he didn’t want to. 

He knew it would happen, it was bound to, one could sustain oneself on Suppressing Potions only for so long and Snape had long reached their limit. Three days - what was he even thinking, after so long together they were addicted to each other scent. He himself was itching to touch him, to bury his nose in his neck and trail his finger over his skin, and for the boy the effects of the withdrawal must have been worse than for him. 

So Severus opened the door even though he didn’t want to and “Potter,” he greeted him - curt and detached, as he should have been since the beginning. “How may I help you?” 

Harry stared at him, bewildered.
“How may you help me?” he scoffed incredulous. Of all the reactions he had expected, politeness was not one of them. A sneer, perhaps a cutting remark about knocking at his door at this hour. Or on the other hand - even if he knew it was too much to hope for - guilt and shame for having thought so ill of him in the previous four years. 

This… detachment, this pretending there was nothing wrong in completely avoiding for days the person you were living with, was just maddening. 

And to think Harry had had this half though of just throwing himself at the man and avoid talking things out completely - after all actions seemed to work way better than anything else with him. It was like they were two different people, the Snape he could feel with his senses and the Snape he had to endure with his mind. 

“You know what?” Harry spat angrily, “Never mind.” 

The boy turned to leave, but Severus’ hand reached for him, stopping him in his track, before the man could even realize what he had done. 

“You need to be scented,” he said, relenting the grip on his wrist but not letting him go. 

“Yes,” Harry nodded, and gulped down, suddenly hyper-aware of every inch of skin in contact with the other. “Yes, I need it.” 

The boy could feel the anger in his chest retreat, turning from a bonfire to glowing embers, and it wasn’t right. He clutched to the last remnants of what he was feeling, refusing to let the touch on his wrist soothe him. It wasn’t fair, it didn’t work like that. Snape couldn’t just ignore him for days and then solve everything with a little contact. 

“It would be unwise to do it right away,” Severus tried to reason, tried to convince himself the best course of action wouldn’t be pulling the boy in his arms and inside his bedroom where a very comfortable mattress was laying. “We’ve gone too long without… doing it. The consequence of exposure after such a withdrawal would be -”

“And whose fault is it? If we’ve gone so long without doing it,” Harry interrupted him, not yelling but still harsh enough, because he needed to twist the knife, he needed to have it spelled out loud and acknowledged, even if it meant delaying the scenting. By now the only thing keeping him from just saying to hell with everything and embracing the man was his sheer will, even if he didn’t really expected Snape to own it up. 

“Mine,” the man said instead, “I take responsibility for my actions - or inactions, as it is. It was foolish of me, trying to delay the inevitable by avoiding you, and I apologize for it.” 

“You… apologize? So you admit you were trying to avoid me?” 

“Yes, Potter, though I think that is hardly the point.” He sounded strained, regretful. He sounded in pain, and Harry just couldn’t stand it. 

“Hardly the point?” He scoffed, “Hardly the point? I need you! I feel sick when you’re not there and you tell me it doesn’t matter? I need you and you don’t want me, I get it, you’ve changed your mind or maybe you just didn’t want me from the start and but -” 

“Potter… Harry,” Severus growled and stopped him, tightening the grip on his wrist, bringing him a little closer, enough that he could feel the warmth radiating from his body,  “It’s not that I don’t want you,” he said, trying to restrain himself, trying to not take advantage of that little contact to drag him closer. Harry could feel it too, that pull, Snape could see it in his hazy eyes as he tried to focus on the words even if they didn’t make sense, “The point is…” Severus forced himself to let go of him without much result, “The point is that I want you too much for both our own good.”

Harry almost laughed at that. Their own good. Snape couldn’t be for real - Harry was going mad, the only thing he knew was that Snape was so close, still touching him, and yet keeping studiously his distance and it was so frustrating,  frustrating because he was in control and because he shouldn’t be and that, after everything that had happened to them in little more than a month, that was just the most pathetic excuse he had ever heard. 

“Who even decided what was my own good, uh?” Harry twisted the hand in Snape’s grip so that he could touch him in turn, seizing him. Snape hissed at the contact, but Harry didn’t care, he didn’t care for consequences, he didn’t care about anything at the moment. 

“Why?” The man asked, and he looked truly bewildered, “Would you really still have me?” 

Harry looked at him and almost laughed again - but didn’t, because he might have being going crazy, but not that much, not to enough to not know that laughing in Snape’s face could only be counterproductive. He also didn’t yell at him, ‘Yes, you idiot, yes! Why do you think I’m still here?!’ for the same reason - and mostly because Snape would have replied to him that ‘it was because he didn’t have any other choice’ after been done with hexing him for calling him an idiot. 

So Harry simply nodded instead. 

“How could you?” Snape asked, because apparently nothing was ever simple with him, “How, when I keep failing and failing you, again and again.” 

“You aren’t made up only of your mistakes, Severus.” 

And then Harry kissed him. 

It was a jolt of electricity, striking him on the spot and running down his spine, all his senses hyperaware but completely focused on the other, and then there was relief, his whole body screaming ‘finally!’, leaning on the touch, trying to take more and more and more. 

“Harry…” 

Harry looked at him from under his lashes, pupils blown by lust and desire, and Severus felt a shiver running down his spine. No one had ever looked at him like that. Can’t I be allowed just this thing in my live? Just this once? Haven’t I payed enough for my mistakes?  

It’s just the hormones, a vicious part of himself reminded him. And this is just another mistake you’ll have to atone for, later

Severus shook his head and gripped his hands to stop him.

“No. No, I can’t. We won’t.” 

“Why?”
“You’re underage, for fuck’s sake.” 

“Much good it did me when they were set on selling me, didn’t it? You don’t get to cherry pick if I’m old enough to be sold, old enough to die, but not old enough to have sex.” 

“You aren’t old enough for any of those things.” 

“And yet.”
Severus stalled, trying to find an argument to take apart his logic, but in the end, he was forced to nod. “And yet.”

Harry kissed him again and this time Severus let him, the need taking over whatever moral reservations he had left. 

He opened his mouth, ran his tongue over Severus’ lips, prompting him to part them and Severus did, too obnubilated to put up any sort of resistance. It had been too long and now they were paying the price. 

‘He’s Lily’s child,’ he tried uselessly to remember himself, except Harry was just so much more - he had always been so much more, Severus had just never seen it, pointedly looking the other way whenever the truth threatened to overcome his own lies. 

He couldn’t look the other way now, not as Harry pressed his body against his. Severus’ hands ran to his shoulder, to his nape, caressing the skin as he brought him closer. They stumbled back, inside the room, tugging at each others’ clothes, pulling and pushing until they were able to send them sprawling on the floor. 

The boy pushed him against the bed and Severus let himself fall, sitting on it. 

Harry, still standing, took a moment to look at him even if his whole body didn’t want anything else but more contact - he wasn’t fighting the sensations and so the sensations allowed him a moment to breathe. 

Snape looked up at him and no, Harry would never think him handsome, he wasn’t after all, but disheveled like that - his dark eyes wide and his hair ruffled, an unguarded expression finally donning his face, allowing him to see the desire, the need, and hint of fear of been refuse as the seconds dragged and Harry wasn’t moving… - Harry found him appealing. Desirable. Human

He wanted him. 

So Harry climbed in his laps, kissing him again and then grinding against him, riding him in a mockery of what they really wanted, the impediment of their underwear the only thing still separating their erections. 

It was blissful and still not enough and Harry felt like it would never be enough, he would never be sated. 

He released Severus’ mouth, just enough to breath, and then he began kissing the edge of his jaw, licking at his neck, his rhythm ragged as he tried to coordinate his lips to the trusts of his hips. He was enthusiast enough to make it up for the inexperience for Severus was moaning, his throat vibrating against Harry’s mouth with little chocked cries that were sending Harry over the edge. 

And as he came, Harry was the one who bit him, even if it didn’t hold any significance, deep enough to leave white marks and reddened skin, but not to cut.

The pain of the bite sent a jolt of pleasure down Severus’ spine and he trusted upward, trying to increase the friction in frantic movements. It was too much and too little, Severus felt overwhelmed, his control slipping, and the boy was still grinding against him, even after he was spent, trying to help him reach his peak. 

Severus could feel his shoulders burning where Harry was still gripping and clutching them, nails sinking in the skin. He would draw blood, and Severus wouldn’t care in the least. As he felt himself getting closer to his own release, he pulled him up in a kiss for if he was kissing him he couldn’t bite him, and then came with a startled cry, muffled against Harry’s tongue. 

Gracious goodness, the last time he had come in his briefs like a teenager, he had actually been one. 

“I get now why they talk about sweet kisses,” Harry chuckled against his mouth, licking his lips, “You taste of sugar.” 

“Ah, yes, that would be the serum,” Snape replied still fazed in the afterglow, an absentmindedness that wasn’t usual in his tone. 

“The serum?” Harry asked, not particularly interested in the conversation, tracing abstract patterns on his chest. 

The air was warm, their hot breath almost cold against the dampness of their skin, the smell of sweat and sex permeating the room and the bed. He felt… content. Hazy and glowing.
“Poison, venom, call it as you please,” Snape offered, playing with the moist locks of hair on his nape, “It’s the substance that gets injected during the bite.” 

“Uh uh,” Harry mumbled his assent, kissing him, wet and open-mouthed, dragging his tongue over his sharpened teeth. 

Severus shivered, holding him tighter, and, pressing his body against his, he could feel his erection growing. 

Ravenous brat. 

Harry shifted, his hands reaching for the band of his underwear, trying to pull them down and he could feel himself getting harder again under his touch. It shouldn’t have been possible, not so soon, he wasn’t that young anymore. But they were in a frenzy, he realized, they had pent up so much sexual energy that their body now needed the release, again and again. 

“Harry, what are you doing?” 

“What does it look like, Severus?” He slurred his name, and it shouldn’t have sounded so… eliciting. Dirty. His name had never had that sound in anybody’s mouth. 

“Harry…” he tried to stop him, but it sounded more like a plea to continue and it wouldn’t do. “Potter!”

“Aren’t you done fighting this?” Harry asked, stilling his hands but not removing them from his hips. “Where do you draw the line? All this is already past your-”

“If we had sex, I would Mark you.”

“Then so be it.” 

Harry kissed him again, silencing any further protest, then he trailed down his neck, sucking a bruise were there still was the mark of his teeth. 

“No. And we won’t have sex,” Severus repeated, trying to not be distracted, but he was already caving in. He was bargaining and as such, he had already lost. Inch after inch he was  been slowly pulled over. It was just a matter of time. 

“What do you call this, then?” 

“Technically ‘not sex’,” he felt petulant, childish in a sort of way. But he was right anyway, this was something he could still hope to retain a minimum of control over. 

“Is there some other ‘technically not sex’ that we could do?” he asked trying to be playful, but he couldn’t mask his tone, so eager and hopeful. Severus was long past having the ability of refusing him anything - well, except the Mark - so he twisted under him, sending him sprawling on the mattress, before placing himself on top of him, careful to not put his weight on him. 

Harry let out a surprised gasp and looked at him almost affronted, but his breath staggered as he exhaled. Severus was framing him with his body, looking at him as if he was edible, a mouthwatering delicacy he was ready to savour, and Harry felt a shiver of anticipation spiraling down to his throbbing cock, wetting him even more. 

“A lot of things, Harry. A lot of things.” 

“Well, then, you should really start teaching me, Professor.” 


* * * 


Waking up tangled in Harry Potter was something he should have foreseen. Not feeling the need and urge to fuck him senseless was completely unexpected, though. 

Severus panicked, just for a few seconds, but then his pragmatism kicked in. No need to panic before assessing the situation. Cautiously, he propped up on his elbow, silently enough to not wake up the boy, and shifted the blankets. 

The blue stripe of the Omega’s collar was still there, tightly sealed on his neck, intact and unbroken. 

He hadn’t Marked him - yet

No, not yet and not ever

But why was he feeling like that, then? Why was he feeling so extraordinarily… blissed, and satisfied? 

“Is it morning already?” Harry rolled on his side to look at him, yawning. 

The familiarity of it, the coziness, Snape felt something in his chest constricting and thought he would never survive something like this again. 

“Yes, I suppose breakfast is about to end,” he said instead, his mouth so dry his voice cracked.  

“You have to go, then,” Harry pouted - pouted! - as if he really wanted him there. 

“You know I have to.” 

“Stay five more minutes?” 

Severus should have said no, he had never indulged himself past his clock, but today was already an exception for his clock hadn’t ring at all. He had forgot to set up the spell the previous night, but fortunately he never had much need for sleep.  

“Only five. I can’t be late, or my students will think I’ve been replaced with Polyjuice and throw a party.”

“A Death Eater in incognito is better than you, actually.”
“Potter, I am a Death Eater in incognito.”  

“Sure enough. And don’t be too gentle, or they’ll know you’ve had some last night.” 

Severus scoffed, “I am never gentle.”

“I beg to differ,” Harry stretched against his side, pressing all the right parts of his body against him. Severus felt a surge of interest from his neither regions, but not the incontrollable and tantalizing urge to act upon it as he had always felt in the previous months. Odd, and maybe off putting. But he would have to worry about it later, if he did want to make it to his lesson on time. 

“You said five minutes, and that takes way more than five minutes.” 

“I had to try,” Harry blushed, but didn’t deny him, “You’re no fun.” 

“You’ve known me for more than four years, Potter, when had I ever been fun?” 

“Last night?” 

“Do shut up.” 

Severus dressed up quickly and left him to enjoy the warmth of the bed a little longer. 

Outside the door, he shook his head, trying to drive away a haze that wasn’t there. 

It didn’t feel real inside and now that he had left the room it was even more evident. The homeliness, the familiarity, the easiness they had fallen into, mocking tones as jabs from life long partners when they had hated each other from the start. 

It was surreal. 

Snape headed to his classroom, lost in his thoughts. He was waiting for the other shoe to drop, for the moment when he would fully realize the extent of his mistakes, all the lines he had crossed and intentionally this time. He spent the day waiting - for the awareness, for it to hit him with guilt and regret, for the moment when he would feel sick of himself.

He was still waiting when he reached for his chambers in the evening and Harry was there, ready to show him his progresses for the day in Transfiguration, not regretting a single thing. 

“Do you need to be scented?” 

Harry lifted his head from the pincushion he was trying to vanish. 

“What? No. I mean, do you need to?” 

Severus shook his head, and went back to grading essays. 

Harry however hadn’t moved, still standing with his wand up and his faded pincushion trembling in and out of existence. “You could kiss me anyway, though.” 

Dumbstruck, Snape carefully laid down his quill. It was something he hadn’t thought about. Somehow he had been so wrapped in considering what had happened before that he had overlooked what was gonna happen after. 

“Let me be clear, you don’t need physical contact right now, but you still want it?” 

“Yes? Why wouldn’t I?” Harry rolled his eyes, “I thought we were already past all the ‘we really shouldn’t even if we want to’ because really, Severus, do you see anyone here giving a damn but you?” 

Severus refused to admit he was right. No one cared what he did with the boy, no one would bat an eyelid if he were to Mark him and bind him to himself - some people might even consider him stupid for not having done it already. No one would see anything wrong in an Alpha fucking his Omega. 

It felt like the only moral compass left in the world was his, and now he was beginning to doubt it worked at all. 

“Very well,” he said instead, and leaned over him, cupping his cheek and making his intentions very clear. He would kiss him, even if they didn’t need it and Harry had all the time to backpedal from his bravado and refuse him. 

But Harry didn’t pull back, no, he closed the space between their mouths, throwing his wand on the table to have his hands free to roam over Severus’ body. 

It was thrilling, exhilarating, it was making him feel bad but in a sort of good way… naughty, yes, that was the word. A kid with his hands in the cookie jar, straining his ears in case someone was coming. 

Harry deepened the kiss, and Severus nibbled at his lower lip, dragging it between his teeth before releasing him. 

“Do you need more?” he asked, his voice hoarse for desire and Harry almost fell off his chair in the attempt to get closer to him.
“God, yes!” 

But Severus shook his head, “No, no, I didn’t ask if you want more. You’re a teenager, of course you do. I asked you if you need it, and you know what I mean with need.” 

Harry wondered how childish would it make him sound to protest the ‘you’re a teenager’ dismissal, and realizing it would just prove Snape’s point, discarded the idea. 

“No. No, I don’t need it. But I wouldn’t be opposed in having it nonetheless.” 

“Greedy brat,” maybe Harry was imagining it, maybe it was the hormones, but there was fondness in his tone.   

“Yeah, well, teenager here, remember? And after all you’re…” Harry stopped, struck by his own thoughts and then, so sudden he could almost feel the backlash, he began to laugh. 

“What?” 

“No. No, it’s just stupid,” he shook his head, but kept laughing, not really capable to stop himself.

“What, Potter?”

“I’ve just thought it, but you’re…” he said between laughters and hid his face against his shoulder, “You’re basically my… boyfriend?” And by then he was just bordering hysterics, because. No. Just no. 

Snape grimaced. “Never again,” he spat out. 

Still hiccuping from his laughing fit, Harry nodded. “Yeah, no, sorry, I’m gonna have nightmares about this.” 

“At least this rules out the question about need,” Snape let go of him to rub his temples. “If you can make silly jokes, you are not feeling it either.” 

Harry suppressed the pang of loss at him pulling away -  after all he had been the one to ruin the mood -  and tried to be useful. “Why is it, though? Before I couldn’t be in the same room with you without needing to touch you and now this?”

“Yes, the compulsion is not there anymore.” 

“Maybe we’ve done it enough that it will last longer than the normal scenting?” 

“Perhaps.” 

Yes, saturated receptors and negative feedback in the hormones production, that was probably it. The effect wouldn’t last forever, and they would be back at square one in a matter of days, but still, one could always appreciate a bit of respite, Severus told himself. Maybe he was so used to worry about everything that now that something just for once was going well, he found it worrisome in itself. 

 


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 BEASTARS, Legosi/Louis, Doctor Who!AU
  • Maritombola 22 - In una astronave (Extratombola - Bestiality)


- - - 

Note: temporary major character death, frottage 

- - - 


Gosha gli dà l’orologio il giorno del funerale di sua madre. 

“Non aprirlo mai,” gli dice, “a meno che tu non senta di non poter vivere altrimenti.” 

Legosi non capisce - e come potrebbe - ma stringe comunque l’orologio da taschino tra le mani. È d’argento e finemente cesellato, troppo prezioso per essere maneggiato da un ragazzino goffo e ancora scoordinato dalla crescita. Legosi teme di rovinarlo, di graffiarlo con i suoi artigli. 

“Nonno, non… non posso tenerlo.”
“Nemmeno io.” 

È una tentazione, Gosha lo sa, la tentazione di abiurare le proprie scelte, negare quelle di Leano, invalidare quelle di Toki. Non c’è niente di fissato nello spazio-tempo, se non l’orrore che potrebbe provare per sé stesso una volta aperto quell’orologio - troppe cose che potrebbero cambiare, troppi sacrifici che non spetta a Gosha fare. 

“Mettilo via adesso, Legosi, che non fa bene guardarlo troppo a lungo. Fa venire strane idee.” 

Il lupo si fa scivolare l’orologio in tasca e Gosha spera che non gli debba venire mai la tentazione di aprirlo. 

Dopo il funerale, il rettile non vede Legosi per i successivi cinque anni. 

Ci prova a dirsi che è solo perché il nipote sta crescendo e a quell’età agli adolescenti piace essere indipendenti, ci prova a dirsi che non è stata la morte di Leano a creare una faglia tra loro. 

E poi, improvvisamente, un pomeriggio di cinque anni dopo, Gosha ricorda tutto. 

Lo sa ancora prima che il telefono squilli e quando lo fa, sa anche che è Legosi dall’altro lato della cornetta. 

“L’ho aperto. Sto venendo a prenderla.” 

Gosha sente le lacrime scivolargli sulle guance ruvide. “Ti aspetto.” 



Non lo ha salvato. 

Non sapeva nemmeno di doverlo fare dopotutto. 

Sono passati tre giorni da quando ha liberato Haru e da quando Louis è scomparso. Tre animali non sono tornati a scuola quella notte, ma soltanto uno non era ai cancelli la mattina dopo. 

Legosi sapeva che Louis li aveva seguiti, se lo sentiva nelle ossa che il futuro Beastar non avrebbe rinunciato così. Eppure pensava che qualunque cosa Louis avesse fatto, sarebbe tornato trionfante. 

Invece l’unica cosa che è tornata è una scatola, indirizzata a lui, con tanto di nome. 

E quando l’ha aperta dentro c’era soltanto il frammento di un palco, chiazzato di sangue - il lupo non ha nemmeno avuto bisogno di annusarlo per sapere che veniva delle corna di Louis. 

È un messaggio. Stiamo venendo per te. 

Avrebbe dovuto ucciderli tutti. Avrebbe dovuto strappare la gola al capo e lasciarlo a morire in una pozza di sangue, tagliare la testa alla bestia in modo da sparpagliare i ranghi. Invece era stato debole, lo aveva lasciato vivere. 

Ed Louis era morto in cambio. 

“Legosi, tutto bene?” Jack gli posa una mano sulla spalla, ma Legosi lo scuote via, brusco, rifiutando il contatto. 

Cosa c’è in quella scatola?, vorrebbe chiedere il cane, vorrebbe pretendere di sapere perché sente l’odore del sangue, e chi mai invierebbe qualcosa di insanguinato al suo migliore amico? La stessa persona che tre giorni fa gli ha fatto quelle ferite? Sta succedendo qualcosa a Legosi, Jack lo sa, non può c’entrare solo la coniglietta, perché quella scatola, qualsiasi cosa ci sia dentro, puzza di cervide, Jack lo ha sentito non appena Legosi l’ha aperta. Non ci vuole certo un cervello geneticamente potenziato per collegare quell’odore al cervo di cui tutta la scuola non fa che parlare perché è scomparso da tre giorni. 

“Legosi…” Jack lo chiama ancora, prende tempo e coraggio, perché non vuole davvero conoscere la risposta alla domanda che sta per fare, ma deve farla lo stesso. “Legosi, cosa c’entri con la sparizione di Louis?” 

Il lupo chiude il coperchio di scatto e si volta verso Jack, “Cosa…?” 

Jack lo osserva, vede la follia nei suoi occhi - cerchiati di rosso e sbarrati e selvaggi. Non lo ha mai visto così. Quasi si aspetta una risata malvagia accompagnata da un “sei sempre stato troppo intelligente, Jack, ora dovrò uccidere anche te” - se solo quello non fosse il suo amico Legosi, quello che non farebbe male nemmeno ad una mosca. 

“Legosi, coraggio, a me puoi dirlo.” 

“È morto.” 

Legosi lo dice e improvvisamente diventa vero. 

Deve sedersi. 

Si lascia cadere sul letto, la scatola ancora in mano, e scossa la testa, come se bastasse a cambiare il fatto che Louis è morto

“Come?” Jack chiede, e si rifiuta anche solo di pensare come lo sai? o peggio, l’hai ucciso tu? 

“Non lo so. Io… non c’ero. Non ero lì per lui. Avrei dovuto esserci.” 

E oh, oh Legosi, in che ti sei andato a cacciare, sempre con il peso del mondo sulle spalle. 

Jack si inginocchia sul pavimento davanti a lui per prendergli la scatola dalle mani e Legosi oppone resistenza di riflesso, stringe le dita attorno al legno, prima di lasciar andare e permettergli di prenderla. 

Il labrador solleva il coperchio abbastanza da sbirciarci dentro, da vedere il frammento di osso e sentire la zaffata di sangue e cervo e… felino? Non è chiaro di che tipo, dopotutto quello che gli hanno inviato è soltanto un pezzo di corna - niente di vitale, ma non lo avrebbero fatto comunque, perché sprecare ottimo cibo solo per mandare un messaggio? - e forse è proprio questo che lo rende così definitivo. 

“Comincia dall’inizio,” Jack gli posa la mano libera sul ginocchio, stringe cercando di dargli conforto, e il lupo gli racconta di Haru e del suo rapimento, di essere andato da Louis per sapere che fare e di come lui si sia rifiutato di fare qualcosa, solo che poi qualcosa deve averlo fatto comunque, forse per un rimorso di coscienza, forse per amore, forse semplicemente perché è Louis. 

Jack lo ascolta, amico fedele che non è altro, e alla fine dice, “Dobbiamo sbarazzarcene, Legosi.” 

“Cosa?” Legosi lo guarda sconvolto, perché quella è l’ultima cosa che gli rimane di Louis, la presenza più ingombrante della sua vita che ora è improvvisamente sparita e lui non può lasciare andare anche quella scatola. “No!” 

Jack lo sa di sembrare poco empatico, ma non può fare niente per far stare meglio Legosi, per non farlo soffrire oltre, - qualsiasi cosa sarebbe soltanto una frase fatta, senza valore, che quando Legosi si pianta in testa che una cosa è responsabilità sua, non c’è modo di fargli cambiare idea - perciò l’unica cosa che può fare è usare il cervello per tenerlo al sicuro. 

“Ragiona, Legosi, è una prova! Mi hai appena detto che sei dovuto andare tu a salvare la tua coniglietta, e se la sua unica speranza è stata un lupo adolescente invece della polizia, l’organo competente e armato. Cosa pensi significhi?” Legosi scuote la testa perché è ancora troppo sconvolto dal fatto che Louis è morto, dannazione, e Jack continua a parlare,  “Se ti trovano con questo daranno la colpa a te, perché è la storia che gli conviene di più. Pensaci! Dovrebbero ammettere che c’è una gang di leoni che rapisce sistematicamente erbivori e che loro non stanno facendo nulla. Uno studente che dà di matto e mangia un compagno di corso è più vendibile e oh! Oh, merda! Ti daranno la colpa anche di Tem.” Jack scatta in piedi, una mano a coprisi la bocca. In che momento la sua vita è diventata un dannato film poliziesco?

“No,” Legosi approfitta della sua distrazione per riprendersi la scatola, “Non posso, Jack. Louis è morto. Per colpa mia. E questa è l’unica cosa che mi rimane di lui.”  

Jack tenta di farlo ragionare, ma Legosi si butta nell’armadio a rovistare tra le sue cose, cercando di seppellire la scatola sul fondo del cassetto, come se bastasse a far sì che nessuno potesse mai trovarla. 

È in quel momento che le sue dita sfiorano il freddo metallo di un orologio da taschino che quasi aveva dimenticato di avere. 

“Non aprirlo mai, a meno che tu non senta di non poter vivere altrimenti.” 

Una marea di sciocchezze, un enigma vuoto che doveva soltanto servire a distrarlo dal funerale di sua madre - non abbastanza, a distanza di così tanti anni,  per distrarlo dal funerale di Louis.

Come se servisse a qualcosa. 

Legosi afferra l’orologio con rabbia, sente i suoi artigli sfregare contro il quadrante, sfregiare gli intarsi. Non gli importa. Non importa nulla. 

“Non aprirlo mai, a meno che tu non senta di non poter vivere altrimenti.” 

Non vuole dire nulla. Non ha significato, come tutto il resto d’altra parte. 

Così Legosi apre l’orologio.

“Legosi!” Jack grida, ma il lupo non lo sente più. 

È il giallo. 

Tutto diventa giallo, dorato come la polvere del tempo, come la matrice dello spazio, come il pozzo dentro il quale avrebbe dovuto guardare sperando di non impazzire. 

Non è un evento fissato nel tempo e nello spazio, è qualcosa che può cambiare e per farlo deve soltanto…

“Legosi!”
“Devo andare!”
“Sei appena svenuto! Devi andare da un dottore!” 

Ah. 

Ma no, Legosi non ha bisogno del Dottore. 

“No. Adesso sono io il Dottore.”
“Oh, Rex! Ha un trauma cranico!” 


*


Louis ha smesso di cercare di convincersi che sia una pessima idea. Il peso della pistola nella tasca è rassicurante, la mano chiusa intorno al calcio come ulteriore precauzione. Tutto inutile, in ogni caso. Sarà morto per la fine della serata. Lui insieme a quell’idiota di Legosi e Haru, sempre che lei non sia già morta rendendo tutto questo ancora più stupido. 

Non avrebbe dovuto lasciarsi coinvolgere, ma Louis ha già fatto pace con sé stesso - non può lasciarli andare a morire da soli. 

Ciò non toglie che abbia un piano, o se non altro un abbozzo, e quindi si avvicina alla tana dei leoni  con nonchalance studiata, girandoci intorno e assicurandosi che nessuno stia prestando attenzione a lui. 

Per questo è inaspettato che qualcuno lo afferri per un polso e lo trascini indietro. Louis, rapido di riflessi, sfrutta il momentum per ruotare su stesso, ma non ha fatto bene i conti e si ritrova a sbattere contro il petto dell’aggressore. 

“Legosi? Ma che cazzo?!” Il cervo allontana la pistola dalla tempia del lupo, ma non la abbassa. Legosi non sembra nemmeno aver fatto caso al fatto che Louis gliela avesse puntata contro in prima battuta. 

“Sei vivo.” 

“Certo che sono vivo!” 

“Andiamo.” 

“Ma Haru…” 

“Haru sta bene.” 

Se fosse stato chiunque altro, Louis non ci avrebbe creduto, perché il lupo aveva un vantaggio minimo su di lui e quello è il covo della Shishigumi, non c’era il tempo materiale per un salvataggio. Ma quello è Legosi e se gli dice che Haru sta bene, allora Haru sta bene. 

“D’accordo.” 

Solo che andiamo è una porta affacciata sul nulla in mezzo alla strada e Louis si ritrova a fissare la scatola tra le sue mani, a stringerla compulsivamente, talmente forte da farsi sbiancare le nocche sotto la pelliccia rossastra, dopo che Legosi gli ha raccontato la storia più assurda su astronavi e marchingegni che alterano memoria e DNA, e viaggi nel tempo per cambiare un passato che non è ancora divenuto tale perché - 

“Sono… morto.” 

“Sì.” 

“Ma adesso sono vivo.”
“Perché per te non è mai successo.” 

Quello che dice Legosi non ha senso - è complicato e arzigogolato e manca di logica in ogni sua parte, come quasi tutta la morale che muoveva Legosi prima che si presentasse con una fottuta astronave che viaggia nello spazio-tempo. 

Forse Louis è morto davvero. Forse questa è l’allucinazione che il suo cervello ha inventato negli ultimi minuti di anossia prima di spegnersi definitivamente. 

Forse Louis è sempre stato quello che non aveva senso e non l’aveva mai capito. 

“Vuoi tornare a casa?” Legosi chiede e Louis scoppia a ridere. Casa. Ha appena scoperto che esistono i fottuti alieni e che se non fossero esistiti lui sarebbe morto e Legosi gli chiede se vuole andare a casa. Dove, a Cherrinton? Da Ogma? Alla Torre del Mercato Nero? Quale cazzo è la sua casa, eh?
“Louis?” 

D’accordo, Louis può ammettere di star avendo un crollo psicotico, che tutto questo è un po’ troppo, così cerca di contenere i singhiozzi della risata che ancora gli scuote il petto e si volta verso il lupo. 

“Mi hai appena detto che questa cosa viaggia ovunque in qualunque tempo e in qualunque luogo e che sarei potuto morire tra un’ora e mi chiedi se voglio tornare a casa? No, cazzo! Portami in un qualsiasi altro posto che non sia casa!”

Legosi cerca di impedirsi di scodinzolare, ma non ci riesce. 



Accade alla periferia di una città qualunque su un pianeta qualunque, - perché i mercati neri esistono in tutti gli universi e homo homini lupus è una stronzata, tutte le forme di vita tendono all’edonismo, anche quelle con i tentacoli e le uova - ma per Louis la città di Kumsdel sul pianeta Rho IV rimane una rivincita personale. 

Certo, devono fuggire in fretta e furia, la sirena dell’allarme che spacca i timpani non appena aprono le prime catene ai polsi degli schiavi, e riescono a malapena a sfuggire il blocco della gendarmeria, ma quando alla fine Legosi li lascia sul loro pianeta di origine, tra le lacrime e la gratitudine, Louis non riesce a fare a meno di smettere di piangere. 

Non pensa di averlo mai fatto prima, nemmeno nella Torre del Mercato Nero, nemmeno da cucciolo, e ora invece quel liquido salato gli bagna le gote e. Non. Riesce. A. Smettere. 

“Tutto bene?” Chiede Legosi e già sta per entrare nel panico. 

Louis potrebbe dire che sì certo che va tutto bene, che il lupo ha appena infranto quindici leggi interplanetarie o giù di lì solo perché Louis non voleva lasciare quelle povere creature in catene e ovviamente Louis è l’essere più felice nella galassia, forse nell’intero universo ed è tutto merito di Legosi. 

Invece Louis gli prende il muso tra le mani e pianta le labbra sulle sue. 

Il lupo, preso alla sprovvista, rimane impalato. “Louis?” 

“Oh. Scusa.” Il cervo fa un passo indietro, “Pensavo… Ho frainteso.” 

“No!” 

“No?” 

“Mi hai preso alla sprovvista. Ero io che non pensavo…”
“Ah.” 

“Quindi posso…?” 

“Oh, Rex, sei proprio vergine! Non si chiede!” 

“Il consenso è importante.” 

“Sta zitto!”
E Louis lo bacia di nuovo. 

Legosi nemmeno questa volta sa dove mettere le mani, ma se non altro è preparato. È un po’ strano, ma poi Louis gli prende le mani e se le porta sui fianchi. 

Al lupo sembra che il petto gli possa esplodere, le mani gli sudano, non può credere di star davvero baciando Louis, toccando Louis. 

Gli sfugge un ringhio dal fondo della gola, un mugolio che sembra dare al cervo il permesso di approfondire il bacio, socchiudendo le labbra per leccare il bordo affilato dei canini di Legosi. 

Legosi si ritrova schiacciato contro la consolle dei comandi senza nemmeno rendersene conto, le mani di Louis che sbottonano rapide la sua camicia. 

Legosi non è del tutto sicuro di cosa stia accadendo, sa solo che non vuole fermarsi, che non gli sembra vero, così lo lascia fare, anzi lo segue, strattona la sua di camicia fuori dai pantaloni per posare i palmi contro il pelo serico dei suoi fianchi, accarezzando la carne calda del suo addome. 

Louis rabbrividisce contro il suo petto, gli si stringe contro e finalmente - finalmente! - riesce ad avere la meglio dell’ultimo bottone e sfilargli la camicia. 

“Lubrificante.” 

“Eh?” 

“Ci serve del lubrificante, Legosi!”
Legosi, che al momento non sa nemmeno come si chiami, non sa nemmeno se ci sia del lubrificante sulla dannata astronave e il suo contributo è un utilissimo “Uh.” 

Louis scossa la testa, “Beh, allora la scopata di ringraziamento dovrà aspettare,” ma comincia comunque ad armeggiare con la cintura dei pantaloni del lupo e Legosi si sente estremamente stupido - anche se a sua discolpa è perché tutto il suo sangue si trova in una regione del suo corpo che non c’entra niente con il cervello.  

“Che stai facendo?”
“Oh, Rex, Legosi! Ci sono altre cose che si possono fare senza lubrificante.” 

Legosi scossa la testa, cerca di fare un passo indietro come se Louis non lo stesse tenendo per il cavallo dei pantaloni - molto distraente, in ogni caso - e no, non gli si chiariscono le idee affatto, ma una cosa l’ha recepita nonostante l’erezione. “Scopata di ringraziamento, Louis?” 

“Beh?” 

“Non devi venire a letto con me per ringraziarmi.” 

Louis scuote il capo e ridacchia. “Sei proprio un idiota. Pensi che il mio culo valga così poco?” 

Legosi quasi si strozza con l’aria, comincia a tossire e riesce a malapena a gracidare un “scusami?” 

“Se mai dovessi vendermi,” e lo dice con una veemenza tale che Legosi si dà dell’idiota per aver anche solo pensato una cosa del genere, “pensi che sarebbe per uno sciocco sentimentalismo come questo?” 

Legosi scossa la testa in diniego, “È solo che…” 

“Sì, Legosi, voglio davvero venire a letto con te. Rex sa solo il perché a questo punto.”

“Oh.” 

“Se questo non fosse stato chiaro abbastanza,” e Louis gli prende la mano e gliela porta sulla sua erezione. Legosi lo può sentire attraverso la stoffa, il profilo della sua eccitazione, duro e rigido, per lui.   

Gli strappa un mugolio dal fondo della gola, gli porta a galla istinti che pensava di aver sepolto ed è Legosi allora a spingere Louis contro la consolle, a strattonargli via i vestiti e strusciarsi contro di lui, infilarsi tra le sue cosce come se lo stesse montando davvero. 

“Legosi…” Louis geme perché ogni spinta di Legosi tra le sue gambe chiuse fa sfregare la sua erezione contro l’addome dell’altro, ma il lupo gli chiude la bocca con la propria e il cervo non può far altro che gettargli le braccia al collo e muove il bacino al suo stesso ritmo. 

Non ci vuole molto per due adolescenti come sono a raggiungere l’apice e venirsi addosso - fortunatamente senza danni permanenti ai comandi di navigazione su cui sono praticamente sdraiati. 

“Legosi?”
“Uh?” 

“Il tuo battito è strano.” 

“Ho due cuori adesso. È un pacchetto completo con l’astronave.” 

Louis, ormai, ha visto cose più strane. 

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BEASTARS

Legosi/Louis

NSFW 

+ Maritombola 33 - Immagine (Extratombola - Bestiality)


Ci sono fin troppe persone fuori dal teatro quando Legosi arriva. Louis gli ha detto di presentarsi lì davanti anche se non è giorno di prove e anche se le prove normalmente non si svolgono in teatro, ma Legosi pensava fosse soltanto ordinaria amministrazione. 

Invece c’è una folla davanti alle porte chiuse e, se i suoi occhi di lupo non lo tradiscono, hanno tutti in mano uno strumento musicale. 

Ma che -?

“Legosi!” 

Il lupo si volta di scatto verso la voce di Louis. Il cervo è comparso sulle porte e già lo fissa con impazienza.  “Muoviti, Legosi!” 

Se qualcuno si azzarda anche solo a pensare una lamentela sul fatto che l’ultimo arrivato stia passando davanti a tutti, le occhiatacce del cervo e la stazza del lupo servono a fargli mordere la lingua e tacere. 

“Che sta succedendo, Louis?” Legosi chiede, incrociando una giraffa che esce dal bagno asciugandosi le lacrime e stringendo al petto la custodia di un violino. 

“Facciamo le audizioni per l’orchestra di supporto.”
“Non sapevo avessimo bisogno di un’orchestra dal vivo. Pensavo che le tracce audio…” 

Louis sospira, “Non ne abbiamo bisogno. Sono le pecche della diplomazia. Le tracce audio sarebbero sufficienti, ma il club di musica ha troppi membri e non abbastanza tempo per far esibire tutti al concerto di fine anno. Perciò ci é stato chiesto di prendercene in carico qualcuno.”

Ah, già, Louis il pacificatore, a mediare dispute e trovare soluzioni come il novello Beastar che ancora non è diventato. 

Legosi annuisce, “e io a cosa ti servo?” 

“Oh, supporto morale, diciamo così. A meno che tu non sappia suonare uno strumento.” 

“No,” Legosi ha un brivido al ricordo di tre stonatissime lezioni di pianoforte da bambino che sua madre aveva insistito prendesse, “ma anche se fosse, Louis, non siamo qui solo per un’audizione, vero?” 

Il cervo ride, “Sapevo che eri un lupo intelligente.” 

Louis lo fa sedere in terza fila accanto a lui e Legosi ancora non ha capito quale esattamente sia il motivo per cui è qui. 

Sul palco c’è già un leone, la lunga criniera legata in una coda e una chitarra a tracolla. 

“Avanti, facci sentire qualcosa,” il cervo gli dà il via e Legosi trova che il leone non sia nemmeno così male, solo che dopo appena qualche accordo sbaglia una nota. Nella penombra della platea, Legosi sbircia Louis contrarre la mascella ad ogni nota sbagliata e uh, no, ritira tutto, non promette affatto bene, non che lui se ne intenda di musica. 

Legosi è talmente distratto che non si accorge della mano che Louis gli ha posato sul ginocchio finché questa non comincia a risalire lungo la sua gamba, accarezzandogli lentamente le cosce. 

Il lupo rabbrividisce, vorrebbe fermarlo perché questo non è il momento, ma quando mai è riuscito davvero a fermare Louis? 

Louis continua ad accarezzarlo attraverso la stoffa, in lunghi movimenti che seguono la cucitura del jeans e che lo fanno diventare matto, perché si fermano giusto appena prima di arrivare a toccarlo davvero. 

Legosi si dimena sulla poltroncina e divarica leggermente le gambe, ma Louis sembra ignorare il suggerimento. 

“Non dirmi che mi hai chiamato qui solo perché ti stavi annoiando,” il lupo ruglia, la voce arrochita dall’eccitazione e il cervo si volta verso di lui e ghigna. In sottofondo il leone sbaglia un’altra nota e la mano di Louis finalmente risale fino al suo inguine, traccia con le dita i contorni del suo cazzo attraverso la stoffa, lo sente diventare duro premendoci il palmo sopra. 

“Louis!” Legosi ringhia, e respira profondamente per cercare i calmarsi. 

Il leone sul palco sbaglia l’ennesima nota e Louis rotea gli occhi come a dire, ‘vedi? Vedi che mi tocca sopportare?’ 

Legosi lo fulmina con gli occhi e il cervo ridacchia, come se metterlo in difficoltà fosse l’apice della sua giornata. 

“Va bene, grazie, è sufficiente, puoi andare.” 

“Oh, ok. Come sono andato?” Il leone chiede speranzoso. 

“Come sei andato?” Louis ripete, spingendo sulle parole con incredulità e sarcasmo, come se la risposta non fosse evidente e Legosi sa che si sta preparando a vedere un altro animale lasciare in lacrime il palco - o peggio, cercare di uccidere Louis, perché quando ci si mette riesce a togliertelo dagli artigli l’istinto omicida. - quindi posa una mano sul ginocchio di Louis e stringe. 

Il cervo sembra recepire il messaggio, perché tutta la tensione si dissipa e conclude la frase con un debole, “Bene, ti faremo sapere.” 

Il leone annuisce e se ne va, fortunatamente non in lacrime. 

“Non gli farai sapere.” 

“Certo che no. Non lo hai sentito?”

Legosi potrebbe rispondere che no, era piuttosto distratto. “Già, non va bene per l’orchestra.” 

“Non va bene per niente. Ci hanno mandato un branco di incapaci che non vogliono far suonare nemmeno loro e io dovrei trovare il modo di sceglierne qualcuno e allo stesso tempo non farmi rovinare lo spettacolo.” 

“Troverai una soluzione, ma asfaltare quei poveretti non mi sembra possa aiutarti a trovarne uno decente.”

“Sei troppo buono,” Louis gli dice contrariato. 

“Non sono qui apposta per contenerti? Che ne sarebbe di diventare Beastar se mandassi all’aria la diplomazia?” 

“Sapevo di aver fatto bene a chiamarti.” E poi “Il prossimo!” 
Legosi sospira, sentendo la mano di Louis tornare al suo inguine. 
"Louis..."
 
Il cervo ridacchia e gli apre la patta nella penombra del teatro. 
Legosi cerca di non gemere quando la mano di Louis si chiude intorno alla sua erezione - potrebbe andarsene, certo, ma quando mai Legosi non fa quello che Louis vuole?
Il cervo lo porta all'apice senza battere ciglio e poi, proprio mentre Legosi si dimena sulla poltroncina, così prossimo a venire, così vicino, solo un'altro po' - Louis lo lascia andare per applaudire. Legosi apre gli occhi di scatto, in tempo per vedere una zebra fare un inchino, un flauto stretto tra le mani. Eh?  
"Molto bene, miss, perfetta. Abbiamo il primo membro della nostra orchestra."
La zebra si allontana contenta e "Che cazzo, Louis?" 
"Non vale se l'unico frustrato sono io." 

Alla fine, Legosi dovrà ringraziare la pausa pranzo - e la pausa merenda e anche la pausa cena - perché altrimenti il cervo l'avrebbe fatto diventare matto.  Oh, certo non riuscirà a sedersi per i successivi tre giorni probabilmente - lo sgabuzzino è un po' troppo stretto per stare piegati a novanta sul mobiletto dei detersivi e uscirne indenni - ma Legosi non può dire che lasciar sfogare la frustrazione di Louis non sia un buon modo di passare il sabato. 


Cosmo

Jan. 14th, 2021 10:10 am
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Cosmo!Centric

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+ Maritombola 11 - Apatia (Extratombola - Bestiality)


They think she does it because she likes the thrill of it and they couldn’t be more wrong. 

She doesn’t like it, no, she hates it.

She hates the adrenaline, her survival instinct kicking in, she hates her heart beating so frantic in her chest, her senses alert, the fear and the need to run, and mostly she hates that she needs it. 

That she only feels alive when she’s risking to die. 

She hates selling herself, but not everyone has the luxury of choice in this world, and she hates  doing it to carnivores and she hates that she can’t stop. 

She tried - it’s not like strip clubs and prostitution don’t exist outside the Back Alley Market, herbivores have coupling impulses too -  so she went and worked for one of those herbivores topless-only vanilla club, with no cage needed to keep the public from eating the stripper. 

She stopped caring after a few days, because what was the point? It was all so meaningless. 

She scared herself then, because it’s one thing to know you’re putting yourself in danger, that someone could hurt you and maim you and kill you, and it’s another whole thing thinking “what would happen if I just walked on the rails” as the train you’re waiting for is about to arrive and  you don’t give a shit about the answer. 

So she went back, back to the cage, the risk, the danger, back to giving her number to strangers and walking with them in dark alleys not knowing if it was to suck their cock or to get eaten alive. 

She didn’t do it because she liked it, even if it’s true, there is something different in animals lusting for her with all their bodies, starving for her - the power of rendering them bumbling messes that don’t even know what they want from her, the power of leaving them unsatisfied, of giving just enough to soothe the erection in their trousers, but not enough, never enough, because they can’t eat her, no, no, hands down, gents, - but who is kidding who, now? 

Even if she didn’t meet with clients outside - didn’t suck their cock in dirty bathroom stalls, their claws clenching her head as she chokes on their dicks, wondering if this is how she leaves this world, strangled during a blowjob - they still can eat her, and eat her they will, sooner or later. she knows it and her manager knows it and her colleagues and her costumers too. 

But the world is full of people who don’t care, and she doesn’t either.

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Legosi/Louis

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Maritombola 77 - X si decide a cercare finalmente un pegno d’amore degno di Y (Extratombola - Bestiality)


Notes: 

Title’s in Italian, taken from “Il dono del cervo” by Angelo Branduardi (‘cause why not, I title half of my Italian shit in English, might as well do it the other way around this time). Besides it was perfect for prompt 77 *wink wink* 

The prompt is more about finally taking the decision, instead of searching for the actual gift.


Legosi gets used to waking up in the middle of the night, drenched in cold sweat and aroused, feeling like crying and throwing up and jerking off. 

It’s because he dreams of it every night. 

It’s not just the fight, even if he had almost died, no, that’s not what he dreams about. 

Legosi dreams of Louis’ body, hot and vibrant, pressed under him, of the sound of Louis’ heart, beating frantic in his chest, fear and expectation both rushing in the deer’s veins, taking over his smell. He dreams of burying his muzzle in Louis’ chest, of inhaling his sweat, of the raspy sensation of Louis’ fur against his lips, the muscles of his leg contracting against his tongue. 

He dreams of a broken curse, of a carved number swallowed whole, an invisible chain dissolved by stomach acids. 

Legosi dreams of blood dripping from his fangs and bones breaking in his mouth and flesh filling his throat. 

And then Legosi keeps dreaming. 

Not about fighting Riz, no, Legosi dreams of eating Louis whole, of eating his leg and then keep eating, of not being able to stop. He dreams of Louis closing his eyes and not resisting. He dreams of an altar and he dreams of Louis giving himself up, sacrificing himself, of Louis putting his hand over his own chest and taking out his heart, of Louis feeding it to him. 

Legosi dreams of biting it, blood spurting from the pressure, and of chewing it, of chewing and chewing until his jaw aches and he can no longer open his mouth and he dreams of Louis, with a hole in his chest, kissing him, licking his own blood from his lips, prying them open with the strength of his sheer will, of Louis taking his face in his hands and leaving the print of his bloodied hands on his fur

Legosi dreams of Louis dragging him down over him, between his spread legs, and taking him in,  giving himself up in a different way, he dreams of the deer’s leg and stump closing around his waist, not allowing him to leave, and clenching and crushing him, pushing the wolf deeper inside him as he is inside Legosi - blood and sex reflecting in a skewered mirroring - and keeping him there as he presses his hand inside his mouth and whispers, “Bite me, Legosi,” and Legosi… 

Legosi startles awake with a throbbing cock and bile rising in his mouth. He’s salivating, for goodness’ sake, like a feral animal in the wild. 

He disgusts himself. 

Legosi gets up, starts pacing to get rid of all the sensations - he refuses to take a shower, a long hot shower where he could jerk off on the thought of eating and fucking Louis, fuck no, even if Gohin told him it would help. 

That’s not a particular train of thoughts he wants to follow. 

You repress it too much, it has to get out somehow, and so you dream about it. You need to face what you feel for Louis and solve it, or else someday you’re gonna snap and you’re gonna end up eat him and I won’t allow it, do you understand Legosi? 

But Gohin doesn’t understand - how could he? He never met Louis, and even if he had, he wouldn’t know him as Legosi does.
The panda wouldn’t understand, doesn’t understand. 

It’s not about eating meat. 

It’s not about instincts or predation or the food chain. It’s not about Legosi at all. 

It’s Louis, it’s always been about Louis.

Even when they thought it didn’t matter, the red deer had given him his extended hand on a stage in front of the whole school and his pain by doing it on a broken leg. 

And then it did matter, for Louis gave a part of himself up to save Legosi’s life, he immolated himself just so Legosi wouldn’t be killed. 

Louis cried for him, gave him his flesh, his tears, his trust and his life to dispose of - only because he wouldn’t want to live in a world without Legosi. 

And Legosi took it all. 

He took and took and took, he ravaged and tore and, maybe that’s the problem. Maybe it’s time for Legosi to give something back. 

And he just knows where to start. 

From Louis’ seventh gift. 

And then, all the others would follow. 


 

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Louis/Legosi

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Maritombola 41 - In your eyes, The Weeknd 


Louis clutches the papers in his hand, crumpling them and shoving them deeper inside the pocket of his trousers. 

It feels like failure and freedom. 

He tried so hard - so hard, always looking away, always pretending to be blind and oblivious, that everything was fine - and yet. Azumi divorced him. 

Louis knocks at the door he has been staring at for the past ten minutes. 

It takes a while and the waiting is the longest in the deer’s life. 

“Louis?” 

Louis takes a step forward, pushes Legosi in as he closes the door behind himself and the wolf stumbles back. 

“What happened?” 

Louis doesn’t reply, doesn’t let him ask further questions. Louis pushes him and when Legosi doesn’t falter anymore, he keeps pushing until he’s pressed against his chest and then he kisses him.
Legosi doesn’t move, shocked, his eyes widen, and Louis kisses him again, licking the seam of his lips. 

“Louis! What are you doing?” 

Legosi snaps out of it and grabs him by the shoulders, keeping him at a distance.

“I’m kissing you,” Louis deadpans, “And then, if you’re not against it, I’d like to fuck.” 

“But - but - why?” 

“I could leave, if you wish, but I was under the impression you were not opposed to the idea.” 

Legosi shakes his head, “I - I can’t. Louis…” 

The wolf is pleading. Louis always liked it, having Legosi in his power, having him orbiting around him, knowing what he felt but never acting on it. 

“I’ll go then,” the deer says, but doesn’t move. 

“Now you’re just being cruel,” Legosi closes his eyes, as if he couldn’t bear to look at him, “You know… you must know.” 

“I do. Is that the problem? That you want this to be meaningful?” 

“Yes,” Legosi doesn’t know if Louis expected him to deny it, but the wolf is so tired of pretending, “yes. I can’t take the brunt when you’re done with me.” 

“What makes you think that it’s not already meaningful? What makes you think, after all these years, that I’ll ever be done with you?” 

“Why now?” 

“Because I’m tired, Legosi, I’m so fucking tired of restraining myself from doing what I want” Louis places a hand on his muzzle, intertwines his fingers in the fur on his cheeks. “I’m an actor. I’ve always been. I’ve played the part though all my life and the only thing I got out of it it’s an empty theatre. When the public leaves, I’m nothing. Do you see my problem? The public always leaves at the end.” 

“But the theater crew stays after the curtain falls,” Legosi’s voice is hoarse and his hand curls against Louis’ hip, almost giving in. 

Louis looks at his lips, barely open, just the hint of his fangs hiding behind them,“They do, don’t they.” 

“What about your wife?” He tries to build barriers between them, to bring up reasons over reasons to not give in, but it was never up to Legosi in the first place and he should have known better. 

“She’s just part of the public and the show has ended.” 

Then Louis kisses him and Legosi does cave in, kissing him back.

It’s only when he has him all hot and bothered and on the verge of losing himself, of masochistically getting burned by his own feelings, that Louis tells him - because Louis always liked power plays. 

“I love you, Legosi. I’ve always had.” 

Legosi doesn’t reply. He doesn’t have to. 

It’s frantic and desperate - as if they couldn’t wait a minute more, as if everything would dissolve between their fingers -  Louis almost tears apart his clothes and Legosi can hear buttons clutter on the floor, torn from the fabric by his claws. 

Louis clutches his shoulder and pushes him on the bed, straddling him, and it’s almost oniric, something that could not be happening in reality and Legosi has to caress his spine to make it feel real, he has to grip his hips as Louis slowly lowers himself on his cock, raw and deliciously painful, -  because it’s clear by now that the deer is a masochist, denying themselves this long, and what for? 

“I’ve missed you,” Louis gasps against his lips as he kisses him, moving his hips to ride him and there’s blood, Legosi can smell it, but when isn’t there blood with Louis? 

You never had me before, Legosi should answer, because you can’t miss something you never experienced, but he knows what the deer means. It feels like going home, it feels like fucking finally, like finding under the couch the piece that was always missing from the puzzle. 

In the end - when there’s just semen and blood trickling down his thighs and he lies on Legosi’s chest, his knot still inside, filling him up - Louis can fucking finally smile, despite all the pain.  

“This feels way more real than anything,” he says. 

“That’s because this is true,” the wolf replies and his answer is just so simple, as if it were Louis the one that always complicates everything. And maybe he’s right. Definitely, he’s right. 

But this time, Louis would really like to prove him wrong.

“Yes. Yes, it is.” 


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Calendario dell’Avvento (Kaos Borealis)

10/12: Cioccolata calda

Maritombola (LandeDiFandom): prompt 62 - “Non pensavo avessi sentito.” “Ho sentito abbastanza.”

+ ExtraTombola: prompt 81 - Bestiality


Beastars

Legosi/Louis + Haru/Juno

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C’è una tazza di cioccolata calda questa volta sulla tavola della sua cucina, perché per i cervi non è tossica come per i canidi, ma niente biscotti, perché Juno si è rifiutata di farli. 

Se è per questo, si è perfino rifiutata di essere presente. 

Così Haru deve fare la parte della brava padrona di casa da sola, nonostante Juno sia soltanto dall’altro lato della porta della sua camera da letto, e far sedere Louis al tavolo della cucina con un penosa mancanza di biscotti appena sfornati, che l’ultima volta avevano lasciato un delizioso profumo in cucina.

Sarà perché Legosi le ha spezzato il cuore con molto più tatto. 

Haru ha solo dei miseri marshmallow pre-confezionati da offrirgli, che non saranno buoni come i biscotti di Juno, ma almeno con la cioccolata calda sono perfetti. 

Louis scossa il capo in diniego e dà a malapena un sorso alla cioccolata, giusto per sporcarsi le labbra, prima di abbandonare la tazza sul tavolo. 

“Siete due idioti,” sentenzia la coniglietta, piazzandosi di fronte a lui, e il fatto che Louis non protesti nemmeno all’essere stato chiamato idiota è già preoccupante di per sé, ma Haru non è proprio del migliore degli umori per farci troppo caso. 

La stella di Natale rossa non attira la sua attenzione come aveva fatto per Legosi, no, gli occhi di Louis sono bassi, fissi sulle sue mani che giochicchiano con l’orlo della sciarpa troppo grigia e bitorzoluta per essere stata comprata in negozio. 

E sta lì tutto il problema. 

La dannata sciarpa di Legosi che sarebbe dovuta essere una dichiarazione di amore eterno neanche l’avesse scritta con i fuochi d’artificio in cielo e che Louis è riuscito comunque a rigirare in modo tale da pensare che Legosi non possa certo intendere quello che ha inteso. 

“Vi state girando intorno da mesi ormai, sta diventando ridicolo.”
“L’unica cosa ridicola è questa dannata sciarpa,” Louis sospira, ma Haru non può fare a meno di notare che la sta comunque ancora indossando, “e il fatto che Legosi non abbia il minimo senso di come si sta al mondo.” 

Haru sorseggia la cioccolata calda, poco impressionata dal broncio del cervo. 

“Non hai pensato che magari Legosi sappia benissimo come si stia al mondo e che quella sciarpa significhi per lui esattamente quello che significa per il resto di noi comuni mortali?”

Louis sbuffa - sbuffa!, come se fosse Haru quella completamente fuori dalla realtà e non lui - e rivolge lo sguardo al cielo bianco fuori dalla finestra. 

“Lo sappiamo entrambi che se Legosi gli desse lo stesso significato l’avrebbe regalata a te e non a me.” 

Haru scuote la testa, “No, questo lo pensi solo tu e tra l’altro è pure una sciocchezza.” 

Louis fa per protestare, ma Haru lo blocca con la mano. 

“E se ti dicessi che Legosi è stato qui, seduto proprio sulla sedia su cui sei seduto tu adesso a chiedermi gli stessi consigli che mi stai chiedendo tu?” 

Louis apre la bocca e poi la richiude. Non è possibile, ci deve essere un’altra spiegazione. 

“Ma tu… e Legosi… io pensavo…” 

“Non abbiamo funzionato, Louis. Capita.” Haru si stringe nelle spalle finisce quel poco che resta dalla cioccolata, ma non basta a farle passare il freddo. “Non l’ho lasciato a piangersi addosso. Semplicemente l’amore che proviamo l’uno per l’altra non è più quel tipo di amore.”

“E cosa ti fa credere che tra noi sia quel tipo di amore?” Louis la rimbecca. 

“Non lo so, sarà perché io, al contrario tuo, ho parlato con Legosi, invece di supporre di sapere sempre tutto,” Haru gli punta il dito contro perché non ne può più di fornire servizio terapeutico a tutti gli ex-fidanzati delle sua vita, “Non glielo hai nemmeno chiesto cosa significava per lui quel regalo!”
“Chiedere una domanda di cui si sa già la risposta non ha molto senso,” il cervo lascia cadere un marshmallow nella cioccolata ormai fredda e lo ripesca con il cucchiaino, più per tenere occupate le mani che per gola. 

“Certo,” Haru alza gli occhi al cielo e sbotta, perché tutto questo prima era teneramente ridicolo, mentre ora sta diventato frustrantemente ridicolo, “e siamo seduti a questo tavolo a sviscerare quello che vi siete detti nemmeno fossimo tredicenni alla prima cotta proprio perché sai già la risposta! Voglio dire, la risposta è ovvia, ma tu proprio non la vuoi vedere!” 

Louis non sa cosa rispondere, gli capita spesso quando c’entra Legosi - è solo che il lupo gli scatena emozioni dentro che Louis non sapeva nemmeno di poter provare. 

“Non sono sicuro…” 

“Non sei sicuro?” Haru fa un verso strozzato, quasi non ci potesse credere, ma oh, certo che ci può credere, non c’è niente di più facile per Louis che ricadere nel cercare scuse per non avere quello che vuole - non è forse stata la stessa cosa che aveva fatto con lei? Oh, il matrimonio combinato e poi lei sarebbe stata sicuramente meglio con Legosi visto che l’aveva salvato dai leoni ed era finita così senza nemmeno una parola - “E di cosa esattamente non sei sicuro? Se volete stare insieme, stateci! Non c’è bisogno di metterci in mezzo tutto questa storia degli sventurati amanti con gli astri avversi. Non dico che sarà facile - e quando mai qualcosa lo è stato in questo mondo, eh? - ma nemmeno tanto complicato quanto la fate voi.”  

Haru esplode, perché è stupido e sciocco e fa male - averli nella loro cucina a cercare di risolvere il puzzle dei loro sentimenti, ancora e ancora e ancora, quando Haru doveva ancora superare il lutto per una relazione perduta e Louis lo aveva amato comunque, prima, e Juno, oh, non sapeva nemmeno dove cominciare con Juno - e c’è un limite all’idiozia che è disposta a sopportare per gli animali a cui vuole bene. 

Louis è preso in contropiede, perché Haru non l’ha mai vista così arrabbiata, quasi ferita. La coniglietta nana è sempre stata carina, dolce, e ora tutti i muscoli del suo viso sono contratti in una espressione rabbiosa, gli incisivi scoperti quasi come farebbe un carnivoro con i suoi canini. 

“Ma forse il problema non siete voi, forse sono io che mi circondo di gente incapace di vedere oltre il proprio naso! E Legosi che ti sbava dietro da anni - anni, Louis, anni!  - e se n’è accorto solo sei mesi fa e ancora non ha capito che anche tu provi le stesse cose da sempre. E tu, che hai bisogno di una comunicazione formale su carta bollata per renderti conto che Legosi ti ama. E Juno che dopo due anni che vi siete lasciati non ha ancora smesso di pensare a te e nemmeno riesce a stare nella stessa stanza con te e continua a considerarmi solo il coniglio che paga metà del suo dannato affitto! Per Rex, perché dovete complicare tutto così tanto, eh? Vai da Legosi e digli quello che provi e smettila di nasconderti dietro a quello che dovresti o non dovresti fare. Per una volta fai quello che ti rende felice, almeno tu che puoi!” 

Haru si accascia sulla sedia, come una corda di violino talmente tesa da essersi spezzata. Non è fatta per arrabbiarsi, Haru, non è un predatore dagli istinti violenti e il suo corpo lo sa benissimo. 

Louis le prende una zampa tra le proprie e la mano di Haru si contrae in un guizzo, quasi avesse voluto sfilarla via, prima di cambiare idea. 

“Avrei dovuto rendermi conto che non era il caso di gravare su di te anche questo mio problema. Mi dispiace, Haru.” 

“Non è che…” prova a dire, ma le parole non le escono come vorrebbe, “Non è che io provi ancora qualcosa per Legosi. Non in quel senso, abbiamo fatto la cosa giusta a lasciarci, ma… fa male, Louis. Fa male vedere che potreste essere felici. E fa ancora più male pensare che potreste essere felici e non lo siete. A cosa serve che Legosi non mi ami più se non riesce nemmeno ad amare te? O che tu abbia spezzato il cuore a Juno se non è per essere felice con chi ami davvero?” 

“O che tu abbia lasciato spegnere la prima vera storia importante della tua vita se Juno non ti ricambia?” 

“Non è giusto.” 

“La vita raramente lo è.” 

“Lo so. Ma per Rex, tu e Legosi avete già qualcosa, siete soltanto ciechi da non vedere che non è a senso unico!” 

C’è dolore e rassegnazione nel tono di Haru e Louis vorrebbe fare qualcosa, essere in grado di consolarla come lei fa con lui, ma non è mai stato bravo con le emozioni - si fa fatica ad impararle quando l’unico motivo per cui sei al mondo è che sei stato cresciuto per uno scopo e poco importa se esso sia essere mangiato, ereditare l’Horn complex o diventare il Beastar. 

Lo stesso, Louis le stringe la mano. “Pensavo che tu e Juno… vi foste trovate.” 

“Lo pensano tutti,” Haru ridacchia triste, “dovresti vedere le occhiate che ci lancia la padrona di casa quando andiamo a pagare l’affitto.”

“Tutti, eh?” 

“Già, lo pensiamo tutti… tutti tranne Juno.” 

“Ed è lei l’unica che importa che lo pensi.” 

Non c’è più molto da dire dopo. Louis potrebbe dire che gli dispiace, ma sarebbero parole vuote.

Haru giochicchia con il cucchiaino, immergendolo nell’amalgama freddo della cioccolata quasi solidificata e poi malauguratamente lo lecca, facendo una smorfia. 

“D’accordo che il cioccolato è cioccolato, ma così fa davvero schifo. Posso preparatene un’altra se ti va,” cerca di rendere la conversazione più leggera, ma Louis scossa il capo. 

“No. No, hai ragione. Devo andare a parlare con Legosi,” dice, tracciando con le dita il contorno delle trecce maldestre che il lupo ha sferruzzato sulla sciarpa. “Grazie, Haru.” 

Louis le posa un bacio sulla fronte, il suo respiro caldo le inumidisce la striscia di peli tra le orecchie in un deja-vu d’infanzia, la stessa sensazione di quando la baciavano sulla fronte i suoi genitori, quando era ancora una cucciola e il mondo non sembrava tanto brutto e doloroso. 

“Salutami Juno, se pensi sia il caso.” 

E il cervo si chiude la porta alle spalle.


* * * 


Juno fa capolino dalla porta e la prima cosa che le esce di bocca è “Mi dispiace.” 

‘Per cosa?’ vorrebbe chiedere, ma l’espressione di Juno le fa rimangiare la domanda. Sicuramente non si dispiace di non averla aiutata a intrattenere gli ospiti. 

“Non pensavo avessi sentito.” 

Speravo non avessi sentito,’ e ‘Quanto hai davvero sentito?’ sono i due pensieri che le frullano nel cervello, ma Haru li sopprime prima che possano uscire dalle sue labbra. 

“Ho sentito abbastanza,” Juno sembra leggerle nel pensiero, “Haru…”

“Possiamo fare finta che tu non abbia sentito affatto?” Haru arrossisce e sente la terra mancarle sotto i piedi. “So che non…” 

“Quello che provo per te non è quello che vorresti tu.” 

“Lo so.” 

“No, non lo sai.” 

Juno la bacia, e Haru non ha nemmeno il tempo di chiedersi quando si sia avvicinata abbastanza da farlo perché è troppo distratta da tutto il resto. 

Il bacio è strano. L’angolo è sbagliato, la curva della mascella troppo morbida. I canini di Juno le sfiorano il labbro inferiore, ma lei non si ritira, non salta dall’altra parte della stanza balbettando delle scuse. Ma forse è perché Juno non ha mai tentato di mangiarla. 

Haru posa delicatamente una mano contro la sua guancia, infila le dita tra i ciuffi di peli rossicci ai lati della sua testa e stringe, la tira più vicina, sfregando i loro nasi insieme. 

Juno si lascia scappare un ‘oh’ sorpreso, le labbra che si aprono impercettibilmente e Haru ne approfitta per far scivolare la sua lingua tra le fauci dell’altra. 

Juno le stringe il braccio, delicata e attenta, Haru sente la pressione dei suoi artigli premere contro la carne attraverso il maglione, ma non abbastanza da tagliare. 

Haru ci ha messo così tanto per avere il suo primo bacio con Legosi che quasi si sorprende per la facilità con cui tutto questo sta accadendo, ma poi Juno si allontana e “Non posso,” dice contro la sua bocca,, “quello che provo… non è abbastanza. Sarebbe approfittarsi di te.” 

Haru ride, allora, quasi ai limiti dell’isteria, perché ti pareva che potesse andare tutto liscio, “Ma è la luna che rende voi lupi tutti così profondi o hai solo passato troppo tempo con Legosi e ti ha contagiato? Tu non lo sai cosa provo, non voglio l’amore eterno ed esclusivo e indissolubile. Voglio te, adesso.”

E tu? È una sfida che rimane nell’aria e Juno può solo rispondere baciandola di nuovo.  

‘Oh per Rex’, pensa Haru ritrovandosi con la schiena contro il tavolo, mentre armeggia con i bottoni della camicetta di Juno, ’ho tanto rimproverato Legosi e Louis e Juno e poi io stessa sono un’altra di quelli che non riesce a vedere oltre il proprio naso. E il mio è anche più corto del loro.’

Poi Juno scende a leccarle il collo e Haru sente solo l’impulso di scappare via e abbandonarsi, aprirsi, adrenalina ed endorfine che si riversano nel suo sangue e la coniglietta non sa sa tirare o spingere via. 

Le mani di Juno scorrono sotto il suo maglione, le accarezzano i fianchi, cautamente, si infilano sotto la sua gonna, afferrandola per i glutei e tirandola su abbastanza per farla sedere sulla sedia un po’ troppo alta della cucina. 

Dalla nuova posizione Haru le getta le braccia al collo, abbandonando i bottoni di cui è finalmente riuscita ad avere la meglio. 

“Io… non l’ho mai fatto prima,” Juno sussurra contro il suo collo, respirando l’odore del suo pelo, mentre le sue dita scorrono avanti e indietro nell’interno coscia dell’altra. 

“Neanche io,” Haru deglutisce, “non con una ragazza almeno.” 

“Vuoi che…” La sua voce si spegne, incerta. Non sa nemmeno lei cosa chiedere. 

Ma Haru le prende la mano e se la porta tra le gambe, dove una macchia umida si sta già spandendo sulle sue mutandine. 

“Mi fido che tu stia attenta agli artigli,” le dice. 

Juno, con un sospiro tremulo, e mani esitanti, scosta la stoffa leggera, premendo il palmo contro il suo sesso caldo. 

Haru sobbalza, si lascia scappare un lamento e se la stringe addosso con talmente tanta forza che se non fosse una coniglietta nana probabilmente l’avrebbe strozzata. 

Juno le lecca il collo, ancora, nell’esatto punto in cui può sentire il battito impazzito del suo cuore, la giugulare che pulsa a pochi millimetri dai suoi denti. 

Juno non è Legosi e sa benissimo di non esserlo, non ha la sua stessa comprensione dei rischi per prima cosa e di conseguenza nemmeno il suo stesso autocontrollo. È quasi una illuminazione, adesso che si trova davvero in una situazione intima con un erbivoro, riconoscere quanta ansia e paura ci siano in ogni movimento

Juno deve calcolare, essere lieve, stare attenta ad ogni minimo gesto. Quando ritira la mano, deve utilizzare tutta la sua cautela per non graffiare Haru. Quando posa un dito lungo tutta la sua apertura,  lo fa con esitazione, e quando appoggia il polpastrello sul suo clitoride e preme, l’angolazione è tale che le sue unghie appuntite nemmeno sfiorano il pelo della coniglietta. 

Haru sospira e geme e si dimena, cercando di aumentare la pressione con il movimento delle proprie anche e Juno lascia che sia lei a dettare il ritmo, perché le basterebbe usare soltanto un po’ di forza in più per farle del male. 

“Juno…” Haru mugola e le prende il muso tra le mani per baciarla, “un po’ di più.” 

La lupa si districa da lei, con cautela, perché Haru è soffice e morbida e rotonda dove Juno è appuntita e affilata e tagliente, e si piega sulle ginocchia per poter baciare le sue cosce, lì dove il pelo bianco si dirada e lei riesce a vedere il rosa della carne e l’azzurro delle vene sottostante. 

Tiene la bocca chiusa Juno, a coprire i canini, e lascia che sia solo la sua lingua a muoversi, stretta tra le labbra in una posizione scomoda, mentre risale fino al suo sesso umido e aperto. 

Haru boccheggia, chiama il suo nome e si contorce per avere di più e Juno deve davvero imporsi di non lasciarsi andare, di non aprire la bocca per sentire di più il suo sapore, perché potrebbe ferirla con i denti e si chiede quale sia il suo problema con i dannati erbivori, perché non abbia più potuto provare lo stesso con qualcuno delle sua stessa specie dopo Legosi, se quello che ha detto a Louis sull’ebrezza di baciare qualcuno della categoria opposta non valga lo stesso anche per lei. 

Haru emette un gemito strozzato e si affloscia tra le sue braccia come una bambola di pezza, con un sorriso trasognato sulla faccia. 

“Tutto bene?” Chiede Juno tirandosi in piedi, le ginocchia che scricchiolano per la posizione.

“Oh, a meraviglia.” 

Haru ci mette qualche istante a tornare in sé e Juno la guarda preoccupata, perché può essere stata Haru a dirle che la voleva, ma forse ha già cambiato idea, forse Juno ha sbagliato qualcosa e ha rovinato tutto, e…

“Smetti di pensare,” Haru la bacia, la prende così di sprovvista che Juno non fa nemmeno in tempo a chiudere la bocca. Uno dei sui denti le sfrega il labbro con abbastanza forza da farle un taglietto. 

“Mi dispiace,” Juno sgrana gli occhi, tenta di fare un passo indietro, senza riuscire a smettere di guardare la goccia rossa sul suo pelo bianco. 

Haru la ferma, tenendola per un polso, e con l’altra mano sfrega via la goccia, poi si porta le dita sporche alla bocca e lecca via il sangue, quasi soprappensiero. “Non fa niente.” 

“Io… non volevo.” 

“Lo so.” 

“Dovrei… dovrei…” 

“Non sei il mio primo lupo, Juno. Non è successo niente.” 

“Ma…” 

“La stai prendendo anche meglio di Legosi. Adesso non andare in panico.” 

Juno vorrebbe scuotere la testa, allontanarsi, sapeva che non era una buona idea, lei… 

Haru balza giù dalla sedia e le posa le due dita sul muso. 

Juno può sentirci sopra ancora l’odore del sangue e della saliva di Haru, non abbastanza forte da coprire il sapore di Haru che ha ancora in bocca. 

“Va tutto bene,” Haru la spinge all’indietro, guidandola verso la camera da letto fino a che le sue gambe non incontrano il bordo del materasso e allora la spinge di nuovo, giù stavolta, per poi arrampicarsi sopra di lei a cavalcioni.

“Adesso è il mio turno.” 


* * *


Haru prepara la cioccolata calda alla fine e Juno tira fuori dal frigo la pastafrolla e inizia a tirarla per fare i dannati biscotti che avrebbe voluto fare quella mattina e che aveva poi abbandonato quando aveva saputo che Louis sarebbe passato. 

Lavorano in silenzio, mezze nude e un po’ incerte su come muoversi l’una attorno all’altra. 

“Ancora non credo che sia giusto quello che ti ho fatto,” dice Juno quando tutti i dischetti di pasta sono stati tagliati e coperti di acqua zuccherata e messi sulla carta forno, in attesa che il forno si scaldi abbastanza. 

Haru quasi rovescia la cioccolata che sta versando - perfetta e calda e senza grumi - e si decide a posare il pentolino prima di fare un macello. “Lo dici come se mi avessi mangiato una zampa e non come se due adulte consenzienti avessero fatto sesso.” 

“Ma io non provo le stesse cose che provi tu.” 

“Tu non sai cosa provo. O credi che per me lasciare andare Legosi sia stato semplice? Dirgli di mettersi insieme a Louis ed essere felice?” 

Juno non risponde, così Haru prosegue.

“No, no, ci sono giorni in cui mi chiedo a che sia servita tutta la fatica che abbiamo fatto per poter stare insieme, tutti gli sforzi e i compromessi, se sarebbe bastato solo stringere i denti un altro po’ e forse si sarebbe risolto tutto. Ci sono notti in cui mi manca così tanto che l’unica cosa che vorrei fare è telefonargli e dirgli di venire da me e fare l’amore con lui un’ultima volta.” 

Juno la guarda in silenzio, una fitta di dolore al centro del petto che non sa da dove venga, né perché sia lì.

“Ma poi mi dico che quello che mi manca è il ricordo di Legosi, quello che era al liceo e che non è stato più da parecchio tempo. Devo andare avanti. E devi farlo anche tu. E non importa se ci sono giorni in cui si ricade nelle vecchie abitudini, non importa se farai ancora fatica a vedere Louis o se vorrai continuare a chiuderti in camera quando ci verrà a trovare. Io voglio esserci per te in quei giorni. E vorrei che tu ci fossi per me.” 

Haru distoglie lo sguardo finalmente e si sistema la coperta avvolta sulle spalle nude per preservare un po’ di calore. Finisce di versare la cioccolata calda, come se non avesse appena aperto il suo cuore alla lupa di fronte a lei, e poi le porge la tazza. 

Juno, che non sa cosa dire, riesce a sputacchiare un “Lo sai che per me è tossica, vero?” ma prendere la tazza lo stesso. 

“Tutto è tossico ad alte dosi, anche l’amore.” 

Juno beve un sorso, allora, - e non le farà bene d’accordo, ma nemmeno la ucciderà - e passa un braccio attorno alle spalle di Haru, stingendosela contro. 

“Grazie,” le dice, posandole un bacio sulle labbra, e sente Haru sorridere. 

Non sarà perfetto, ma è abbastanza. 

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Originale 

COW-T #10 (week 7, m4) - prompt: warning:violence

Prompt di scorta week3 - J2) immagine 


Wordcount: 1600



Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga. 

Dopotutto lo avevo fatto per tutta una vita. 

Avevo iniziato a otto anni, uno zaino della sopravvivenza che contava una bottiglia d’acqua da mezzo litro, dieci pacchetti di cracker e un kit-kat. 

Mi ero sentito così fiero di me stesso allora, come se quelle provviste potessero durarmi più di un giorno. Ma avevo otto anni e mi ero sentito particolarmente previdente. 

Scappare di casa era stato facilissimo, restarne fuori molto più problematico. Faceva freddo, perché non avevo preso la giacca, stupidamente considerando che, visto che mia madre mi ricordava in continuazione di farlo, ora che lei non sapeva che me stessi andando avrei potuto non farlo. 

A mia discolpa, ripeto che avevo otto anni. 

Comunque fece freddo e mi pentii di non aver preso la giacca. 

Così tornai a casa.
La mia fuga era durata esattamente cinque ore e ventidue minuti.
Mia madre non si accorse di niente, ovviamente, perché tornai a casa fingendo di essere andato a scuola. E la cosa finì lì.

No, mi correggo la cosa sarebbe dovuta finire lì. Avrei dovuto disfare lo zaino e dimenticarmi di quell’idea balzana di andarmene a vivere nei boschi solo perché avevo letto “La bambina che amava Tom Gordon” e pensavo che io in realtà in quei boschi avrei potuto viverci e non sarei stato altrettanto inetto. I boschi sarebbero diventati la mia casa, avrei addomesticato le belve feroci e, quando mi fossi stancato di fare l’eremita sarei ritornato a casa, novello Tarzan delle scimmie, a cavallo di un giaguaro per riparare tutti i torti della mia vita, principe azzurro dall’inusuale - ma molto più scenografica - cavalcatura.
A mia discolpa, continuo a ribadire che avevo otto anni - ed ero un bambino particolarmente stupido. Fuggii al parco pubblico e cavalcai l’altalena a molla le cui pareti rappresentavano la testa di un elefante. 

Le cose che facciamo da bambini. 

La seconda volta presi la giacca, e i fiammiferi, perché mi ero reso conto di non avere la minima idea di come creare una fiamma solo con un bastoncino di legno e forse sarebbe stato più utile avere una fiamma a portata di mano invece che perdere prezioso tempo per imparare a farlo. Avevo preso anche il coltellino svizzero di mio padre, quello dal manico rosso, che si apriva di scatto e rivelava una lucente lama metallica dal bordo affilato. O un cavatappi puntuto che sembrava minacciare di cavarti gli occhi se solo lo avessi osservato abbastanza a lungo. 

Rimasi fuori più tempo quella volta, tredici ore e trentasette minuti. 

Avevo undici anni allora e ancora nessuno si accorse della mia sparizione. E come potevano? 

Mamma era svenuta in bagno, dove si era chiusa a leccarsi le ferite. Papà era sparito a ChissàDove - un luogo che mamma chiamava con disprezzo, quasi sputandolo tra i denti serrati, e che per me aveva sempre avuto un aura di mistero dal momento che tutte le volte che mio padre vi andava tornava conciato in maniere diverse, ma sempre con l’alito dolce e pungente, che aveva lo stesso odore della bagna per dolci che mamma usava per fare la zuppa inglese. 

Anche quella volta mi rifugiai in un parco - non lo stesso dell’altra volta, perché insomma, non avevo più otto anni, e sapevo benissimo che quel microscopico appezzamento che nemmeno poteva essere chiamato parco non mi avrebbe nascosto di nuovo. Il parco che scelsi quella volta era più grande, e più grandi erano i ragazzi che lo frequentavano. Adolescenti dalle braghe larghe, che fumavano (forse) sigarette rollate a mano, ridendo sguaiati e imprecando come scaricatori di porto. 

No, stonavo tra quella gente, seduto compitamente su una panchina scrostata con disegni di genitali in uniposca nero sulle doghe di legno marcescente. 

Tornai a casa senza troppe remore, convinto che la scena sarebbe stata sempre al stessa. 

Ma mamma non era in bagno e papà non era ChissàDove

Papà era in casa e da ChissàDove doveva esserci tornato da poco perché il suo alito puzzava davvero ancora di alchermes - rum, avrei scoperto da più grande, ma che importava la qualità del veleno? 

Si era accorto che il coltellino svizzero mancava. E visto che mancava ne aveva usato uno da cucina, uno di quelli grossi che mamma usava per tagliare le carote in tante rondelle sottile, con quelle mani che volavano sul tagliere come quelle di una grande chef, senza mai ferirsi. 

Quella lama non aveva mai tagliato carne prima d’ora, mai assaggiato il sapore del sangue, perché mamma era veloce, ma attenta, e non si era mai tagliata. Mai, prima di quel momento. 

Hai visto cosa mi hai fatto fare? Aveva chiesto mio padre, e si era voltato verso di me e mi aveva dato una sberla, talmente forte il mio collo aveva scricchiolato e per un istante avevo pensato che la mia testa sarebbe rotolata via. 

Poi era arrivato il bruciore, forte come un ferro arroventato dove la palma e le cinque dita si erano imprese sulla mia guancia. 

Dove cazzo lo hai messo, eh? Aveva detto e mi aveva strattonato la giacca e aveva chiuso la mano intorno alla cinghia dello zaino e aveva tirato e avevo sentito il rumore dello strappo della tela cerata. 

Avevo barcollato all’indietro, lasciando andare la mia ancora di sopravvivenza e lui l’aveva squarciata, aprendola con foga. La cerniera rossa adesso sembrava un ferita sanguinolenta e slabbrata, dopo essere stata aperta con tanta violenza. 

Aveva svuotato il contenuto sul pavimento. I cracker e l’acqua e le merendine e i fiammiferi. Era tutto rotolato fuori come terreno franato da una montagna. E poi aveva afferrato la plastica rossa con il cerchio bianco sopra e la croce rossa incastonata dentro e l’aveva fatto scattare. 

Adesso ti insegno io a prendere ciò che non è tuo. 


- - - 


Avevo sempre uno zaino pronto, sempre sotto il letto, cracker e acqua e fiammiferi e un coltellino svizzero dal manico nero e nessuna croce rossa su campo bianco dipinta sopra. E soldi. Una cosa l’avevo imparata. Senza soldi non vai da nessuna parte.
Me ne andai di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. 

Me ne andai dalla signora Galloway. 

Me ne andai dai cognugi Rizzoli.

Me ne andai dalla casa famiglia in cui mi misero e dalla famiglia affidataria a cui mi affibbiarono e dalla seconda casa famiglia in cui mi misero. 

Me ne andai e me ne andai e me ne andai. 

Non lo dissi allora cosa facevo, anche se furono gli altri a dirmelo. 

È scappato di casa di nuovo, quel ragazzo! Non sappiamo proprio che farcene. 

Beh, ma io non stavo scappando, non ne la mia testa, lì non lo avevo ancora ammesso. 

Io me ne stavo solo andando. 

Mi immaginavo che scappare avrebbe voluto dire calarsi dalla finestra con il favore delle tenebre. Io in fondo prendevo solamente l’uscio, andandomene alla luce del giorno, zaino in spalla, salutando la ‘madre’ di turno, e poi continuavo ad andare, fino a che non si accorgevano che sarei dovuto essere già di ritorno e invece non c’ero.

Il trucco era essere imprevedibile. 

Per scappare, bisognava aspettare che abbassassero la guardia, che non si aspettassero che me ne volessi andare. Dovevo lasciare sbollire i moventi. 

Avevo litigato con la ‘nuova mamma’ o con ‘il nuovo papà’ oppure avevo risposto male all’assistente sociale? 

Il trucco era stringere i denti, aspettare una settimana, forse anche due, dipendeva, e poi arraffare lo zaino nascosto sotto il letto e sorridere mentre uscivo di casa, ‘ci vediamo dopo, buon lavoro, sì, certo, buona giornata anche a te, no, non è oggi il compito di chimica’. 

Gli ci voleva più tempo così a rendersi conto che ero sparito. 


- - - 


Mi resi conto presto che il problema, quando vivevi da solo ed eri un adulto, era che non si poteva scappare di casa. 

Me ne andai comunque. 

Eppure con il corpo rimasi sempre lì. 

Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga. 


- - - 


Mi ci volle parecchio tempo e parecchia più disintossicazione per arrivare a chiedermi se anche mio padre in fondo non se ne fosse voluto andare. 

Prendere la porta e uscire. 

E andare, invece che in un parco come me, a ChissàDove. 

Fu il mio momento di chiarezza. 

Che il mondo è tondo e se continui a scappare alla fine torni sempre al punto di partenza. 

Me ne andai anche quella notte, nonostante sapessi che andare era futile e vano e non avesse senso e avrebbe buttato all’aria tutto. 

Ma restare, quello non lo sapevo fare. 


- - - 


Perciò sono qui, ora, e mi guardo indietro e poi guardo anche avanti, e perché no, di lato sia a destra che a sinistra come se dovessi attraversare la strada, ma la strada non c’è più, non è neanche un sentiero nel parco, nemmeno una pista tra le fronde del bosco. 

La strada è ChissàDove. 

A forza di scappare e tornare al punto di partenza e continuare a girare in tondo come una bussola impazzite, le direzioni si sono confuse tutte e il paesaggio è sempre lo stesso. 

Quanto schifo mi farò domani? 

A destra la regia dice ‘parecchio’, a sinistra invece ‘un bel po’. In avanti ridono direttamente, come se la domanda fosse talmente banale da non meritare una risposta. 

Dietro sollevano le sopracciglia con un ‘guarda che facevi già schifo prima’. 

Che paesaggio di merda, in una strada di merda. 

Ecco quello che so fare: come darmi alla fuga. 

E direi che al momento mi è rimasta una sola direzione - e spero che non sia circolare anche quella. 

Adesso andiamo giù. 

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 Devilman Crybaby, Akira/Ryo 

COW-T #10 - week 6, missione 5

Prompt: Abyssus abyssum invocat

Wordcount:  


La pelle di Ryo è candida e immacolata. Bianca come la neve e altrettanto pura.  

Akira vi affonda i denti, morde, non abbastanza da spillare sangue, e Ryo si lascia scappare un versetto che gli va dritto al cazzo. 

Akira solleva lo sguardo, la bocca aperta in un sorriso che mette in mostra la chiostra di denti aguzzi e incontra gli occhi di Ryo, freddi e glaciali, azzurri come il cielo d’inverno. 

“Se devi stare tra le mie gambe e mordere puoi anche smetterla,” 

Ryo sembra una bambola, adagiato sul letto com’è, puntellato su un gomito quasi si sia messo in posa, porcellana finissima e intonsa. Se non fosse che adesso sulla sua coscia c’è un segno rosso e l’impronta dei denti di Akira. 

Si stupisce, spesso di quanto velocemente Ryo guarisca, quanto in fretta i segni che Akira lascia sul suo corpo si riassorbano, quasi non siano mai stati lì. 

Akira morde ancora, un altro segno rosso che domani non sarà più lì, poi prosegue verso l’alto, sempre mordendo, leccando. Costruisce un percorso, rosso e bianco, sul suo corpo, lungo il suo torace, il suo collo, la sua bocca - e Ryo glielo lascia fare, gemendo quando Akira spilla sangue. 

È duro, talmente duro da fare male e Ryo lo prende dentro, lo accoglie, quasi senza preparazione. Quasi che il dolore sia parte integrante di quello che stanno facendo. 

“Vuoi darti una mossa?” Ryo lo prende in giro e Akira ringhia, aggrappandosi con le unghie e con i denti alle ultime vestigia di controllo per non lasciare che Amon prenda il sopravvento e si lasci andare, per non ridurlo a uno straccio, una poltiglia umana con un buco dentro cui si sbatte senza remore.

“Avanti! Scopami!” 

“Merda, Ryo! Ma ti piace proprio soffrire?” 

Ryo ridacchia. “Sì.” 

Amon ruggisce nel suo petto e Akira chiude gli occhi. 

Ryo sarà la sua morte. 

 

danzanelfuoco: (Default)
 Fandom: Originale

Rating: NSFW

Challenge: COW-T, w4, m3

Prompt: Non commettere adulterio o atti impuri 

Wordcount: 2900 parole


Note: BDSM, fem!dom, light whipping, aftercare


Quando la porta si apre Francesco sussulta. 

"Sono a casa!" urla Lucia, e il ragazzo sente la porta d'ingresso sbattere 

Ok, ok, può farcela. Non ha mai preso lui l'iniziativa e sta violando qualsiasi principio in cui abbia mai creduto, ma… può farcela.

Non commettere atti impuri, gli ricorda la voce di sua madre nella sua testa, e no, questo non é proprio il momento adatto per ricordarsi della volta in cui sua madre l'aveva beccato con le mani nelle mutande e di tutti gli Ave Maria che aveva dovuto recitare per penitenza.

"Francesco?" chiama Lucia non avendo avuto risposta.

"In camera da letto!" Risponde con voce strozzata. 

È solo la seconda volta che lo fanno e la prima… beh, diciamo che non era certo stato lui a prendere l’iniziativa. Piuttosto, Lucia lo aveva colto con le mani nel sacco e le cose avevano preso una piega inaspettata. 

Una meravigliosa piega in aspettata, ed è vero, Lucia gli ha detto che la cosa le piace e che lui deve assolutamente sentirsi libero di presentarsi in lingerie quando gli pare, che ci penserà lei a farlo sentire davvero bene, ma… il fatto di essere lui a fare la prima mossa questa volta gli fa battere il cuore a mille nel petto. 

Lucia si affaccia alla porta della camera e si inchioda sui suoi passi, sgranando gli occhi.

"Francesco?" 

Francesco, sdraiato sul letto, completamente nudo se non per le mutande di pizzo e le calze a rete nere agganciate alla giarrettiera, la fissa, cercando sul suo volto il minimo segno di retromarcia. 

"Sí?" risponde lui esitante.

Lucia si lecca le labbra "Cosa ho fatto di bello per meritarmi questo premio?" 

Il cuore quasi gli fa un balzo in gola. "Ti - ti piace?" 

Lucia, senza staccargli gli occhi di dosso, comincia a sbottonarsi la camicia.

"Oh tesoro, ma devi anche chiederlo? Sei un pasticcino. Mi fai venire l'acquolina in bocca." 

Lucia calcia via le scarpe e si avvicina al letto, con uno sguardo famelico che sembra davvero volerselo mangiare vivo. 

Francesco non si é mai sentito così esposto come ora e non sa se la cosa gli piaccia, gli sembra un po’ troppo, un po’ eccessivo e dunque abbassa lo sguardo, ma Lucia gli afferra il mento con una mano e gli solleva il volto perché lui possa guardarla in faccia.

“Posso fare una richiesta?” 

“S - sì?” 

"Un po' di trucco. Ti starebbe così bene."

Francesco deglutisce a vuoto. “Di - dici?” 

Lucia traccia il contorno delle sue labbra con il pollice, prima di ficcarglielo in bocca.

Francesco quasi senza pensarci succhia. 

“Sì, Dio, vorrei vederti con il rossetto sbavato come una puttana.”  

Francesco freme sotto le sue dita. 

“Perché è questo che sei, vero? La mia puttana.” 

Lucia sfila il pollice, grondante saliva, e gli spinge via la testa. 

“Alzati in piedi,” ordina e Francesco si affretta ad obbedire, mentre il sollievo per l’apprezzamento di Lucia si trasforma in eccitazione e aspettativa. 

“Ti ricordi la nostra parola di sicurezza?” 

Francesco annuisce, ma non pensa di riuscire a parlare, la gola troppo secca. 

“Ho bisogno che tu me la dica, tesoro. Qual è la nostra parola di sicurezza?”
“Koala.” 

“Molto bene,” Lucia gli sorride. “Adesso in ginocchio.” 

Francesco quasi cade come un sacco di patate e forse domani avrà due lividi neri, ma al momento non gli importa. 

Lucia si sfila la cintura di cuoio lentamente - consapevole che il ragazzo si sta bevendo ogni suo minimo movimento senza mai staccarle gli occhi di dosso -  poi la piega in due e afferra i due capi con una mano, facendola schioccare sul palmo aperto dell’altra. 

Il respiro di Francesco accelera, mentre Lucia gli si avvicina con passo ferale, girandogli attorno. Schiocca ancora la cintura contro il suo palmo e il ragazzo, teso come una corda, un fascio di muscoli contratti dall’adrenalina, sobbalza al rumore. 

Ciak. 

Un sussulto.

Ciak.

Un altro sussulto.

Lucia gli si posiziona davanti, gli posa la cintura sulla fronte e lentamente la fa scendere lungo il suo viso, lungo gli addominali fino alle mutande di pizzo quasi trasparenti, tese dalla sua erezione, poi risale, la sensazione del cuoio tiepido e duro contro la pelle calda del suo addome, del suo petto, del suo collo. 

Lucia usa la rigidità della cintura piegata per costringerlo ad alzare la testa. “Ne vuoi?”
“S- sì” balbetta lui, troppo poco sangue al cervello per articolare una risposta coerente.

“Sì, cosa?”
“Sì, domina.” 

Lucia si ritira, tre passi indietro. 

“Carponi.”  

Francesco si lascia cadere sui palmi delle mani e Lucia fa scorrere ancora una volta la cintura sul suo corpo, sulla sua schiena, seguendo il solco della colonna vertebrale fino ai suoi glutei. 

Può vederlo fremere sotto quel tocco, la paura e il desiderio di provare dolore.

Lucia afferra la fibbia della cintura e se la avvolge attorno alla mano fino a che non ne rimane che la porzione terminale, non troppo lunga da causare vero dolore, ma abbastanza perché a Francesco non sembri una passeggiata. 

Il sibilo della cintura nell’aria é l'unico avvertimento che riceve prima che il cuoio si abbatta sulla sua pelle, lasciandogli un'impronta rossastra su un gluteo. 

Francesco sobbalza con un “ahi”.

“No, no,” gli nega Lucia, “niente ‘ahi’ oppure smetto. Vuoi che smetta?” 

“No.”

“No, cosa?”

“No, domina.” 

“Allora chiedimelo gentilmente.”

“Cosa?”

“Chiedimelo gentilmente. Dì: ‘domina, ti prego, frustami’. Coraggio.”

“Domina, ti prego, frustami.” 

Lucia gli accarezza la schiena, ma non lo colpisce. 

“Ancora.”

“Domina, ti prego, frustami.”

“E non piagnucolerai come una mammoletta quando ti colpirò?”

“No, domina.”

La frusta improvvisata schiocca nell’aria ancora una volta, prima di calare sulla sua schiena e Francesco geme, ma non si lascia sfuggire una parola. 

 “Ancora?” 

“Sì - sì domina.” 

Ma Lucia non si muove.

“Ti prego, domina, ancora.”

“Molto meglio.” 

Lucia ripete il gesto, attenta a non fare cadere la cinghia più di un paio di volte su un punto già colpito. 

“Di più, domina, ti prego.”

Lucia colpisce un gluteo, poi l’altro, il retro delle gambe e la sua schiena, le sue spalle. 

Quando si ferma, il dorso di Francesco è una maschera arrossata su cui spiccano vermigli i segni delle frustate. 

“Basta, così, non vorrai farti male davvero, no?” 

Francesco ansima, cerca di riprendere fiato, troppo stordito ed eccitato. 

“Rimettiti in ginocchio.”

Il ragazzo ci mette un po’ ad obbedire, e non le risponde nemmeno il ‘sì, domina’ di rito, ma Lucia al momento può perdonarlo. 

“Mani dietro la schiena,” ordina lei di nuovo e questa volta lui è un po’ più veloce nel reagire. Incrocia i polsi dietro la schiena, ondeggiando un po’ nel sistemarsi, messo in difficolta dai talloni velati dal nylon affondano nei suoi glutei, arrossando ancora di più la pelle già irritata. 

Lucia si inginocchia alle sue spalle e, svolgendo la cinta e facendola passare intorno ai suoi polsi, gli blocca le mani, congratulandosi mentalmente con sé stessa per aver punzonato più buchi in modo da poter usare la fibbia e rendere più stabile la legatura. 

“Sei proprio una puttanella, non è vero?” Gli lecca il collo, risalendo per sussurrargli all’orecchio, poi strattona la cintura per essere certa che non ceda, e Francesco vibra contro i suo petto, mentre le parole gli vanno direttamente all’inguine e la sua sue erezione pulsa 

“Sì, cazzo!” sospira, quasi disperato. 

“No, no, niente parolacce, tesoro. Fai il bravo, altrimenti mi toccherà punirti.” 

Lucia si prende un istante per osservare il suo ragazzo, inginocchio ai suoi piedi, i capelli scarmigliati e il volto madido di sudore. Scendendo con lo sguardo un po’ si pente di avergli risparmiato il petto, ma non voleva nemmeno esagerare, questa era la loro seconda volta dopo tutto e non vuole certo che Francesco scappi via dandole della pazza malata. 

No, starà attenta e farà in modo che a lui non venga nemmeno in mente di dirle la parola Koala. 

Lucia si sfila i pantaloni, poi le mutande e getta tutto in un angolo. Avrebbe voluto farsi spogliare da Francesco, gli avrebbe fatto usare solo la bocca, ma lui non ha ancora la destrezza per una cosa del genere e lei è troppo eccitata per sottoporsi ai suoi infruttuosi tentativi, perciò per questa volta ha fatto da sola. 

Francesco si lecca le labbra, in attesa, ma non dice una parola. 

È un sottomesso naturale, ha già imparato che può ottenere di più se non chiede - a meno che non voglia essere punito per la sua impertinenza, ma anche questo fa parte del gioco. 

Lucia si avvicina al letto e posa un piede sul materasso, lasciando l’altro a terra, in modo da divaricare le gambe senza smettere di incombere su di lui, poi lo chiama. 

“Vieni, qui, tra le mie gambe.”

Francesco fa per alzarsi, ma Lucia lo blocca. 

“No, no, sulle ginocchia.” 

Così il ragazzo quasi striscia verso di lei e quando la raggiunge la guarda da sotto quelle lunghe ciglia su cui Lucia darebbe qualsiasi cosa per vedere un po’ di mascara. 

“Sai cosa devi fare, non è vero?”
“Sì, domina.” 

“Allora lecca.” 

La lingua di Francesco è prima esitante e incerta mentre lecca le sue grandi labbra risalendo verso l’alto, ancora e ancora. Sfiora il suo clitoride appena con la punta della lingua prima di tornare a scendere e ripetere il gesto. 

Lucia lo lascia fare, non ha bisogno di tutto e subito, si lascia andare al foreplay,  permettendo all’eccitazione montare dentro di lei. 

Francesco continua, guardandola dal basso con aspettativa, come se implorasse un segno di apprezzamento. 

Lucia mugula, “Oh, dovrai impegnarti molto più di così” e gli occhi di Francesco si induriscono di determinazione. 

La sua lingua si fa strada dentro di lei, saettando dentro e fuori come se a simulare un rapporto, veloce e rude, quasi a volerle dimostrare che ‘sì, si può impegnare molto più di così, deve solo stare a guardare’. 

Poi Francesco lappa il suo clitoride e, prima che la scossa di piacere abbia il tempo di arrivare al cervello di Lucia, chiude la bocca intorno a quel piccolo bottoncino e succhia. 

“Ah!” Lucia si lascia scappare sorpresa, mentre si scioglie e tutto si focalizza su quella sensazione, la suzione alternata alle brevi leccate.

Gli afferra i capelli, arricciandosi le ciocche tra le dita, spingendolo verso di sé come se potesse premerselo contro ancora di più e Francesco quasi non riesce a respirare affondato com’è nelle pieghe della sua carne. 

Lucia muove i fianchi, in scosse e singulti disperati, e Francesco non smette di leccare e succhiare dove può, dove arriva, senza nemmeno tentare di mantenere un ritmo. 

Lucia viene, sorprendendo persino sé stessa, perché non si aspettava un risultato così… appagante. 

Nell’afterglow dell’orgasmo, Lucia sente i muscoli dell’addome e delle gambe rilassarsi per impulso autonomo e si costringe ad aprire i pugni serrati sui capelli di Francesco. 

Quello coglie il segnale e si allontana, saliva e umori che gli colano sul mento e Lucia pensa di non aver mai visto una scena tanto erotica e che la ecciti così tanto, nonostante si appena venuta. 

“In piedi” Lucia ordina, ma le ginocchia di Francesco gli si sono anchilosate a stare così a lungo sul pavimento e i suoi muscoli sono a molto vicini a essere bloccati da un crampo, così lei gli slega i polsi, massaggiandogli la pelle arrossata e lo aiuta a tirarsi su e sedersi sul letto. 

“Tutto bene? Koala?” 

Francesco scuote la testa, “No, no, sto bene.” 

Lucia annuisce e con un gesto fluido si inginocchia tra le sue gambe. 

“Ma -” Francesco cerca di protestare, “non ho detto Koala!” 

La ragazza sorride, ghigna, “Divarica le gambe e sta zitto, devo prendermi cura del mio schiavetto. Altrimenti come farai ad essere abbastanza duro per scoparmi?” 

Francesco sgrana gli occhi, sorpreso, ma non si sogna di protestare oltre o disobbedire. 

“Mani dietro la schiena e resta fermo immobile. Se ti muovi, mi toccherà legarti di nuovo. O forse è proprio ciò che vuoi?” Chiede, facendo scorrere un dito sull’erezione intrappolata dal pizzo ormai fradicio di liquido pre-eiaculatorio.  

Lui scuote la testa e Lucia continua ad accarezzarlo, a stuzzicarlo senza mai dargli soddisfazione. 

Francesco spinge in avanti le anche, cercando di aumentare il contatto, ma Lucia ritira la mano e gliela pianta sulla coscia, spingendolo giù. 

“Fermo,” gli ordina e lui geme di frustrazione, ma si costringe all’immobilità. 

Gli accarezza lentamente le cosce, risalendo dal ginocchio verso l’inguine, le unghie che grattano contro il nylon delle calze, poi gli sposta lo slip, senza sfilarglielo e l’erezione di Francesco è già sotto i suoi occhi, dritto e lucido e grondante. 

Lucia lo lecca, un unica lappata dalla base alla punta, portandosi via il sale del sudore e del seme. Gli posa un bacio sulla cappella, poi le sue labbra si schiudono lentamente per prenderlo in bocca. 

Francesco trema e pulsa, e urla quando sbatte contro il fondo della sua gola. 

Lucia inclina la testa e lo lascia scivolare fuori quasi del tutto prima di riprenderlo dentro, ancora e ancora, e succhia, stringendolo tra le pareti umide della sua bocca.  

Lo sente diventare duro, di marmo, più di quanto riteneva possibile e questo è il segnale per smettere prima che lui venga, quindi si sfila con un oscenamente bagnato “pop” e un filo di saliva ancora ad unirli. 

Francesco protesta, o per lo meno ci prova, dalla sua bocca escono solamente parole incoerenti, e poi Lucia è già in piedi e in un attimo gli è a cavalcioni. 

È talmente bagnata che lui le scivola dentro immediatamente, affondando dentro di lei come in burro fuso, e Lucia muove le anche avanti e indietro, freneticamente. 

Da qualche parte lungo la strada, Francesco deve aver dimenticato del Koala - e anche Lucia - perché le sue mani le artigliano i fianchi, le afferrano le natiche e lui la sbatte già con foga, impalandola sulla sua erezione ancora e ancora e ancora.  

Lucia freme contro la sua pelle, singhiozza e si abbandona, senza nemmeno rendersi conto che se non fosse completamente persa dovrebbe ordinargli qualcosa e non lasciarsi trasportare da lui. 

Francesco geme, singhiozza, contro la sua spalla, le morde il collo e lei si contrae intorno a lui ed improvvisamente è troppo, troppo il calore di Lucia che lo avvolge e lo inghiotte e lo intrappola completamente, troppo il calore dell’attrito delle coperte sulla sua pelle già arrossata dalla cinta. Troppo tutto. 

Francesco urla e si riversa dentro di lei e il suo tepore le riempie il ventre e lei continua a muoversi aggrappandosi a quel poco che rimane dei suoi singulti. 

“Sei… stato… fantastico…” ansima, lasciandogli un bacio sulla fronte madida.

Rimangono abbracciati e incastrati insieme, con Lucia che gli accarezza i capelli fradici, a cercare di riprendere fiato.

“Proprio fantastico,” ripete, in una litania. 

Non è nemmeno del tutto certa che lui la senta al momento, ma non è importante. Continuerà a ripeterglielo finché non sarà abbastanza presente a sé stesso per rendersi conto delle sue parole. 

Lucia si alza, sfilandosi da lui, e la sua testa scatta a cercarla, gli occhi un po’ persi. 

“Va tutto bene,” Lucia gli accarezza i capelli dolcemente, “sono qui.” 

Poi si inginocchia tra le sue gambe e sgancia le calze dalla giarrettiera. 

“Lascia che ci pensi io a prendermi cura di te, vuoi? Sei stato bravissimo,” gli dice e gli sfila una calza.

“Guarda quanto sei bello,” continua, togliendogli anche l’altra.

“Proprio un bijoux, o un bisou,” ridacchia dello stupido gioco di parole, lasciandogli un bacio sulla coscia, mentre gli slaccia la giarrettiera. 

“Bravissimo.” Lentamente gli sfila anche gli slip di pizzo, stando attenta a non toccare parti eccessivamente sensibili per non fargli male. 

“Lo sai, quanto sei stato bravo?” Gli chiede rialzandosi e sedendosi accanto a lui. “Dimmi che sai quanto sei stato bravo.” 

“Sono stato bravo?” 

“Oh, di più, molto più che bravo. Stupendo. Ma voglio che me lo dici tu. E voglio che me lo dici credendoci, perché, davvero, Francesco sei stato meraviglioso.” 

“Sono stato bravo.” 

“Meraviglioso,” insiste Lucia, afferrando una coperta e coprendolo. 

“Sono stato meraviglioso.” 

“Sì, esatto. Posso venire sotto la coperta con te?” 

Francesco la guarda un po’ spaesato. “Sì, certo.” 

Il perché non dovresti? rimane sospeso nell’aria tra loro e Lucia sorride e si accoccola contro di lui. 


* * * 


“C’è altro che mi sto perdendo?” chiede Francesco mentre Lucia gli applica un velo di rossetto rosso sulle labbra carnose. 

“Un intero mondo, tesoro mio, un intero mondo.”
Francesco deglutisce abbastanza rumorosamente da essere tenero. “E mi insegnerai?”
“Tutto quello che vuoi.” 

Il ragazzo rimane in silenzio per un istante ponderando la risposta.

“Cosa… cosa mi insegnerai adesso?” 

“Potrei... Potremmo usare questo?” 

Francesco osserva l’ovulo, rosa e piccolo, e il telecomandino nelle mani di Lucia. 

“Quel… coso va su per -?”

Lucia annuisce e arrossisce, perché l’imbarazzo di Francesco è contagioso e questo forse è un po’ troppo? Lei vuole ancora poterlo guardare in faccia il suo fidanzato al di fuori della camera da letto. Forse sta sperimentando un po’ di top-drop - la paura di essere troppo intensa, di essere troppo e di romperlo, Francesco e tutto quello che hanno. 

“Oh,” Francesco non sembra particolarmente contento, ma neanche rifiuta e Lucia si permette di sperare. 

E in effetti il ragazzo è titubante ad aggiungere anche la sodomia all’elenco di atti impuri che non avrebbe dovuto compiere, ma… beh, è un po’ tardi per questo no? 

In fondo, se deve andare all'inferno, tanto vale farlo con stile.

Francesco annuisce. “Sì, va bene.” 


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