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Fantasy

Cow-T #12, w2, m2: Fu sera e fu mattina. 

1510 w


Fu sera, una di quelle che sembravano non terminare mai, con la luce rosea del crepuscolo a tingere il cielo pervinca di una tonalità sanguina. 

Il sonno della ragione, lo chiamavano alcuni, e forse era questo a generare i mostri, o forse erano quelle ombre scure ad aver addormentato qualsiasi forma di ragione o raziocinio, perché quale logica ci poteva mai essere in quei demoni senza anima né pietà che sembravano emergere dalle nebbie, rendendosi corporei soltanto di fronte alle proprie vittime. 

Caeil si strinse il mantello addosso, chinando la testa per proseguire nonostante fosse già sera - una sera calata all’improvviso, che lo aveva sorpreso senza un rifugio lungo il sentiero. La notte sarebbe arrivata presto, Caeil lo sapeva, e con essa le sue creature mostruose e sanguinarie. Decise di proseguire comunque. La runa che lo proteggeva non era abbastanza forte, non lo sarebbe stata mai finché qualcuno non avesse capito di cosa fossero fatte le ombre che infestavano le lande senza lasciare scampo e non avesse creato un incantesimo adatto, forse costruendo una runa nuova.
La luna in cielo non era altro che una pallida falce contro l’azzurro del cielo, ma non appena gli ultimi raggi del sole si fossero dissipati Caeil sarebbe rimasto solo, in mezzo alla piana, alla mercé dei mostri. 

Doveva trovare riparo, si era detto, uscendo dalla foresta labirintica che aveva inghiottito più di un viaggiatore disattento, perdendolo tra fronde tutte uguali tra loro e confondendo lo scorrere del tempo. Un’illusione pericolosa quella foresta e Caeil pensava di essere un viandante più furbo con tutte le leghe che aveva messo sotto i suoi stivali, invece era stato catturato tra le sue maglie. 

Doveva trovare riparo, si era detto quando aveva notato lo stato del cielo, ma la piana che si stagliava dinanzi a lui era spoglia e deserta. Non ci sarebbe stata una casa, nè una cascina, alcun riparo. Poteva scordarsi una fiamma.
La luce della Dea sarà con te, gli aveva detto Xylea quando ancora erano al castello, prima che gli fosse assegnato quell’ingrato compito, e Caeil avrebbe tanto voluto crederle. La luce della Dea, se mai aveva illuminato qualcuno, oramai era spenta da tempo. 

Lo dimostrava la pietra che portava nel tascapane, una reliquia dei tempi andati, vitrea e immota, che si diceva avesse ospitato lo spirito della Dea, illuminando per secoli le sale del Castello di Urll, portando nelle sue sale un calore che si irradiava fin dalle pietre. 

Il castello di Urll era il posto più gelido in cui Caeil avesse mai alloggiato e certamente faticava ad immaginare le scure pietre di fiume come qualcosa che potesse mai diventare caldo per contatto, figurarsi addirittura irradiare tepore. Leggende, tutte quante, stupidaggini che le vecchie massaie si raccontavano per sopravvivere al gelo della notte, alla paura che essa si portava dietro.
La luna era risalita nel cielo imbrunito, gli ultimi raggi di sole lasciavano il posto alle tenebre e Caeil accelerò il passo, pregando i numi che quella notte fosse priva di terrori e disperando nel suo cuore di poter arrivare alla mattina. 

Quando anche l’ultima vestigia di sole fu scomparsa dietro l’orizzonte, l’ombra gli comparve davanti senza che Caeil potesse accorgersi da dove venisse, come se si fosse materializzata davanti a lui, prendendo corpo e forma in una mostruosità dagli occhi glauchi e le zanne affilate, braccia fin troppo lunghe, arti dinoccolati che terminavano in artigli taglienti come spade, in grado di tranciare un uomo adulto in due metà o trapassarlo da parte a parte. Le fattezze vagamente antropomorfe erano distorte da gobbe e bitorzoli che si sfaldavano e si ricomponevano mentre le figure si muovevano, quasi quei mostri fossero fatti di nebbia scura tenuta a malapena insieme da una volontà maligna di distruzione. 

Caeil non aveva scampo, cercò di ritrarsi, di afferrare, la spada che portava al fianco, come se potesse mai servire per qualcosa a uno come lui, abituato a passare il suo tempo nelle biblioteche di Urll piuttosto che nell’arena ad allenarsi. Tirare di spada era quello che ci si aspettava che l’ultimo genito del signore del castello fosse in grado di fare, ma certo lui non conosceva più che i rudimenti, certamente non sufficienti per avere la meglio di quelle ombre letali. 

Eppure la sua mano corse comunque all’elsa dell’arma. E si chiuse invece sul suo tascapane. 

Non ricordava di aver lasciato aperti i lacci della bisaccia, ma preso dalla disperazione vi infilò comunque dentro la mano, chiudendo le dita attorno alla Luce della Dea. 

Forse poteva tirargli addosso la pietra, magari avrebbe attraversato l’ombra da parte a parte, dissolvendola abbastanza a lungo da permettergli di fuggire. Invece fu una sensazione dolorosa quella che lo colse, quasi i lati della pietra fossero divenuto affilati come coltelli e lo avessero tagliato. 

Caeil non ebbe tempo di considerare che altro fare, l’ombra incedeva verso di lui pronta ad ucciderla, e se la sua presa sulla gemma era resa scivolosa dal sangue o se la pietra fredda si stava intiepidendo, poco importava, Caeil estrasse la pietra comunque e si stupì di vederla risplendere luminosa. 

L’ombra si fermò, la luce bianca era resa rosacea dai rivoli di sangue che colavano dal palmo di Caeil, un sacrificio che l’uomo pagava volentieri per sopravvivere. 

La gemma era calda adesso, calda contro il palmo della sua mano dolorante, ma Caeil non aveva la minima intenzione di lasciarla cadere. Le dita erano tanto strette attorno alla superficie lisca e tagliente che le articolazioni gli dolevano e i che i bordi continuavano ad affondare nella carne, spillando altro sangue. 

L’ombra sembrò indugiare con il braccio sollevato, indecisa se colpire o meno ora che quella luce era presente… e poi si dissolse. 

Caeil sbarrò gli occhi, nonostante la luce fosse abbastanza forte da ferirli, e prese un respiro tremante, perché era sopravvissuto. La luce lo aveva salvato. 

Poi cominciò a correre. 

Corse, tenendo la pietra di fronte a sé a dissipare la notte. Corse finché non ebbe più fiato in corpo e anche quando si dovette fermare, piegarsi sulle ginocchia e impedire al misero pasto di qualche ora prima di risalirgli alla bocca, tenne la pietra ben altra sulla sua testa. 

Camminò quando non fu più in grado di correre, camminò tutta la notte, trascinando i piedi stanchi, un passo alla volta per far scorrere il tempo, senza staccare gli occhi dalla pietra nel timore che decidesse di abbandonarlo, di tornare un semplice pezzo di vetro e sprofondarlo nella notte. 

E poi fu mattina, una di quelle che sembrava non arrivare mai, a rischiarare con la sua luce dorata le terre invase delle ombre, insinuando una lama di calore e di colore nella vallata. 

Caeil guardò la pietra illuminata brillare fulgida tra le sue mani, nonostante la luce del sole. 

Gli sembrava di essere un personaggio uscito dritto dritto dalla leggenda del Cavaliere di Sangue, una storia che risaliva a prima che le ombre conquistassero la notte, quando ancora i mostri che popolavano la terra erano di carne e ossa e sangue, e potevano essere ancora combattuti e  trapassati a fil di spada, seppur fosse difficile. Il Cavaliere di Sangue era un giovane il cui nome si era perso nel tempo, un ragazzo, dicevano i miti, che la famiglia aveva sacrificato senza pietà alla Chimera che viveva in quelle terre. Doveva morire per appagarla, dicevano le leggende, perciò era stato mandato nei suoi domini perché la Chimera se ne cibasse, se chi raccontava la storia pensava alle Chimere come animali selvatici, oppure perché fosse smembrato e il suo corpo usato per riti occulti, se il narratore vagheggiava che le Chimere fossero maghi catturati dai loro stessi incantesimi, stregoni che aveva pagato a caro prezzo la rottura degli equilibri naturali. In ogni caso, il giovane era stato stato abbandonato disarmato nei boschi e la Chimera lo aveva trovato, lo aveva braccato e inseguito, finché il giovane non era caduto a terra e non era più riuscito ad alzarsi. Solo allora, mentre la Chimera stava per ucciderlo, mentre disperato rivolgeva preghiere ai numi, la Dea gli aveva salvato la vita, mettendogli tra le dita una pietra, benedetta dal suo potere, che il ragazzo aveva usato per uccidere la Chimera.

Una leggenda, una storia per bambini. Eppure aveva tutto improvvisamente senso, il sangue, la paura, il sacrificio salvato dalla Dea. 

Xylea lo aveva ingannato. Non doveva portare la pietra al Concilio dei Maghi perché potessero studiarla meglio - non aveva senso, no, non quando qualsiasi incantatore avrebbe potuto usare le sue arti per giungere ad Urll. Caeil doveva essere il Cavaliere di Sangue, il giovane sacrificato alle ombre per suscitare la pietà della Dea. 

Come se la Dea potesse farsi ingannare da un misero intrigo umano. 

Perché il Cavaliere del Sangue non aveva spillato una goccia del proprio. Il Sangue con cui era tornato a casa era quello della Chimera, che gli aveva imbrattato i vestiti mentre la colpiva ripetutamente. 

Invece tra le mani di Caeil la pietra riluceva di una luce cremisi, assorbendo il sangue. 

 

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