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 BLACK BUTLER 

hints Ciel/Sebastian

COW-T #12, w6, m4: Harry Potter!AU 

892 parole

 

Che Ciel Phantomhive fosse lo studente preferito del Professor Michealis lo sapeva tutta la scuola e d’altronde si sa che ad Hogwarts i pettegolezzi circolano più velocemente di quanto un gufo non riesca a consegnare una lettera. 

Le speculazioni si sprecavano tra i corridoi, tra chi diceva che Ciel fosse in realtà il figlio segreto del professore a chi, con più malizia, insinuava che ci fosse una ragione se Phantomhive si tratteneva sempre oltre il termine della lezione e osava persino intendere che la sua divisa fosse piuttosto spiegazzata l’ultima volta che era arrivato in ritardo a Trasfigurazione, a chi, con una ginnastica mentale degna di un grande atleta, era arrivato a ipotizzare che l’insegnante di Difesa contro le Arti Oscure fosse in realtà un vampiro e che il Serpeverde avesse accettato di donargli il suo preziosissimo sangue una volta al mese in cambio di buoni voti. 

Ciel che non si era mai curato dei pettegolezzi quando la sua intera famiglia era morta lasciandolo erede unico del Casato dei Phantomhive non avrebbe certo iniziato ora a preoccuparsi di ciò che la gente diceva. 

“Non ti sarai trattenuto ancora con il Professor Michealis, vero, Ciel?” Elizabeth gli aveva chiesto per l’ennesima volta quella sera, rompendo il rigido protocollo che voleva gli studenti seduti ognuno al tavolo della propria casata. 

“Ti preoccupi troppo di ciò che dicono gli studenti,” Ciel aveva liquidato con un gesto della mano le assurde angosce della cugina. 

La Tassorosso aveva sbuffato per nulla convinta. “Persino i professori parlano. Suthcliff vuole arrivare in fondo alla faccenda e sai che quando si mette in testa una cosa è inarrestabile.” 

Ciel sbuffa e scuote la testa, più concentrato sulla sua cena che sulle parole di Elizabeth. “Suthcliff ha solo una cotta per Sebastian, niente di più. È la gelosia che parla.”
“Sarà pure gelosia, ma se monta un indagine rischi di finirci di mezzo anche tu,” la Tassorosso gli punta la forchetta contro.
“Non ha prove. Serve qualcosa più dei pettegolezzi per farne un caso e non ha niente.” 

“Niente? Ciel, hai appena chiamato il professor Michaelis per nome. Non credi che sia abbastanza sospetta questa… cosa tra te e Sebastian?”

“Circostanziale,” la liquida il Serpeverde. Elizabeth sembra sul punto di replicare, perché Ciel non la sta prendendo con l’adeguata serietà. Ciel la tacita con una mano. “Lo so, lo so. Non sto sottovalutando la situazione, Lizzy. Ma sai anche tu come vanno le cose qui ad Hogwarts, un pettegolezzo diventa una montagna e una diceria si trasfigura in certezza assoluta. Sono così tranquillo perché sono tutte stupidaggini. Lo sai anche tu che niente di quello che dicono è vero.”
Lo sa anche lei? Lizzie annuisce ma non ne è così sicura.
Sono anni che non è più sicura di nulla quando si tratta di Ciel. 

 

*

 

“Sospettano,” Ciel si morde il labbro inferiore, camminando irrequieto avanti e indietro per lo studio del professore. “Devi fare qualcosa.” 

“E cosa vorresti che facessi?” Sebastian lo osserva impassibile, “Sei tu che sei venuto nel mio ufficio adesso, quando tutti potevano vederti, e senza essere convocato, oserei aggiungere.” 

Ciel sbuffa frustrato e si fa scorrere le mani tra i capelli.”Ora sarebbe colpa mia?” 

“Io sono sempre professionale,” Sebastian non si scompone, “dopotutto sono un diavolo di professore.” 

Quella battuta gli piace un po’ troppo, e Ciel ormai ne è saturo.
“Avrei dovuto rifiutare la lettera di ammissione e studiare da casa. Adesso avrei molti meno occhi addosso e sarebbe molto più facile portare a termine la mia vendetta.” 

“Adesso avresti anche molti meno contatti, meno piste da seguire per scoprire chi ha ucciso la tua famiglia, e non saresti altrettanto preparato nelle arti magiche,” Sebastian  ribatte punto a punto, “contrariamente alle credenze babbane, la magia non è dispensata dal demonio e io sarei stato un precettore piuttosto monotematico nella mia materia d’insegnamento.” 

Come se a Ciel servisse davvero una buona preparazione magica, quando ha un demone pronto a difenderlo e, alla fine, a divorarlo. Di certo quanti NEWT riuscirà ad ottenere per il suo futuro non è tra le sue priorità. 

“Ma non dovrei preoccuparmi di cosa sembri ad occhi esterni tutto il tempo che passo con te.” 

“Beh, era più facile quando avevi undici anni,” Sebastian sospira, e poi si alza dalla scrivania per andare a piazzarsi di fronte a lui. Ciel si ferma e solleva lo sguardo verso di lui.  “Lasciali parlare,” il demone gli posa una mano sulla guancia, le dita che sollevano il bordo della benda che porta sull’occhio sacrificato, “Non lo scopriranno mai.” 

Ciel annuisce, poi lascia che Sebastian gli tolga la benda. 

Non lo scopriranno mai perché nessuno può arrivare a pensare che Sebastian sia un demone, che Ciel abbia venduto la sua anima - è un ragazzino, e i ragazzini non si immischiano in antiche e proibite Arti Oscure come la Necromanzia e la Demonologia, giusto?
Ciel però è preoccupato comunque, perché l’insegnante di Divinazione, un po’ troppo in fissa con il predire la morte di ogni suo studente, non è esattamente nessuno e sembra sulla strada giusta. 

“Ma Suthcliff -” 

“Non importa cosa ne pensi,” Sebastian scuote la testa, “Posso occuparmi io di Suthcliff. Dopotutto tu ed io abbiamo un patto.” 

Ciel si lascia cadere tra le sue braccia, allora. Cercare conforto in un demone è stupido, ma Sebastian è l’ultima cosa che gli è rimasta. E dovrà farsela bastare, almeno fino alla fine. 

 
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Harry Potter/Good Omens
Harry Potter/Adam Young
COW-T#12, w6, m3: Credo proprio che diventeremo amici
 

E dunque, tu vuoi una storia. 

È buffo, nessuno mi ha mai chiesto una storia prima.
Di solito sono tutti molto più interessati a raccontarmi la loro, a cercare convincermi a non portarmi via la loro anima proprio adesso, perché hanno mille altre cosa da fare che non sono riusciti a fare prima del mio arrivo. 

Se non sono in ritardo li lascio parlare, sai? Ho sempre adorato le storie - capita, quando ti tocca di sorbirti sempre e solo il finale. Non che serva loro a qualcosa, se non a guadagnare una manciata di minuti in più che comunque passano con me. 

Però nessuno ha mai voluto che fossi io a raccontare…

E va bene, non garantisco sulle mie capacità di narratrice, ma conosco la storia che potrebbe fare al caso nostro.
Dopotutto, come ti dicevo, in millenni di esistenza ne ho conosciute di persone che hanno tentato di sfuggirmi, di esorcizzarmi, di imbrogliarmi o di corrompermi e nessuno di quei ciarlatani aspiranti immortali è mai riuscito ad ottenere niente di diverso dal normale e fisiologico svolgersi degli eventi. Io arrivo e loro vengono via con me. Sempre. 

Beh. Quasi sempre. 

Ci sono state due grandi eccezioni. 

Ed è questa la storia che vuoi sentire, non è vero? Ho catturato la tua attenzione. 

D’accordo, siediti. 

La prima persona di cui ti parlerò è Adam, perché Adam me lo aspettavo.

Cioè, non mi aspettavo proprio Adam, ma sapevo che qualcuno come lui prima o poi sarebbe arrivato. In fondo l’Apocalisse era già nella prima bozza del contratto di lavoro, prima che negoziassi le ferie, per cui sapevo che prima o poi sarebbe arrivato l’Anticristo a guidarmi in battaglia insieme agli altri Cavalieri e alla fine sarei potuta andare in pensione, proprio come Pestilenza. 

Ovviamente siamo qui a parlarne e il mondo sta ancora girando attorno al proprio asse per cui avrai capito che l’Apocalisse non c’è stato, ma questo dovresti saperlo già. E poi non voglio davvero raccontarti, di come un bambino di undici anni abbia deciso che alla fin fine il Giudizio Universale non fosse l’opzione migliore per il genere umano. Non è così divertente, fidati, io c’ero. È stato tutto un gran girare a destra e a manca per tutto il mondo per poi essere congedati senza nemmeno un ‘grazie per l’attenzione, ma non servite’. Mettiti nei suoi panni, quale undicenne sceglierebbe l’Apocalisse con la terra che si spacca e i fiumi di sangue piuttosto che andare a prendere un gelato con i suoi amici? Non per parlare male di nessuno, ma chiunque avesse pianificato la cosa non aveva pensato davvero bene a cosa stesse facendo. 

Oh, ma sto divagando. Dicevamo? 

Ah sì! 

Parliamo di Adam. 

 “Pronto?” 

“Adam!” 

“Sì?” 

“Dovresti venire qui. Subito!” 

“Ma chi è?” 

“Adam! Sono Anathema! Sophia è finita su un albero e non riesco a farla scendere!”
“Anathema? Ma che ore sono?” 

“Le sette e mezza, non fare il brontolone, non è così presto! Solo che non vuole scendere e io devo andare a lavoro. Ti prego!” 

“Anathema, non puoi chiamarmi tutte le volte che tua figlia fa qualcosa di paranormale…” 

“Adam! Sono le sette e mezza, sono in ritardo su tutte le tabelle di marcia possibili, Newt non è qui ad aiutarmi e tu sei l’unico che la può far volare giù da quel ramo se non decide di scendere spontaneamente. Non farmi giocare la carta del ‘chi ti ha aiutato quando pensavi di doverti far internare in manicomio’, ok?” 

“Va bene, va bene, sto arrivando. Ma, Anathema?”
“Sì?”

“Tua figlia sarà pure quella con i poteri magici, ma la vera strega sei tu.” 

“Oh, Adam, sei sempre un adulatore.” 

 

- - - 

 

La storia del manicomio è parecchio buffa. 

No, in realtà, non è affatto buffa. Allora era stato piuttosto un incubo e anche adesso a ricordare i fatti non è che ci sia tanto da ridere, ma lo humor e l’ironia a volte sono i modi migliori per affrontare un trauma, così Adam riesce a parlarne anche casualmente in qualsiasi conversazione, quasi non fosse stato in lacrime e sull’orlo di un tracollo nervoso quando si era presentato alla porta della strega del villaggio a sedici anni.
Con Anathema fino ad allora aveva sempre e parlato solo occasionalmente, incontrandola per la strada. Per qualche motivo lei sembrava averlo preso in simpatia - nonostante lui non ricordasse di aver scambiato che qualche chiacchiera con lei sulle streghe e l’inquisizione la prima volta che si erano conosciuti - e si interessava sempre abbastanza da chiedergli come andasse la scuola, cosa facesse di bello o come stessero i suoi amici. 

Si era sentito un po’ a disagio nel suonare il campanello. Come si chiede a qualcuno quanto di vero c’è nella sua filosofia di vita e se potrebbe essere coinvolto anche lui nella stregoneria, perché altrimenti l’alternativa sarebbe dover andare da un dottore di quelli bravi? 

Alla porta aveva risposto Newt e Adam era già stato pronto a voltare i tacchi e andarsene quando la strega era comparsa alle spalle del marito e lo aveva praticamente trascinato in casa, al grido di “sciocchezze, Adam, non disturbi! Vieni pure! Cosa succede?” 

Adam aveva deciso che avrebbe bevuto il tè che gli veniva offerto - perché una bella tazza di tè bollente è la soluzione ad ogni cosa -, avrebbero scambiato i convenevoli di rito, negando di avere un qualsiasi problema e sarebbe tornato a casa. 

Invece Anathema non aveva fatto domanda, piazzandogli davanti una tazza fumante di quella che lei chiamava ‘la sua Pozione Calmante, ricetta della buona e cara Agnes Nutter, strega’ con tanto di occhiolino coordinato. 

Adam non sapeva quale intruglio di erbe Anathema ci avesse gettato dentro, ma aveva cominciato a percepirne gli effetti quasi immediatamente e, senza nemmeno accorgersene, aveva cominciato a blaterare. 

 

* * * 

 

Adam aveva sempre saputo che c’era qualcosa che non andava in lui, qualcosa che lo rendeva speciale a prescindere dai complimenti di sua madre, - che si sa, ogni figlio è un piccolo fiocco di neve speciale per i propri genitori -, ma la conferma l’aveva avuta ad undici anni. 

Oh, beh, dopotutto, undici anni è il momento perfetto per le grandi rivelazioni, vedrai. 

In ogni caso, Adam sapeva che non tutti potevano muovere gli oggetti solo pensandolo o cambiare il tempo perché splendesse sempre il sole, ma non aveva idea di che cosa significasse, non fino a quando non aveva fermato l’Apocalisse. 

Sempre che fosse accaduto davvero. 

Sì, perché una parte del suo cervello lo dava per scontato - ‘certo che accadono cose strane vicino a te, è nel tuo corredo genetico’-, mentre l’ altra parte ignorava bellamente la cosa e si stupiva puntualmente quando accadeva qualcosa di fuori dall’ordinario. 

Le due parti avevano convissuto in armonia per buona parte del tempo, specialmente nel periodo subito successivo al mancato Apocalisse. Potevano passare anche intere settimane senza che Adam dovesse ricordare di non essere completamente umano. C’erano giorni in cui non gli sembrava che un sogno e per un po’ aveva persino creduto di essersi immaginato tutto. 

Con il passare del tempo però avevano cominciato a comparire delle crepe nel perfetto muro di contenimento che gli permetteva di rimanere sano di mente. 

C’erano cose che non quadravano e diventava sempre più difficile ignorarle. 

I suoi amici avevano… beh, non dimenticato, non proprio. Se Adam glielo avesse chiesto sarebbero stati in grado di dirgli a grandi linee che cosa era successo, ma non tutto e non esattamente e non sempre. I dettagli erano confusi e sfumati, così intrecciati con il normale tessuto della realtà circostante da non preservare traccia di magia o sovrannaturale, spesso richiamati a fatica dalle profondità dell’oblio delle loro menti, a volte contraddittori, ma sempre a formare un quadro incompleto. Sembrava quasi che non fossero in grado di ricordare, come i losers di IT che avevano perso la memoria di Derry una volta che se ne erano andati. 

Solo che i suoi amici non se ne erano andati affatto. E Adam sapeva che, a tredici anni, non avrebbe dovuto leggerlo quel libro dell’orrore - Mr Phele glielo aveva ripetuto più volte, che non era adatto -, ma a volte provava quell’impulso di ribellione dalle figure autorevoli che faceva tanto storcere il naso al suo giardiniere e gli faceva mormorare un ‘tutto suo padre’ anche se non aveva senso perché suo padre non si era mai ribellato neanche quando il suo capo gli aveva imposto gli straordinari la vigilia di natale. 

Ma quella era solamente la punta dell’iceberg, perché nemmeno la presenza di Mr Phele era logica. Non aveva senso che, vista la piccola casetta in cui vivevano, loro avessero bisogno - o anche solo si potessero permettere - un giardiniere, né che quello si fosse presentato a lavorare da un giorno all’altro e i suoi genitori lo avessero accettato senza battere ciglio, proprio come non avevano fatto domande per la comparsa di Dog. 

Per non parlare della tata, Miss Crow, che era comparsa da un giorno all’altro come Mary Poppins, portata dal vento, quando sua madre era stata sufficiente per i precedenti undici anni, con giusto un’aiuto nei weekend, quando chiamava una studentessa delle superiori perché lo tenesse d’occhio mentre lei e suo padre andavano al cinema. 

Non. Aveva. Senso.
Non aveva senso perché quando aveva incontrato la sua precedente babysitter, ora studentessa universitaria, e le aveva chiesto come mai avesse smesso di occuparsi di lui lei gli aveva detto che era stato perché voleva concentrarsi sugli studi ora che avrebbero occupato buona parte del suo tempo. Solo che tre giorni dopo lo aveva fermato per strada, con un sorriso e un “è tanto tempo che non ci vediamo, Adam! Che peccato che poi tua madre non abbia più avuto bisogno di una babysitter, vero? Ci divertivamo così tanto!” 

Così Adam aveva preso il suo mal di testa, il suo panico e la sua preventiva autodiagnosi di schizofrenia e aveva fatto l’unica cosa possibile. 

Andare dalle uniche due persone che, in tutto quel caos, sembravano essere rimaste sane. O almeno, non più pazze di quanto non lo fossero prima. 

 

* * * 

 

Anathema e Newt avevano ascoltato la sua storia senza interrompere, senza dargli del pazzo e soprattutto senza mettere su quell’espressione di compatimento da ‘povero caro’. 

Adam aveva finito di parlare, la gola secca, gli occhi lucidi e la tazza vuota. “Non ci capisco più nulla.” 

Anathema e Newt si erano scambiati un lungo sguardo che portava una conversazione ancora più lunga, poi Newt aveva sospirato e intrecciando le mani sotto il mento si era chinato verso di lui. “Ok, così è come ce la ricordiamo noi.” 

E forse era perché entrambi erano coinvolti nella parte sovrannaturale dell’universo già da prima e il salto dalla stregoneria ai demoni, gli angeli e l’AntiCristo non era così grande da farli impazzire, ma Anathema e Newt avevano superato la storia dei ricordi confusi già dopo qualche settimana dal mancato Apocalisse. 

“Ricordati che ho vissuto tutta la mia vita seguendo e interpretando le previsioni di una donna morta secoli fa. Niente è abbastanza strano da fermarmi, neanche un paio di ricordi annebbiati,” Anathema aveva sorriso, posandogli una mano sulla spalla in conforto. 

La parte razionale di Adam era orripilata, voleva scappare e mettere più chilometri possibili tra quei due pazzi che avevano appena confermato che tutto quello che pensava di essersi inventato, in realtà, era accaduto. A un livello più profondo, Adam però aveva capito che il problema non erano le cose folli che gli accadevano in torno, ma le vestigia di incredulità che il suo cervello si ostinava a mettere in piedi anche contro l’evidenza. 

“Io - io - Oh, cielo. Io sono l’AntiCristo.” 

“Sì, Adam, penso che dovrai abituartici.” 

“Credo che andrò a vedere come sta Agnes,” aveva detto Newt. 

“Si chiama Sophia!” Anathema aveva rimbrottato, strappando un sorriso ad Adam, che, come tutto il resto del paese, era a conoscenza delle perenne diatriba sul nome della bambina, tra suo padre, che insisteva a chiamarla in un modo per onorare la memoria della strega che aveva profetizzato l’incontro con Anathema, e sua madre che invece non ne poteva più delle interferenze dell’antenata. (‘Sono un branco di pazzi,’ aveva detto l’impiegata dell’anagrafe dopo una settimana di tira e molla prendendo in mano la situazione e chiamando d’ufficio la bambina Agnes Sophia, “un branco di pazzi, povera bimba’.) 

Di quel passo la ‘povera bimba’, che già aveva tre anni, si sarebbe ritrovata con un disturbo della personalità.

“Sophia! Come la conoscenza, che avrà perché avrà l’occhio e questo dovrebbe già bastarci senza imporle il nome della mia bis-bis-bis-avola!” Anathema aveva incrociato le braccia al petto con uno sbuffo. 

Adam si era lasciato sfuggire una risata sollevata, la prima da quando aveva cominciato a pensare di star impazzendo e di dover essere rinchiuso in un manicomio. 

“Oh, e penso che dovresti andare a fare qualche domanda anche al tuo giardiniere e alla tua tata, visto che ci sei, penso che potrebbero darti una versione ancora più dettagliata di quello che è successo in realtà.”

Così Adam aveva ottenuto tutta la storia. 

 

 

Non mentirò - e perché dovrei - Adam non la prese benissimo, ma comunque meglio di quanto mi sarei aspettata. Ero lì ad osservarlo, sai? Io sono sempre con lui. Gli altri Cavalieri erano stati congedati, ma la morte è ovunque, in attesa, e dunque non avrei potuto allontanarmi da lui nemmeno se avessi voluto. 

Ero nell’ombra all’epoca, una mera presenza che aleggiava attorno a lui, una frazione dormiente della mia coscienza, se coscienza si può chiamare quello che sono. Ma quando divenne consapevole di cosa fosse, quando ogni piccola incongruenza poteva essere spiegata da quello che gli avevano confermato Anathema e Aziraphale e Crowley, non ci volle molto perché il ragazzo cominciasse a riconoscermi e a parlarmi. 

Ben presto mi ritrovai ad essere con lui, molto più di quanto ero nel mondo. E poi avvenne quello che avvenne. 

Già, è ora di parlare di Harry. Non avrai mica pensato che mi fossi scordata di lui? 

 

 

Harry aveva una particolarità già molto prima che accadesse quello che è accaduto. Forse era destino, scritto nelle stelle fin da prima della sua nascita, profetizzato da un’altra strega, non altrettanto prolifica di premonizioni quanto Agnes, ma comunque una Veggente notevole. 

In ogni caso, Harry Potter non moriva. 

Non che sfuggisse consapevolmente alla Morte, era soltanto un bambino di poco più di un anno la prima volta che quella avrebbe dovuto prenderlo con sé. E invece semplicemente tutte le condizioni che si sarebbe dovuto verificare perché lui morisse erano stato ritorte, e il bambino era sopravvissuto contro ogni logica. 

Era sopravvissuto e aveva continuato a sopravvivere negli anni nonostante maghi oscuri, basilischi e draghi si impegnassero a metterlo in situazioni dalle quali era logico non sarebbe potuto sopravvivere. E invece. 

Poteva sembrare una casualità, all’occhio meno esperto, fortuna sfacciata l’avrebbe chiamata qualcun altro. Ma poi Harry aveva riunito i Doni della Morte e no, il titolo di Padrone della Morte non era metaforico.

 

* * * 

 

Essere un Auror era stato divertente… più o meno per i primi dieci minuti. Forse sarebbe pure potuto piacergli come lavoro se solo lui non fosse stato Harry Potter, dannazione al suo nome. Un’Auror avrebbe dovuto essere discreto, non attirare l’attenzione delle masse, e il suo nome lo aveva reso il centro di diverse trappole piazzate dallo zoccolo duro dei seguaci di Voldemort che ancora non si rassegnavano della sua sconfitta. 

Quando si era deciso a consegnare le dimissioni era stato un sollievo sia per Harry che per il Ministero, che certo non si poteva permettere di licenziare l’eroe della seconda guerra magica. 

Non aveva saputo che fare, Harry della sua vita, ma poi Minerva - dannazione quanto gli faceva strano chiamarla in quel modo - gli aveva proposto la cattedra di Difesa COntro le Arti Oscure, che chi meglio di lui avrebbe potuto ricoprirla ed Harry, che aveva sempre considerato Hogwarts come la sua vera e unica casa, aveva accettato. 

Era ironico, perché se gli avessero chiesto ad undici anni cosa ne sarebbe stato del suo futuro, mai avrebbe potuto immaginare che sarebbe finito così: un accademico. E per di più un accademico che cercava di ampliare il suo campo di studi. 

Quando aveva detto ad Hermione che avrebbe voluto fare ricerca - e su cosa -, l’amica aveva sgranato gli occhi e si era portata una mano al petto, “Chi sei tu e che nei hai fatto di Harry Potter?” 

Sì, il resto della sua vita non era andata esattamente come si era aspettato, lui e il resto del mondo, perché in quel momento stringendo al petto il tomo dalle fragili pagine scritte in una lingua che probabilmente aveva la stessa età della sua improbabile aiutante, si era sentito stranamente realizzato. 

“L’ho trovato!” 

“FINALMENTE. ORA POTREMMO TORNARE A CASA,” aveva detto la nera figura alle sue spalle, senza traccia di appropriato slancio nella voce. 

“Un po’ più di entusiasmo sarebbe gradito. Dopotutto questa scoperta è in gran parte merito tuo.” 

“E PER L’UMANITÀ, HIP HIP, HURRÀ.” 

“Non sei divertente.” 

“DIO NON VOGLIA. L’UMORISMO NON FA PARTE DEL CONTRATTO DI LAVORO. ACCOMPAGNARTI IN GIRO PER IL MONDO ALLA RICERCA DI UN TOMO SULLE ARTI OSCURE E COME COMBATTERLE SÌ PURTROPPO, MA ALMENO MI È ANCORA CONCESSO DI FARLO CON TUTTA LA VERVE DEL CASO.” 

“Risparmiami,” Harry aveva alzato gli occhi al cielo. 

“NON LO FACCIO FORSE TUTTI I GIORNI?” 

“Oh Merlino, per favore.” 

“LO SAI” disse la Morte, “SEI PARECCHIO NOIOSO PER ESSERE COSÌ POTENTE.” 

“Che ti aspettavi?” 

“PIANI DI CONQUISTA DEL MONDO, VENDETTE PERSONALI PORTATE A TERMINE,  UN ALTRO APOCALISSE… NON QUESTO.” 

Harry si era rifiutato di chiedere cosa intendesse la Morte per ‘altro’, perché no, aveva già troppi problemi, grazie,“Definisci questo.” 

“PASSARE TUTTO IL TUO TEMPO IN UNA BIBLIOTECA. HO PIÙ VITA SOCIALE IO E SONO LA MORTE.”

“Intanto questa è una cripta nel mezzo del nulla, protetta da pericolosi incantentesimi -”

“NON FARMI RIDERE, SEI IMMORTALE.”  

“E comunque non ho bisogno di una vita sociale, grazie. Ne ho già avuta abbastanza per bastarmi due vite.” 

“PECCATO. NE CONOSCO UN ALTRO DI TIPO COME TE -”

“Annoiato, dedito al lavoro e, soprattutto, immortale?”
“SÌ.” 

Harry si era voltato di scatto verso la figura nera, credendo che scherzasse, “Come scusa?”

“SAI, DOVREI PROPRIO PRESENTARTELO.” 

 

 

Mi piacerebbe prendermi il merito di averlo fatto davvero, sai, ma alla fin fine l’Universo ha lo strano senso dell’umorismo di far accadere quello che deve accadere a prescindere dalle circostante. Così quando li ho presentati ufficialmente, l’Anticristo e il Padrone della Morte, loro si conoscevano già, erano Adam e Harry. 

Quella prima volta non ero presente - e perché avrei dovuto? Il mio Padrone, l’Anticristo e due donne molto competenti (anche se allora Agnes Sophia aveva soltanto undici anni). Chi mai poteva morire lì, eh?
Ovviamente avevo altro di meglio da fare

 

- - - 

 

Anathema ha le braccia incrociate sul petto e un cipiglio scuro in volto che farebbe indietreggiare  Satana, “Sophia, scendi da quell’albero.” 

“No!” 

La bambina si aggrappa al ramo, dondola i piedi e le fa una linguaccia. 

Anathema è a tanto così dall’andarsene e lasciarla sull’albero, quando una voce alle sue spalle interrompe i suoi pensieri. 

“Mrs. Pulsifer?” 

Anathema ruota suoi tacchi e si ritrova davanti un ragazzo il cui aspetto nulla ha a che fare con l’aura che emana. È potente, lo percepisce, in un modo che forse aveva sentito soltanto quando Adam era un bambino, eppure ha l’aspetto di un innocuo bibliotecario

“Device, prego. Ho tenuto il mio cognome. Come posso aiutarla?”

“Mi scuso Mrs. Device. Sono Harry Potter e sono qui per sua figlia Agnes Sophia.” 

“Cosa ha combinato?” 

“Niente, assolutamente,” quello scuote la testa, “Tuttavia sono sicuro che si sia accorta anche lei che accadono cose strane intorno ad Agnes…” 

“Sophia,” lo corregge di riflesso Anathema, e poi inclina la testa, assottigliando gli occhi per studiarlo meglio, “Per caso lei è un angelo, un demone o qualcosa di vagamente legato al prossimo Apocalisse? Perché non ci interessa partecipare.”

“Io - veramente - io sono… Le sembrerà folle, ma io sono un mago, in realtà.” 

“Ah,” Anathema sospira, nemmeno un po’ impressionata, né scandalizzata. “Tutto qui?” 

“Vede,” Harry continua, già sollevato che la donna non abbia chiamato un manicomio, ma forse quella più pazza qui è lei, “sono un insegnate presso una prestigiosa scuola di magia ed è nostra convinzione che sua figlia sia una strega, quindi sono qui per offrirle-” 

“Certo che mia figlia è una strega,” Anathema lo interrompe, alzando gli occhi al cielo, “la prossima cosa che mi dirà qual è, che per fare il tè serve l’acqua calda?” 

Harry rimane spiazzato per l’ennesima volta. “D’accordo,” continua incerto, “di solito i Babbani non accettano così facilmente l’idea che la magia esista.” 

“Ho avuto streghe nella mia famiglia per generazioni, signor Potter,” Anathema pronuncia il suo nome senza particolare ammirazione, “Solo perché negli ultimi secoli siamo stati Maghinò con troppa poca magia per frequentare Hogwarts non significa che siamo diventati tutti idioti. Adesso, se vuole scusarmi, devo far scendere mia figlia dall’albero sul quale è volata, per lasciarla alla baby sitter.”

È in quel momento, mentre la bambina dondola i piedi da un ramo, Harry sta cercando di capire se la donna abbia accettato o meno di far frequentare alla figlia Hogwarts e Anathema sembra sul punto di esplodere, che lui arriva. 

“Anathema? C’è qualche problema?”

Anche se la domanda è rivolta all'amica, Adam non stacca gli occhi dallo sconosciuto come a saggiarne le intenzioni. 

Anathema che non è mai stata una damigella da salvare alza le mani al cielo, "Finalmente, Adam! Ce ne hai messo di tempo." 

"Beh, non sono a tua disposizione," il ragazzo si rilassa pensando che se Anathema ha tempo per preoccuparsi della sua puntualità quello sconosciuto magari sta solo cercando di salvare una bambina in una situazione apparentemente incresciosa. Adam si massaggia il ponte del naso sperando di non finire con un mal di testa. 

"Convincila tu a scendere, Adam, non so più che altro fare." 

"Non capisco perché pensi che dia più retta a me che a te, sei tu sua madre." 

"Ma tu sei lo zio preferito." 

In tutto questo Harry ha altre tre famiglie di Nati Babbani da visitare, nella speranza di non trovarsi con altre sorprese come questa. 

"Permette?" chiede dunque prima che il battibecco possa prolungarsi oltre. 

Adam lo osserva estrarre un bastoncino dalla tasca e muoverlo nell’aria in un ghirigoro strano e una parola in latino che non riconosce. 

Considerando tutto quello che sa del mondo e che le stranezze tendono a gravitargli attorno, non è poi così strano che il risultato sia che Agnes Sophia venga depositata ai piedi dell’albero senza nemmeno un graffio. 

“Oh, meno male,” Anathema sospira afferrando la figlia per la mano prima che possa decidere di tornare sull’albero. “Poteva farlo prima, ma grazie, signor Potter. Ora noi dobbiamo andare che siamo tremendamente in ritardo, ma ci risentiremo per la visita a Diagon Alley e i materiali scolastici, giusto?” 

Harry prova a rispondere ma Anathema sta già correndo via prima ancora di aver finito di parlare ed è troppo lontana per udire alcunché. 

“È riuscito a tirare giù Sophia dall’albero. Impressionante,” Adam si lascia scappare un sorriso, voltandosi per incontrare lo sguardo dello sconosciuto. “Lei è…?”
“Harry Potter, insegnante di Difesa contro le Arti Oscure presso la scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.” 

Harry tende la mano. 

“Adam Young,” gliela stringe l’altro. 

Ed eccolo, il momento a cui tutta questa narrazione ha teso: l’incontro, l’instante in cui le loro pelli si toccano e se lo sentono addosso l’alone della Morte che li accompagna ma non li può toccare. La somiglianza tra loro, qualcosa che non si aspettavano di incontrare in nessun altro, che li aveva sempre resi così diversi dal resto del mondo e che ora hanno incontrato quasi per sbaglio. Come se l’universo potesse mai sbagliare.
Si studiano in quella che sembra una frazione di secondo e poi Harry emette il suo verdetto. 

“Credo proprio che diventeremo amici.”


Oh, ma come sai, alla fine sono diventati molto di più. 


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SUBURRA
Aureliano/Spadino
Canon divergence post stagione 1 
COW-T #11 (Sagra):
 Ricetta


Aureliano fissa il piatto di pasta con astio, nemmeno fosse colpa sua il fatto che faccia cagare.
 

Non sa di niente, c’è troppo aglio e non pizzica, e la pasta… beh, no la pasta non è scotta, ma potrebbe pure esserlo per la voglia di mangiarla che ha Aureliano. 

Il problema non è tanto nella pasta, quanto nel fatto che la pasta non l’abbia cucinata Spadino. 

Per cui eccolo lì, il fulcro della questione, il nodo da cui si dipanano tutti i suoi problemi: Spadino. 

Perché il problema della pasta è che Aureliano prima di quella serata passata a caricare del freddo sulla tromba delle scale di un campanile, in attesa che il prete si decidesse a scendere o che arrivasse la Monaschi, gli spaghetti aglio, olio e peperoncino li aveva sempre mangiati senza problemi. Ma poi aveva assaggiato quelli di Spadino e adesso a lui venivano sempre o troppo secchi o con poco aglio o con il peperoncino sbagliato. 

E fossero solo gli spaghetti il problema. 

Aureliano si decide a gettare il piatto di pasta nel bidone della spazzatura dopo nemmeno due bocconi. 

Maledizione a lui, Spadino l’ha mandato a ‘fanculo, anche abbastanza letteralmente, quando ha tento di baciarlo e adesso… adesso cosa? Gli manca? Aureliano non può essere così patetico. 

Non aveva capito quanto contasse sulla sua presenza, quanto lo considerasse davvero un amico e non un semplice socio in affari a cui voltare le spalle al minimo segno di un’offerta più vantaggiosa finché non aveva preso in mano il cellulare per mandargli un messaggio e si era reso conto che no, non poteva più farlo. 

Poi c’era stata la morte di Isabel, la fuga di Livia da Roma… Aureliano non sapeva più nemmeno dove sbattere la testa. 

Gli manca Spadino, sì, è davvero così patetico. Ma non abbastanza da raccattare il telefono e chiamarlo. 


* * * 


Spadino gli porta Livia e una tacita offerta che non può rifiutare. 

Famo che ’n’è successo niente. 

Daje. 

Perché la verità è che, fosse stato chiunque altro, Aureliano gli avrebbe sparato già in fronte da mo’. Invece è Spadino, per cui tre mesi di silenzio stampa vengono cancellati con un colpo di spugna e non se ne parli mai più. Sono di nuovo in affari. (Ma chi vorrebbero prendere in giro. Sono di nuovo amici.) 

Non ci pensa più a quel bacio che non è accaduto, alla sensazione delle labbra di Alberto contro la sua guancia, del velo di barba ispida mal rasata che gli sfrega contro la mascella. Non ci aveva pensato allora, in quei tre mesi di separazione, e non vede perché dovrebbe pensarci adesso che si è tutto risolto. 

Invece decide che, siccome sono tre mesi che non si avvicina ad un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino perché ogni volta la prospettiva di mangiare del cartone gli sembra migliore, almeno adesso che Spadino è di nuovo nella sua vita - cazzo, potrebbe sembrare un po’ più melodrammatico? - può chiedergli di cucinare. 

“Boh, pensavo che almeno a farte un piatto de pasta ce la potessi fa’.” 

“’N’è la pasta, Spadì, è che ’n me viene proprio. Sarò sfigato io.” 

“Insomma, non è che ci sia ‘na formula chimica per gli spaghetti ajo, ojo e peperoncino, no? Un po’ d’ojo, un po’ d’ajo, peperoncino qu bi.”

“Qu bi non vuol dire un cazzo, Spadì. Così come non vuol dire un cazzo ‘un po’.”

Aureliano sa che è stupido cercare un dosaggio con quantità precise in un quella che si potrebbe banalmente definire una ricetta da ‘vai a occhio, quando ti sembra abbastanza sei a posto’. Però è anche vero che improvvisamente si ritrova con due mani sinistre ai fornelli anche per i piatti più semplici. 

“Non vuol dire un cazzo perché non capisci un cazzo di cucina.”
“E te insegnami.” 

Spadino lo guarda con tanto d’occhi, nemmeno gli fosse spuntata una seconda testa, ma non si tira indietro. 

“Vabbè, te insegno.” 


* * * 


La cucina di Aureliano, essendo la cucina di un hotel, è la cosa più grande in cui Spadino si sia mai trovato a dover spignattare. 

Non che lui si faccia prendere da un improvviso senso di reverenza, quando per lui non c’è niente di sacro. E poi a lui sono sempre piaciute le cose grandi. 

“Lele non viene?”
“Lele ha dato buca,” Aureliano si stringe nelle spalle come se questa non fosse la prima volta che sono da soli da soli da quell’incontro nel parcheggio in cui si sono quasi uccisi. Spadino tenta di dirsi che se Aureliano riesce a fare finta di niente così bene, probabilmente dovrebbe cercare di esserne all’altezza, poco importa se la scena in cui si trova sembra uscita da una di quelle commedie romantiche che guardano le sue cugine.

Lezioni di cucina, si potrebbe essere più banali?

Beh, certo, se questo fosse un appuntamento. 

Ma non lo è, Spadino dovrebbe cercare di ricordarselo un po’ meglio.

“Come si accende sto cazzo di bollitore?” 

“Iniziamo bene,” Aureliano si china verso di lui per armeggiare con le manopole e Spadino fa un passo di lato, per evitare che i loro fianchi si sfiorino. Non è mica stupido Spadino. 

L’altro si limita ad alzare la testa per osservare il movimento, le sopracciglia inarcate in un’espressione non particolarmente impressionata. 

“Guarda che ’n te mangio mica.” 

“Aurelià…” 

Spadino non sa esattamente se sia un ammonimento o una preghiera. 

Una stupida scintilla di speranza si accende nel suo petto - non è che Aureliano…? Sì, vabbé, che cosa? Ha cambiato idea e ha organizzato una cenetta romantica? Ma per favore! - ed è una speranza che non può permettersi. Cerca di non sentirsi troppo deluso quando Aureliano di fatti solleva le braccia in un gesto di resa e fa un passo indietro. 

“Vabbè, come vuoi.” 

Spadino potrebbe polemizzare che non è esattamente ‘come vuole’ - che se fosse ‘come vuole’ adesso avrebbe la lingua di Aureliano in gola, - ma è meglio lasciar perdere e concentrarsi sul piatto di pasta che deve preparare. Sopravvivere alla serata sarà un’impresa. 

“Dammi una padella,” dice ed è il suo turno di alzare gli occhi al cielo davanti al saltapasta. Una cucina così attrezzata e Aureliano non è nemmeno in grado di farsi un piatto che sta sul gradino appena sopra la pasta in bianco. 

Non è che Spadino sia questo gran cuoco, ben inteso, non quando cucinare è roba da donne, ma la base per non morire di fame se fosse da solo almeno quella ce l’ha. 

Così Spadino si mette a sbucciare l’aglio, poi lo butta nel saltapasta e lo ricopre d’olio. 

“Ma quanto je ne stai a mette’!” Aureliano cerca di fermarlo, ma Spadino gli allontana la mano con un gesto. 

“Te fatti i cazzi tuoi, serve. Fidati che serve.” 

L’olio sfrigola e l’aglio si imbrunisce intanto che Spadino taglia i peperoncini e Aureliano non si perde un gesto.
“Col peperoncino bisogna pestarci sopra, se no ’n sa de ‘n cazzo, Aurelià,” gli dice, prima che possa protestare pure sulla quantità di peperoncini, ma questa volta Aureliano ha imparato la lezione e tace. 

L’acqua ci mette una vita a bollire e ancora di più a cuocere gli spaghetti, e forse sono ancora un po’ troppo al dente quando Spadino li scola, ma poco importa. Il ragazzo butta la pasta direttamente nella padella e comincia a mescolare. 

Non c’è niente di diverso da quello che aveva fatto Aureliano, assolutamente nessun trucco - sempre mettere prima l’aglio e l’olio, aggiungere i peperoncini quando ormai si è pronti per buttare la pasta - e certo, Spadino sicuramente non ha risparmiato sugli ingredienti, ma Aureliano non è convinto che con tutto quel peperoncino poi non gli vada a fuoco la bocca. 

Spadino versa la pasta in una ciotola e gliela porge con un “ta tan!” 

Aureliano la prende con aria incerta, poi recupera la forchetta da sul bancone - quella che aveva messo lì apposta perché Spadino potesse assaggiare in corso di cottura, ma lui non ne aveva avuto bisogno per sapere che la pasta era pronta - e dà una sforchettata direttamente dalla ciotola, strafogandosi con il primo boccone. 

Il sapore gli esplode in bocca, ricco ed equilibrato e semplicemente perfetto in ogni sua minima sfumatura, tanto che gli esce un mugolio leggermente imbarazzante in qualsiasi contesto che non sia una camera da letto, ma Aureliano non mangiava un piatto di pasta così buono da mesi. 

E finalmente lo capisce cos’era che continuava a sbagliare. 

La differenza sta nella quantità assurda di peperoncino che Spadino ci ha messo - assurda solo all’apparenza perché poi nella sua bocca è la quantità perfetta. Solo che Aureliano con il peperoncino andava cauto, ne metteva troppo poco perché non voleva rischiare.
Ma se hai paura di bruciarti la lingua e tiri indietro, finisce che la vita non sa di niente. 

Ha detto la vita? Intendeva dire la pasta. La pasta - che questa non è mica una commedia rosa con le citazioni pseudo-colte da Baci perugina e il peperoncino non è una metafora di niente. 

“Beh, adesso hai la tua cena…” Spadino tenta di congedarsi, cercando le chiavi dell’auto nelle tasche dei pantaloni, le dita che si chiudono attorno all’anella del portachiavi quasi come ad un salvagente. 

“Spadì, ma ’ndo vai?” 

“A casa. Perché, vuoi che mi fermi?” 

“Hai cucinato la pasta, tanto vale che te ne mangi un po’ pure tu,” e come se niente fosse Aureliano gli ficca in mano la sua forchetta e va a cercarne un altra. 

Spadino sbatte le palpebre, osserva la posata come se dovesse mordergli le dita. La posata che è stata nella bocca di Aureliano e adesso Aureliano si aspetta che la usi lui, come se non ci fosse nulla di strano. 

‘Aurelià, che stamo a fa’?’ vorrebbe chiedergli, ‘che so’ sti giochetti?’, perché non è che lo può rifiutare, minacciare di ammazzarlo e poi… poi fare finta che non sia davvero successo niente e dargli la sua forchetta. Pretendere che tutto questo non abbia connotazioni… diverse

Beh, ma c’era stata la debacle del laghetto e tutta la storia del ‘ti metto il fango sulla schiena’, così densa di sottintesi e tensione che poi si erano rivelati essere tutti nella testa di Alberto. Magari pure questo è nella testa di Alberto. 

Così, quando Aureliano ritorna con una nuova forchetta, Spadino fa per ridargli la sua. Non deve essere per forza strano o significare qualcosa di più, si dice, semplicemente è poco igienico, è tutto Aureliano sposta lo sguardo dalla sua mano tesa al suo viso, i grandi occhi azzurri spiritati come non li vedeva da un po’, quasi che non riuscisse davvero fino in fondo a comprendere cosa voglia. 

Spadino fa per aprire la bocca, la giustificazione del “l’hai usata tu, non è molto igienico” sulla punta della lingua, quando Aureliano gli prende la forchetta di mano e la getta via insieme alla propria. Le posate colpiscono il bancone con un clangore metallico e poi rotolano sul pavimento, lanciate con troppa foga. 

“Ma che cazzo -?” Spadino sussulta, ma Aureliano non gli dà tempo di finire la frase. Gli si avvicina, talmente in fretta che Spadino non riesce nemmeno a fare un passo indietro, e gli posa una mano sulla guancia, i polpastrelli che fanno presa sulla sua nuca. 

Poi si china verso di lui e lo bacia. 

Spadino rimane paralizzato. Le labbra di Aureliano sulle sue sono una scossa elettrica, sono quello che ha sempre voluto, fin dall’inizio, prima ancora che si rendesse conto di volerlo. Prima che diventasse tutto molto più confuso. 

Adesso lo spinge via, “Oh, ma che cazzo stai a fa’!” 

Sono le stesse parole che gli ha detto Aureliano, senza nemmeno farlo apposta hanno invertito i ruoli e Aureliano vorrebbe ridere, come un folle e dirgli ‘ci metto il peperoncino, finalmente’ ma non avrebbe senso per Spadino, non quando a malapena ne ha per Aureliano stesso. 

“Pure tu m’hai cambiato la vita, Albè. Neanche la cazzo di pasta ha lo stesso sapore.” 

Spadino sente la scintilla di speranza riaccendersi di nuovo, ma non ha tempo di dire nient’altro perché Aureliano gli infila le mani tra i capelli e lo tira a sé, baciandolo di nuovo. 

Questa volta Spadino gli getta le braccia al collo e lo ricambia, socchiude le labbra e Aureliano non si tira indietro. La sua lingua è calda e sa di peperoncino e aglio e non è esattamente come nei film, ma si può accontentare, che questa è la vita vera. 


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COW-T #11 (w3, m4): Giungla


Un lupo nella giungla non si era mai visto e forse c’era un motivo in fondo. 

Legosi faticava a tenere il passo dietro a Gosha, sentiva grossi rivoli di sudore colargli tra il pelo e appiccicarglielo addosso. Il drago di Komodo invece era perfettamente a suo agio, ma che altro ci si doveva aspettare da un animale che tornava a casa, tra le fronde di felci basse e le chiome di alberi di teak?  

“Sei sicuro che non ci siamo persi, nonno?” 

Gosha aveva scosso la testa e poi aveva usato la coda per spazzare via un ramo che gli intralciava il cammino. 

Legosi non si stava esattamente pentendo di essere andato - dopotutto era stato lui che aveva continuato ad insistere e insistere e insistere perché il nonno se lo portasse dietro nonostante l’espressione scettica che gli si era dipinta in viso. L’isola di Komodo, nell’arcipelago delle Piccole Isole della Sonda, non era un posto adatto ad un lupo, il clima non era adeguato e le zone civilizzate erano poche e in ogni caso loro non si sarebbero fermati nelle piccole zone edificate, dove gli animali tentavano di mantenere una minima sembianza di decoro. No, loro erano diretti nella giungla, nella porzione più scura e umida, pulsante e torbida, dell’isola. Era lì che viveva la famiglia di Gosha dopotutto ed era lì che sua sorella sarebbe stata sepolta ora che la sua vita era terminata, così come sarebbe stato quello il posto in cui Legosi avrebbe dovuto assicurarsi che Gosha fosse seppellito quando fosse giunta la sua ora. A casa. 

Se solo fossero riusciti a trovarla, pensò Legosi, asciugandosi la fronte con l’avambraccio. 

Il lupo era convinto che si fossero persi, nonostante Gosha si fermasse ogni dieci passi per alzare il muso all’aria e cercare di fiutare l’odore giusto, le sottili narici da rettile che fremevano alla disperata ricerca di una traccia. 

“Da quanto tempo è che non torni in questa giungla?” 

“Un po’.” 

Decenni. Decenni, da molto prima che Legosi nascesse, quando sua madre Leano non era altro che una lupacchiotta in fasce. Non erano bei ricordi, non sicuramente del genere che Gosha avrebbe voluto condividere con il nipote. 

I draghi di Komodo sapevano essere spietati come la giungla da cui erano originati, velenosi e crudeli quando volevano - e quelli che passavano un po’ troppo tempo nella giungla non ne uscivano mai intatti. Ma forse era giusto che Legosi lo accompagnasse, che si approcciasse a quel posto quando ancora Gosha era lì per aiutarlo a sopravviverci piuttosto che farsene mangiare vivo più avanti - perché Gosha non aveva dubbi che il nipote non si sarebbe limitato a spedire la sua salma e lavarsene le mani quando fosse stato tempo. 

“Nonno? Penso di aver trovato qualcosa.” 

Gosha si voltò e sì, davvero, vi era un passaggio tra quelle liane, una serie di rametti calpestati a formare un sentiero invisibile se non ad occhi attenti come quelli di Legosi. Il drago di Komodo gli fece cenno di restare indietro e si avventurò per primo, ampliando la strada con artigli e coda, scacciando insetti al suo passaggio. 

Forse non era la strada giusta. 

Forse era una trappola ingegnata da predatori più furbi di loro. 

Legosi aveva ripreso a trotterellargli dietro, fradicio di sudore e ansimante, non esattamente l’apice della discrezione. 

Ma poco importava perché al termine della pista si apriva uno spiazzo, spoglio di alberi e piante, ma  non di animali.  

Non era un a trappola. 

Era molto peggio. 

Erano arrivati. 

 
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COW-T #11 (w3, m4): Edificio abbandonato


Il cancello era aperto e così lei era fuggita. 

Doveva essere stata una dimenticanza, perché non c’era mai stata una volta che il cancello fosse aperto e loro non fossero lì, pronti ad osservarla, pronti a fermarla se avesse deciso di andarsene - e lei ormai aveva cominciato a perdere le speranze. 

Invece era accaduto e lei era rimasta a fissare quel quadrato di libertà, quella assenza improvvisa di sbarre, una soluzione di continuità inaspettata. Poteva azzardarsi? 

Si era guardata alle spalle e aveva fatto un cauto passo in avanti e poi un altro. 

Quando non aveva sentito voci intimarle di fermarsi, quando nessuna mano era arrivata ad afferrarla e trascinarla via, lei si era lanciata fuori e aveva cominciato a correre, solo per il gusto di poterlo fare. 

Aveva seguito la strada che si dipanava tra i campi, restando sul ciglio pur preferendo l’erba morbida all’asfalto ruvido e duro, cercando di carpire con lo sguardo tutto il resto del mondo che si trovava al di fuori della sua solita portata, fino che non aveva visto una farfalla volteggiare a poca distanza dalla propria testa e questa, per una volta, aveva potuto seguirla.

Le spighe di grano le frusciavano contro i fianchi, tanto alte che rischiavano di finirle negli occhi, ma non le importava. La rugiada del mattino le aveva bagnato il naso, le si era infilata tra le ciglia e lei aveva sentito per la prima volta la libertà. 

Aveva corso fino a che non le era mancato il fiato, fino che i polmoni non avevano cominciato a bruciarle in petto e la gabbia toracica a sembrarle troppo stretta e allora, solo allora, si era lasciata cadere a terra, da sola nel mondo in mezzo a quel campo di grano, la farfalla completamente dimenticata. Si era rotolata tra le spighe e gliene erano rimaste parecchie incastrate addosso, ma non importava. Ne aveva spazzata via una particolarmente fastidiosa vicino all’orecchio e poi si era tirata in piedi e aveva ricominciato a correre. 

Aveva sentito un odore strano e aveva tentato di seguirlo. 

Era strano ed era ovunque e non era facile, ma dopo essersi lasciata alle spalle le spighe di grano, avviluppato da edera incolta, l’edificio le si era parato davanti, fatiscente e abbandonato, con i suoi cardini cigolanti da cui pendeva quello che una volta era stata un portone di legno. 

Vi si era avvicinata cauta, un passo alla volta, pronta a fuggire al minimo segno di pericolo, ma pericoli non sembravano esservene perché tutto era silenzioso attorno a lei. 

Le grandi finestre erano vuote, assi divelte, schiarite dal sole prima e mezze marcite dal tempo e dalla pioggia poi, ma nelle orbite vuote di quelle al pian terreno stava accovacciato un gatto. 

Aveva fatto un passo verso di lui e quello l’aveva guardata e aveva scossato la coda guardingo. 

Lei non sapeva cosa volesse dire quel gesto e aveva fatto per avvicinarsi di più.

Il gatto aveva spalancato le fauci, rosse di sangue e aveva soffiato, stringendo tra gli artigli quella che doveva essere la carcassa di topo, ma che ormai era soltanto un ammasso sanguinolento. 

Lei non aveva fame, no affatto, in ogni caso, il gatto avrebbe potuto essere più amichevole, per cui con uno sbuffo decise di ignorare l’avvertimento. 

Il gatto le aveva soffiato ancora, poi vedendo che non si sarebbe fermata, aveva raccolto tra le fauci la carogna ed era scappato dentro. 

Lei lo aveva seguito, aveva salito l’ampia scalinata che portava al portone divelto saltando due gradini alla volta e quasi scivolando lungo il marmo ricoperto di escrementi di uccelli che dovevano aver fatto il nido tra le tegole cadenti. 

L’ampio atrio non recava tracce del gatto e lei quasi aveva pensato di tornare fuori, che il campo di grano era più allegro e divertente. Però ci poteva essere altro da vedere, chissà cosa si poteva nascondere dietro quelle porte semi aperte in quel lungo corridoio. 

Aveva spinto con tutto il proprio corpo la prima porta, perché in quella stanza poteva trovarsi il gatto, dopotutto aveva sentito un rumore, e il legno aveva ceduto, scivolando sui cardini con un rumore sinistro. Non era chiusa a chiave e lei era entrata - non si era preoccupata delle scrivanie abbandonate, delle sedie impilate negli angoli, degli stucchi scrostati e dei muri che cadevano a pezzi. 

Aveva percorso la stanza, ma il gatto non c’era, così se l’era lasciata dietro senza nemmeno voltarsi a guardarla. Aveva altro di meglio da fare. 

Era stata metodica nell’esaminare e cercare in ogni stanza, era salita persino al piano di sopra, - arrischiandosi lungo le scale pericolanti, anche se lei non pesava abbastanza per far cedere il legno - ma del gatto non vi era traccia. Aveva trovato un nido di uccelli, però, piccioni dalle piume lucide e dalle uova bianche, ma era troppo in alto perché lei potesse saltare e guardare meglio. 

Le era venuta fame ad un certo punto, perché non aveva fatto altro che correre tutta la mattina, ma non c’era nulla di commestibile in quel posto e per di più l’acqua che aveva provato a bere da una pozza sapeva di fango e muffa. Non era stata schizzinosa, ma all’improvviso aveva cominciato a mancarle casa. 

Si chiese se sarebbe stata in grado di tornare, se persa come si era dietro mille distrazione, avrebbe potuto riconoscere la traccia per ritrovare la strada di casa. Le faceva un po’ paura l’idea e poi si sentiva sola, non era mai stata così tante ore senza la compagnia di qualcuno.

Aveva percorso le scale a ritroso, ed era rimasta a fissare il corridoio, buio ora che la luce del pomeriggio aveva cambiato le ombre agli oggetti. 

E se il gatto fosse stato in agguato? 

Improvvisamente da inseguitrice era passata a sentirsi inseguita e la cosa la spaventava a morte, le faceva rizzare i peli. 

Poi da fuori era giunto un grido e lei aveva alzato la testa, cercando di captarlo meglio.
Il grido era venuto di nuovo, una parola urlata, un suono che era il suo nome! E lei - lei conosceva quella voce! 

Così si era lanciata lungo il corridoio, incurante del gatto perché quella voce dal gatto avrebbe potuto salvarla e si era lanciata giù dalla scalinata, cercando di raggiungerla il più in fretta possibile. Questa volta era riuscita a scivolare davvero e gli ultimi due gradini le avevano colpito la pancia, facendola guaire di dolore. 

Il rumore però doveva aver attirato la voce, perché continuava a sentir urlare il proprio nome, ma era sempre più vicino.
Si era tirata su, ignorando la botta, e poi eccola lì, la proprietaria della voce. 

L’umana le si era parata davanti - il suo personale cavaliere, senza cavallo bianco - pronta a salvarla e lei le era corsa incontro, raggiante di gioia, con la coda che non riusciva a stare ferma, incurante se le sarebbe toccata una sgridata. 

L’umana invece era caduta in ginocchio e l’aveva abbracciata, stringendosela contro il petto. 

“Oh, mio Dio, non farlo mai più!” Aveva detto e se anche lei non aveva capito le parole, se non altro ne aveva compreso il senso. 

Lacrime calde erano scese a bagnarle la testa e lei aveva sollevato lo sguardo per guardare meglio l’umana. Quella aveva fatto un verso strozzato e lei non aveva potuto fare altro che leccarle il muso, inseguendo il sapore salato dalle guance fino agli occhi nel tentativo di fermarlo.

L’umana se l’era caricata in braccio e lei l’aveva lasciata fare, anche se odiava essere trasportata così e preferiva di gran lunga camminare da sola, ma si rendeva conto che in quel momento non poteva esattamente cercare di dire la propria.

Mettendosela in equilibrio su una spalla, l’umana aveva stretto l’oggetto scintillante che aveva in mano e se lo era premuto all’orecchio, dicendovi qualcosa dentro. Gran parte di quei suoni per lei non avevano significato, ma non importava. 

Andava tutto bene. Sarebbe tornata a casa. 




“L’ho trovata! Era nel vecchio municipio abbandonato. Sì, Dio mio, puoi smettere di cercare e venire a casa. Questo cane mi farà venire i capelli bianchi e morire giovane!” 

Occaso

Feb. 23rd, 2021 04:56 pm
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COW-T #11 (w3, m4): Città di notte

Ti porto in un posto, dice e tu non puoi fare nient’altro che annuire, la gola secca e l’alcool che ti dà alla testa. Hai bevuto un po' troppo, puoi ammetterlo, e forse ti si è sciolta un po' troppo la lingua, ti sei lasciata andare con questo affascinante sconosciuto.
 

Hai detto che ti piacerebbe vivere un’avventura, no? Allora vieni, ti porto in un posto, dice e tu mormori a mezza voce che probabilmente lo conosci già, che vivi in questa città da una vita e la conosci come il palmo della tua mano. 

Ma la città di notte è diversa, dice lui e un brivido ti corre lungo la schiena.

La città di notte è un labirinto, una serie di vicoli che sembrano tutti uguali, perché tutti i gatti sono grigi di notte e la luce dei lampioni è talmente fioca che distinguere tra un lastricato di sanpietrini e un asfalto pieno di buche è possibile solo con le piante dei piedi. 

Si finisce male così, ad accettare la mano di uno sconosciuto e farsi portare ‘in un posto’ lo sai, si finisce sui giornali, si finisce in un bidone della spazzatura in almeno in tre sacchi diversi, scovate da un barbone che cercava cartoni per ripararsi dal freddo della notte o rovistate da un gatto che aveva sentito odore di sangue. 

Però. 

Però c’è il brivido dell’ignoto che ti risale lungo la colonna vertebrale, paura e desiderio. 

Ti porto in un posto che non hai mai visto, e anche se ci sei già stata non lo hai mai visto così, andiamo ad esplorare, dov’è il tuo coraggio? e tu sorridi con poca convinzione, ti lasci prendere la mano e trascinare lungo una strada di cui pensavi di conoscere il nome, ma quando sollevi lo sguardo sul cartello bianco smaltato in blu quello non è il nome che ti aspettavi di vedere. 

C’è qualche problema? chiede. 

Tu scossi la testa, Pensavo di essere in un altro punto della città.

Perché, in che punto siamo? 

Ma il nome che hai letto qualche istante prima ti sfugge di mente, non lo ricordi affatto, nemmeno riesci a visualizzarlo - le lettere non sono altro che un branco di formiche azzurre che si muovono e cambiano forma sotto i tuoi occhi e c’è qualcosa che non va, lo sentivi da prima, prima che cascasse il crepuscolo e sigillasse la città nell’oscurità, ma non hai dato retta a quel sesto senso che ti diceva di scappare, tornare a casa e metterti al sicuro sotto una coperta calda. 

Continui a camminare, lo segui come se la sua presenza illuminasse la strada abbastanza per compiere un altro passo, perché altrimenti ti saresti già fermata, inghiottita dalle ombre, paralizzata a decifrare cartelli che hanno perso di significato. 

Coraggio, andiamo, è un avventura.

Dove? chiedi, Dove stiamo andando esattamente? 

Qui. 

Ti guardi in torno, lui non smette di camminare e tu non smetti di arrancargli dieto. 

Qui? 

In città.

Siamo già in città, pensavo avessi una meta un po' più precisa in mente. 

La nostra meta è l’alba, sciocchina. Chi si ferma prima è perduto. 

 

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BNHA
Yamada
 Hizashi/Aizawa Shouta
(
Yamada Hizashi/Aizawa Shouta/Oboro Shirakumo)
SAFE
spoiler capitoli 254, 255 
COW-T #11, (week 2, missione 2), La piccola ombra

Hizashi lo accompagna a casa, lo fa sedere sul divano e poi mette persino a bollire l’acqua per il tè.
 

Shouta dovrebbe dire qualcosa - qualsiasi cosa - ma le parole faticano ad emergere nella nebbia che è diventato il suo cervello.

“Vuoi che mi fermi stanotte?” 

Aizawa smette di guardare il vuoto davanti a sé per osservare l’amico. 

È calmo, -  come fa ad essere così dannatamente calmo, quando la loro intera vita è stata capovolta? 

Oboro Shirakumo è vivo. 

Forse. 

Hanno detto loro che non è altro che un involucro vuoto all’interno del quale All for One ha riversato quirk fino a far scomparire per sempre il loro amico. 

Ma forse Oboro è ancora lì, le sue memorie sepolte, ma ancora presenti, nonostante tutti i medici che hanno scossato il capo, incassando la testa tra spalle in un gesto sconfitto. 

Shouta sente gli occhi bruciargli, e, dannazione, lui dovrebbe essere abituato con il quirk che si ritrova, ma non riesce comunque a trattenere le lacrime. 

“D’accordo,” Hizashi annuisce, come se Shouta gli avesse risposto, porgendogli la tazza calda. Shouta non sapeva nemmeno che gli fosse rimasto del tè dall’ultima volta. 

“Ti chiederei se ne vuoi parlare, ma non saprei nemmeno io cosa dire,” Hizashi siede accanto a lui con un’altra tazza davanti. 

Rimangono in silenzio, ad osservare il sottile filo di fumo che si solleva dalle tazze e si aggroviglia su sé stesso. 

“Non lo abbiamo neanche cercato.” 

“Pensavamo fosse morto.” 

Quindi è questo il gioco. Aizawa mette in tavola il senso di colpa, i ‘se’ e i ‘ma’, i ‘forse' e i ‘se avessimo’ e a Yamada spetta il ruolo di avvocato del diavolo, quello che alla fine non conta niente, perché, anche se le cose sono andate nell’unico modo in cui potevano andare - o non ci sarebbero andate affatto -, la teoria degli universi alternativi dove l’impossibile è stato fatto con il migliore dei risultati è sempre più affascinante. 

“Avremmo dovuto…” salvarlo, arrivare prima, quando ancora era più Oboro che Kurogiri, quando ancora potevamo fare qualcosa…

“No,” Hizashi lo interrompe. Hanno già messo in piedi questa recita innumerevoli volte - in innumerevoli circostante diverse, molto più spesso a ruoli invertiti, perché Aizawa è sempre stato quello pragmatico - ma Hizashi è troppo stanco per farlo di nuovo. “Non stasera.” 

Aizawa si volta a guardarlo, la sua espressione è sorpresa, tradita in parte. Perché Hizashi è sempre stato lì per lui e lui è sempre stato lì per Hizashi quando le cose diventano un po’ troppo. E adesso Hizashi si rifiuta.

Il problema è che l’unica risposta che Hizashi vuole dare - pùò dare - in questo momento è “sì, avremmo dovuto” e quel genere di gioco non è sostenibile. 

“Come fai ad essere così calmo?” 

“Non sono calmo.” 

Shouta inarca le sopracciglia, quasi sfidandolo. 

“Pensavo fosse una ferita chiusa. Sono passati quindici anni, Shouta, non… non posso pensarci. Non stasera.” Hizashi china il capo, i suoi lunghi capelli biondi che scendono a formare una cortina tra lui e il mondo. 

Shouta posa la sua mano sulla sua, stringe lievemente. “Neanche io voglio pensarci.” 

Hizashi solleva lo sguardo, è una frazione di secondo, ci sono gli occhi rossi di Shouta, e la loro muta preghiera, non farmi pensare, e il cuore di Hizashi che batte con una minuscola crepa al centro e nessuno dei due saprebbe dire chi si sia mosso prima, solo che le loro labbra si uniscono e si ritrovano ognuno con le mani tra i capelli dell’altro a strattonare via giacche e vestiti con foga, come se prendersi un istante per respirare potesse farli precipitare nella nebbia dell’'avremmo dovuto’ - e forse è proprio così.

Sono passati quindici anni dall’ultima volta e ad Hizashi sembra di essere tornato indietro nel tempo, tanto che può quasi credere che, allungando la mano dietro a Shouta, le sue dita si possano stringere attorno al braccio di Oboro. 

Avevano riso tutti e tre quell’ultima volta, chiusi in camera di Shouta mentre i suoi genitori erano al lavoro, riso fino alle lacrime con occhi luccicanti e sorrisi stampati sul volto perché ogni volta sembrava la prima, perché quasi non ci si credeva di poter essere tanto felici, che una cosa del genere, così teoricamente precaria, potesse funzionare davvero.  

E poi, due giorni dopo, Oboro era andato a farsi ammazzare.

Hizashi davvero non vuole pensarci, eppure non è in grado di fare altro. 

Shouta ansima contro la sua bocca e lui sente le sue costole premere sotto le dita e oh, Dio, gli è mancato. 

Sono passati quindici anni dall’ultima volta - Hizashi non ha fatto altro che pensarci in tutte quelle notti insonni sul divano, spalla contro spalla, illuminati dallo schermo azzurrognolo del televisore, a quanto sarebbe stato facile colmare quella distanza tra di loro, quel vuoto che Oboro si era lasciato dietro. 

Facile un cazzo, Hizashi pensa, perché nella vita gli hanno detto come funziona il mondo abbastanza volte perché lui si sia reso conto che il mondo non funziona affatto. 

La teoria è carta straccia. 

E sì, forse si sarebbero davvero spezzati il cuore vicendevolmente con gelosie e fraintendimenti e ripicche, forse col tempo il fragile equilibrio che avevano trovato si sarebbe sbilanciato e qualcuno, cadendo, si sarebbe fatto male, ma nessuno di loro tre avrebbe permesso che fosse una profezia autoavverante, solo perché teoricamente è così che sarebbe dovuta andare. 

E così quello spazio tanto facile da colmare era rimasto vuoto, dilatandosi tra loro come una galassia, e loro per quindici anni sono rimasti fedeli ad un fantasma, ad un’ombra. 

“Se ti dicessi che non ho smesso di pensare a lui nemmeno per un istante…” Shouta si gira verso di lui, il lenzuolo che gli scivola giù dalle spalle per il movimento. 

Hizashi volta la testa quel tanto che basta per guardarlo negli occhi. “Te ne vorrei fare una colpa, ma sarebbe ipocrita da parte mia.” 

“Anche a te sembra di averlo tradito?” 

“No,” Hizashi chiude gli occhi e aspetta una stilettata di dolore che non arriva, “No, a me sembra di averlo seppellito.”

E non c’è davvero nient’altro da dire, se non restare ad ascoltare il calmo battere dei loro cuori nel il silenzio della stanza. 

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Originale
SFW 

COW-T #11 (w2, m2): L’abito di piume


Quell’abito non s’aveva da fare. 

Margherita masticò un’imprecazione cercando di non farsi sfuggire gli spilli di bocca e contemporaneamente cercando di non trafiggersi la lingua con le dieci punte acuminate che aveva strette tra le labbra. 

Quando le aveva mostrato il bozzetto, Renata l’aveva guardata scettica. “Un vestito di piume, Margherita? E dove pensi di andare con una cosa del genere?” 

Non era esattamente portabile, no, sicuramente non per una occasione di tutti i giorni, però Margherita aveva visto quel boa di piume e se ne era innamorata, non poteva lasciarselo scappare, anche se avrebbe voluto dire fare un vestito che sarebbe rimasto nell’armadio per l’eternità. 

“A capodanno,” la ragazza aveva risposto, stringendo il blocco da disegno al petto con fare protettivo, cercando di non farla sembrare una domanda. Come se lei il capodanno non lo passasse tutti gli anni sul divano in pigiama a fare il conto alla rovescia con le sue amiche sintonizzata su Amadeus in una giacca di paillettes. 

Fanculo tutto, quell’anno avrebbe passato il capodanno svaccata sul divano in un abito da sera. Le sue amiche erano invitate a fare altrettanto, se volevano. Arianna sarebbe andata giù di testa al pensiero.  

“Ah va bene, va bene, se lo vuoi fare… il progetto è il tuo,” Renata si era stretta nelle spalle, con un’espressione che diceva tutto quello che effettivamente pensava dell’idea di fare un vestito inutile.

Oh beh, Renata era una donna di altri tempi, Margherita l’avrebbe probabilmente soddisfatta solo rispettando strenuamente il cartamodello. Ah, sì, come no. 

Margherita aveva pensato che le sarebbe venuto un infarto quando aveva deciso di attaccare ad un corpino assolutamente anonimo la gonna accorciata di un dirndl tirolese - capiva che il giornale fosse tedesco, ma chi mai avrebbe sprecato stoffa per realizzare un dirndl tirolese? Era ovvio che il modello fosse lì per essere smembrato in tutte le sue parti e usato a piacere, assolutamente ovvio - e sicuramente non le aveva detto che usare il gessetto da sarta era un dito al culo per cui era ricorsa all’uso dei pennarelli per bambini, - quelli che, una volta messo il vestito in lavatrice, sarebbero spariti dalla stoffa completamente, - perché allora probabilmente l’avrebbe cacciata dal corso di cucito con tutti i suoi scampoli di stoffa al seguito. 

“Io non sono sicura che fare un vestito del genere sia un’idea così grandiosa, sai?” Arianna aveva guardato il boa di piume con faccia preoccupata. 

“Eh dai, esci un po’ dagli schemi! E poi guarda quant’è carino! Mi ha chiamata dalla vetrina, non potevo non prenderlo.” 

“Tu e i tuoi colpi di fulmine.” 

“È stato un segno del destino.”

Un segno del destino davvero perché Margherita non solo si era innamorata del boa di piume, ma aveva persino trovato la stoffa adatta da abbinarci -  ad un prezzo abbastanza abbordabile da farle cancellare l’intervento per vendere un rene al mercato nero - e poi nel Burda di quel mese aveva visto il modello perfetto, un vestito da due pallini di difficoltà e che non sembrava così difficile da modificare per inglobare le piume che avrebbe usato per decorare il collo e l’orlo. 

Margherita non aveva mai visto una congiunzione astrale migliore. 

Così aveva tirato giù il cartamodello e aveva tagliato la stoffa e imbastito gli orli cercando di non farsi vedere da Renata ad usare un fottuto pennarello, perché a quanto pareva il gesso da sarta era sacro e tutto ciò che non era ortodosso veniva bandito - come le cerniere da cucire a mano cucite invece a macchina che “no, no, se vuoi usare la macchina, devi comprare le zip a spirale, non quelle normali!” o gli spilli dei cinesi, che ‘poi non passano la stoffa e si piegano’. Ma alla fine Margherita aveva avuto tra le mani il primo abbozzo di vestito. 

Solo che quando era andata a provarselo, questo era di almeno due taglie più grandi. 

Maledicendo i tedeschi, Margherita si chiese quale fosse esattamente il loro problema. Lei le sue misure le aveva prese giù perfettamente, al millimetro, controllando la tabella delle taglie tre volte. Come faceva a ritrovarsi un vestito così grande? Cos’era, gli editori pensavano che la gente mentisse? Cioè, quale demente se ha una 44, pensa che sia una buona idea fare una 42 o una 40? Se non ci entri, vedrai che la prossima volta prendi giù la taglia giusta. 

“Dovresti rifarlo da capo,” suggerì Arianna, con fare desolato. 

“Ho finito la stoffa!”
“Allora dovrai adattarlo,” sentenziò Renata osservando l’abito con occhio critico. Era già entrata in modalità sarta: anche se il vestito che Margherita aveva scelto non le piaceva, ora avrebbe fatto di tutto per aiutarla a farlo diventare perfetto.  

Margherita sospirò desolata, perché odiava adattare gli abiti che aveva già fatto. Le venivano sempre storti e bitorzoluti e orrendi e ci doveva lavorare ore sopra, perché Renata non le dava un momento di tregua. O veniva bene o non poteva abbandonare il progetto a sé stesso. 

Beata Renata, Margherita poteva sbuffare finché voleva, ma in fondo in fondo lo sapeva che era una cosa carina, che la doveva ringraziare per essere il motivo per cui il suo armadio non era pieno di progetti mezzi cuciti e abbandonati senza orli o zip o riprese. 

“Stringi nelle cuciture,” Renata aveva cominciato a istruirla “invece che un centimetro e mezzo ne lasci tre. E poi tagli la stoffa in più, se no fa massa.” 

“Ma dopo fa difetto sulla schiena, sembrerà che io abbia la gobba.” 

“Allora fai due riprese dietro, così ti snellisce ancora di più.”  

Margherita si era messa le mani nei capelli, ma poi si era messa al lavoro. E ce l’aveva fatta. Sì, certo, ci aveva messo più tempo di quello che avrebbe voluto, ma il modello base, - un abito azzurro cielo lungo fino al ginocchio, senza spalline, con troppi pezzi per essere poi, alla base, solamente un tubo di stoffa -, era pronto, con persino la cerniera già imbastita. 

Margherita però non aveva contato con il fatto che le piume non fossero esattamente… collaboranti

Altro che segno del destino e congiunzione astrale, quell’abito non s’aveva da fare. 

Frustrata, Margherita si tolse gli spilli di bocca e li sbatté sul tavolo. 

“Hai bisogno di una mano?” 

“Non riesco a fissare il boa. Scivola via e perde piume come una gallina tutte le volte che lo tocco. Di questo passo sarà spelacchiato per quando avrò finito di cucirlo!” 

Arianna osservò quell’obbrobrio di piume con aria critica. 

“Facciamo così. Io ti fisso il boa e tu mi aiuti con gli strass dei miei pantaloni.” 

“Sì ti prego grazie!” Margherita non la lasciò nemmeno finire di parlare. Era perfetto, era una situazione win - win. Adorava applicare i rhinestones, era un gesto meccanico che la rilassava e per di più alla fine avrebbe avuto anche il suo vestito finito. Margherita le avrebbe fatto una statua. 

“Ok, ok, meno entusiasmo,” ridacchiò Arianna, prendendo il suo posto al tavolo di lavoro. “Poi devi comunque fissare la cerniera, eh, quello non te lo faccio io.” 

Ed era alla lezione successiva, proprio mentre Margherita tirava via il filo dell’imbastitura dalla cerniera ora perfettamente cucita, che Renata si era presentata con una busta.
“Ho una cosa per te.” 

Margherita l’aveva aperta, sperando non fosse il rimborso del corso di cucito da cui sarebbe stata cacciata.
Invece erano due patch, blu reale come il colore del boa e a forma di piuma per di più.  

“Sono bellissime, grazie!”

“Sarebbero da stirare, ma non so se la stoffa che hai scelto riesca a resistere alla temperatura del ferro senza rovinarsi. Puoi sempre cucirle a mano, però.”

“Le cucio a mano, non c’è problema! Non so dove metterle, però.” 

“Provati il vestito, ti dò una mano a scegliere.” 

Margherita aveva infilato il vestito nel camerino di fortuna e, wow, sì da finito non lo aveva ancora provato, ma faceva la sua dannata figura. Le piume frusciavano contro la sua pelle ad ogni passo e a lei sembrava di camminare su una nuvola.
“Marghe, è stupendo!” Arianna sembrava estasiata e anche Renata aveva un sorriso compiaciuto sul viso. 

“È molto bello, davvero, Margherita.” 

La ragazza si pavoneggiò un po’ in giro, mostrando il vestito alle altre del corso. Persino Marta le fece le congratulazioni, quella perfettina a cui riusciva tutto al primo colpo - e no, Margherita non si sarebbe messa in competizione con una donna che aveva dieci anni in più di cucito sulle spalle, nonostante avesse soltanto cinque anni più di lei. 

“Allora, dove le metto le toppe?” Margherita chiese tornando al proprio tavolo di lavoro. 

Con attenzione Renata prese un paio di spilli dal cuscinetto che aveva appuntato sulla giacca. “Questi tornano indietro, eh, che regalare spilli porta sfortuna.” 

Fu il turno di Margherita di inarcare le sopracciglia poco convinta, ma non disse niente, troppo impegnata a tenere in dentro la pancia per evitare di farsi punzecchiare. 

Quando Renata ebbe finito, Margherita si rese conto che le due piume posavano sui suoi fianchi, proprio dove la cresta iliaca premeva contro la pelle.
“Woah,” fu l’utilissimo commento di Arianna. 

Margherita andò a guardarsi allo specchio. 

“Non è un po’… troppo?” 

“Troppo?”
“Non ti offendere, Renata, ma… sotto una certa luce potrebbero sembrare due frecce che indichino… lì sotto.” 

Renata aveva riso. 

“Tesoro, so che mi consideri vecchia, ma quello è proprio il punto.”

“Eh?!”  

“Un vestito così non ha mezze misure, se ti devono guardare tutti almeno fai le cose per bene.” 

Non sapendo se sentirsi offesa in luogo del suo vestito - però dai, aveva le piume, in fondo era fatto per essere il centro dell’attenzione - o più sorpresa, - perché quella era Renata, insomma, cos’altro doveva aspettarsi dal mondo, che il sole sorgesse a ovest? - Margherita si limitò a rigirarsi nello specchio per osservarsi meglio. 

“Non è così eccessivo come lo fai tu,” le disse Arianna. “Secondo me stai bene, sembrano le effe di un violino.” 

“Dici?” 

“Dico.” 

Margherita allora si convinse, perché Arianna non l’avrebbe mai lasciata andare in giro conciata in maniera imbarazzante - cioè, non più imbarazzante di un boa di piume blu, comunque. 

“Grazie ancora, Renata! Io… Veramente, non me l’aspettavo.  

“Eh lo so, sono una donna piena di sorprese,” scherzò l’insegnante, “Per di più, non credere che non mi sia accorta che hai usato dei pennarelli per segnare la stoffa.” 

Margherita spalancò gli occhi, presa in contropiede. 

“Non sono cieca,” Renata le fece l’occhiolino, “ed è un’idea piuttosto furba, sai? Forse la prenderò in considerazione.” 


* * * 


“No, il modello è molto bello, ma la stoffa che hai preso non è abbastanza.” 

“Lo faccio più corto.”
“Non credo basti, ma la stoffa è tua.” 

“Ci provo. Vedrai che riuscirò a farcelo entrare.” 

Renata inarcò le sopracciglia poco convinta, ma la lasciò fare, andando a controllare un altro tavolo. Margherita dentro di sé sorrise con aria trionfante. 

“Hai la tua solita aria da ‘fanculo il drittofilo’,” la informò Arianna, cercando di pareggiare l’orlo dei pantaloni che stava bordando, “certe volte mi chiedo perché tu sia venuta a questo corso di cucito con me, se poi fai sempre il contrario di quello che dice l’insegnante.” 

Margherita si strinse al petto il taglio di stoffa striminzito di cui si era innamorata questa volta. “Perché le regole sono fatte per essere infrante.” 

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12/12: Davanti al caminetto


Kingsman

Harry/Eggsy 

SAFE


“Don’t evil mastermind ever take a break from their scheming? I would have thought people to be too busy to notice someone taking over the world at least until after New Year, so why do they even bother.” 

Eggsy chuckles because Harry can really be overdramatic sometimes. “No rest for the wicked, Arthur. But there’s still a cup of tea in the kitchen if you’d care to join me.” 

“You sound really mocking, if you talk all posh not wearing a suit,” Harry sighs, massaging his temples, and looks at Eggsy, sitting in his armchair in front of the lit fireplace. 

“But yes, I think I’d care about joining you.” 

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09/12: Pupazzo di Neve 


Kingsman

Harry/Eggsy + Daisy 

SAFE

Tooth-rotting fluff, Slice of life


Daisy ammonticchia la neve in una pila che più che sembrare una palla sembra una frittella, ma Eggsy trova che sia la cosa più carina sulla faccia della terra. 

“Guarda, guarda, come quello di Frozen, E-gsì” Daisy ridacchia e pronuncia il suo nome come fosse uno starnuto, quasi saltando su sé stessa per la foga. 

“Sì, proprio come Olaf,” Eggsy sorride fiero e Daisy gongola, mentre aggiunge una seconda palla alla prima. 

“Ora ci mettiamo il naso, vero?” 

Harry, seduto accanto a lui sulla panchina, sembra solo immerso nella lettura del suo giornale, perché tira fuori dalla tasca la carota che si sono portati dietro e anche due bottoni per gli occhi e li dà alla bambina senza staccare per un attimo gli occhi dalla pagina. 

Daisy storce il naso, “A te non piace il mio pupazzo di neve, ‘arry?” 

Harry ripiega il giornale e dedica un intero minuto della sua attenzione al mucchietto semisciolto di neve che Daisy chiama Olaf.

“Lo trovo davvero impressionante. É molto bello, Daisy.”
La bambina ridacchia soddisfatta e correre quel metro che la separa dalla sua creazione senza preoccupazione alcuna. 

“Allora, grandi pericoli nel nostro perimetro?” Eggsy appoggia la testa sulla sua spalla, cercando un po’ di calore.

“Nessuno, se non contiamo Mrs Heatrow che sta cercando di fulminarci con lo sguardo, perchè probabilmente lediamo alla sua immagine di familia tradizionale, ma un gentiluomo sa sempre essere prudente,” Harry cede il punto e abbandona definitivamente il giornale. 

“O paranoico,” lo prende in giro Eggsy, ma non aggiunge 'siamo solo in un parco, che vuoi che succeda?’, perché è un agente Kingsman da abbastanza anni da non voler sapere la risposta. 

“Preferisco zelante.” 

“D’accordo, zelante," Eggsy sbuffa una risata divertita, ”Per adesso ce la fai, ma dai a Daisy due anni, e si renderà conto che non stai davvero leggendo il giornale.” 

Harry gli passa un braccio attorno alle spalle. “Il giorno in cui non riuscirò a ingannare una bambina di cinque anni, sarà il giorno in cui appenderò l’ombrello al chiodo.” 

“Vorrei proprio vederti.

Daisy regala la propria sciarpa al pupazzo di neve ed Eggsy dichiara che ora di andare a prendere una bella cioccolata calda e magari un biscotto. 

E se nell’andarsene passano davanti a Mrs Heatrow ed Eggsy lascia scivolare la sua mano sul culo di Harry per una frazione di secondo prima di farle l’occhiolino è solo perché Eggsy poi alla fin fine non ha mai saputo tacere di fronte alle provocazioni. 

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07/12: Luminarie


She-Ra

CatrAdora 

Modern!AU

Titolo da Christmas Light dei Coldplay

SAFE


La porta sbatte alle spalle di Catra e Adora vorrebbe soltanto continuare a urlare e urlare e urlare, perché non è possibile che dopo così tanti anni ancora Catra non ci arrivi. 

Sbatte il pugno contro la porta, “ non mi ignorare, Catra, non te ne puoi andare tutte le volte,” ma Catra non reagisce, non le apre la porta della camera in faccia con tanta foga che sembra voglia scardinarla, non le urla che delle due è Adora quella che se ne è sempre andata. 

La porta rimane chiusa e silenziosa e Adora può quasi immaginarsela Catra sul pavimento con la schiena contro quella barriera di compensato e la testa tra le mani, con lacrime silenziose che le cadono tra le dita - può vederla come se fosse dall’altro lato della porta e avesse ancora cinque anni a sussurrarle che quello che le diceva Shadow Weaver non contava davvero e ora eccola lì, a comportarsi esattamente come lei. 

Doveva essere un Natale speciale, il loro primo insieme, e sono lì a litigare come non avevano mai fatto nemmeno all’orfanotrofio dove erano cresciute. 

Dovrebbero essere sedute fianco a fianco a guardare le luminarie sciocche con fin troppe renne che i padri di Bow hanno montato per la sfida del quartiere e chiedersi se Entrapta manderà in black out l’intera città nel tentativo di mettere su qualche spettacolo pirotecnico da una semplice fila di lucine intermittenti. 

Nessuna stupida discussione dovrebbe importare più di questo.

Adora va in cucina dove la cioccolata calda sta finendo di bollire, nonostante il fondo si sia bruciato perché entrambe hanno dimenticato di continuare a mescolare perse nella loro discussione. Adora salva quello che riesce, piazza quella ammasso grumoso in due tazze spaiate e torna da Catra a bussare.

“Catra per favore esci. Mi dispiace. Non voglio più litigare con te, non per una cosa così stupida come le luminarie da appendere in balcone.” 

Quando la porta rimane chiusa, Adora tenta l’ultima mossa. 

“Ho la cioccolata.” 

La porta si apre, impercettibilmente e la testa di Catra fa capolino, un’espressione incerta sul viso. “Anche a me dispiace.”

Adora annuisce e la chiude in un abbraccio, bilanciando le due tazze tra le mani per non farne cadere nemmeno una goccia, nonostante sia certa che quella roba avrà un sapore orribile. 

“Non mi interessa davvero se non vinciamo la gara di quartiere,” dice Catra, prendendo la sua tazza dalle mani di Adora. 

“Le nostre luminarie saranno le più belle comunque, anche se non piaceranno agli altri. Fai parte del quartiere anche se le luminarie fanno schifo.” 

“Non avevo mai fatto parte di qualcosa prima,” Catra guarda fuori dalla finestra, ma l’unica cosa che si vede con le luci di casa accese è il loro riflesso. 

Adora la trascina sul divano e spegne la luce, prima di piazzarsi accanto a lei e passarle un braccio attorno alle spalle per tirarsela più vicina. 

“Neanche io, ma è una sensazione meravigliosa, non trovi?” 

Catra posa la testa sulla sua spalla e insieme guardano il Babbo Natale sul tetto di Glimmer illuminarsi a festa. 

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07/12: Biscotti appena fatti 


Beastars

Legosi/Louis

SAFE


Sulla tavola c’è un centrotavola di stelle di Natale rosse come il sangue e Legosi non riesce a togliere loro gli occhi di dosso. Certamente non riesce a capire come fa Juno ad avercele di fronte ogni volta che si siede a tavola. 

Haru lo fissa con un sorrisetto divertito, la guancia appoggiata alla mano in un modo che la fa sembrare come se le si stesse sciogliendo mezza faccia, mescolando svogliatamente il tè con l’altra. 

“Tu e il tuo fetish per gli erbivori,” sospira, con quel tono dolce che più che farlo sembrare un difetto tacciabile come perversione dalla società gli dà quei connotati di tenera bizzaria, un vezzo un po’ eccentrico, senza il quale non sarebbe il buon vecchio caro Legosi, ma un lupo grigio qualsiasi. 

Juno scossa la testa, un movimento quasi impercettibile che Legosi nemmeno avrebbe visto se solo la lupa non fosse nel suo campo visivo, esattamente dietro le stelle di natale, dando loro la schiena. Legosi si chiede se sia riferito ad Haru o se ci sia qualcosa che non va nell’infornata di biscotti che sta guardando crescere nel forno, ma poi Juno apre il forno e tira fuori la teglia. Se l’odore di biscotti pervadeva la cucina già da prima, ora che sono appena sfornati l’odore del burro è quasi insopportabile e Legosi sente la saliva colargli dalle zanne a formare una pozza sulla sua lingua. 

Dall’odore i biscotti sono perfetti, per cui probabilmente non era a quelli che Juno scossava la testa. 

“Louis non è uno stupido,” dice Haru, perché è la verità, “ma certe volte le cose che ha davanti agli occhi non le vede proprio.” 

Se Legosi si prendesse un istante per considerare quanto sia strano quello che sta succedendo - lui che chiede consiglio a due ex di Louis una delle quali è anche una sua ex e dell’altra ha rifiutato i sentimenti - forse non gli sembrerebbe poi tanto più strano cercare di far capire a Louis i suoi sentimenti. 

“Oh, non lo so,” Juno si siede e spinge i biscotti fumanti verso Legosi, con un estemporaneo ‘attento che scottano’ prima di tornare a parlare del cervo, “penso che certe cose gli faccia più comodo pensare di non averle viste affatto.” 

Legosi prende un biscotto tra gli artigli e lo infila in bocca per poi sputarlo sul suo palmo quando quello gli ustiona la lingua.

Juno lo fissa con riprovazione, “Ti avevo detto che scottavano!”

Legosi ci riprova, stacca il biscotto in pezzi sul piattino della tazza di tè e osserva il fumo sollevarsi in nastri impalpabili. 

“E quindi che dovrei fare? Insistere? Fare finta di niente, perché se è quello che sta facendo lui è già una risposta?” 

Juno e Haru si scambiano uno sguardo e poi entrambe, quasi come se fossero un’unica entità, posano una zampa sul una delle sue. 

“Il giorno che ti vedrò fare finta di niente e non affrontare un problema di petto sarà il giorno in cui controllerò che non ti abbia sostituito un alieno,” Haru stringe per un istante, quasi a dargli conforto. 

“Louis è molto coraggioso, lo sai che rischierebbe la vita senza pensarci due volte,” Juno non incrocia il suo sguardo, sebbene non abbia ritirato la mano, e Legosi si chiede quanto le costi dargli un consiglio del genere, “ma ci sono cose che Louis non è pronto ad affrontare e se gli lasci i suoi tempi non sarà pronto mai.” 

“Ma non dovrei rispettare quello che Louis vuole?”

“A me hai detto che mi amavi anche se non volevo sentirlo. Tutta questa considerazione da dove ti viene improvvisamente?” Huru lo pungola e Legosi quasi casca dalla sedia. 

“È che Louis…” 

“È speciale. E pensi che se forzi le cose poi queste si romperanno.” 

Legosi non annuisce, ma si ficca in bocca un frammento di biscotto per non rispondere. 

“Louis ti ha dato la sua dannata gamba da mangiare, per Rex!” Sbotta Juno, la mascella contratta e gli occhi stretti, “La sua dannata gamba per non farti morire! Di cosa diamine hai bisogno per capire che ti ama?” 

Che ama te, Legosi sente e Juno non lo dice, ma rimane lì nell’aria pesante come un macigno e forse non sarebbe dovuto venire. 

“Diamine, Legosi, per te ha dato la sua immagine. Non vuole farsi vedere senza corna nei giorni in cui le perde per non sembrare debole, eppure ha deciso di prendere su di sé il ruolo della vittima, del povero cervo inerme aggredito da un carnivoro, pur di non vivere senza di te.”

Legosi vorrebbe dire che non significa niente, che anche lui darebbe una gamba per Haru o Juno o per suo nonno e non vuol dire quello che pensa Juno, affatto.

Mai poi Juno chiede “Pensi che Louis avrebbe dato una gamba per me?” Con voce stanca, quasi che tutta la sua rabbia se ne sia andata con la tirata che ha appena fatto. 

No. Per la società, per un innocente, per il suo strano concetto di giustizia. Non per Juno nello specifico. E vorrebbe anche dire che sì, ha rischiato la vita per Haru quando è stata rapita dagli Shishigumi, prima quasi una vita fa, ma sa anche che il vero motivo per cui era andato lì alla fine era stato il numero tatuato sul suo tallone. 

“Vai da lui, Legosi,” Juno gli lascia la mano, “me lo devi.” Perché non avrebbe mai scelto me su tutti i suoi obblighi e oneri, ma tu, tu sei tutto un altro paio di maniche. 

“Ma prima finisci il biscotto.” 

E forse Legosi le deve anche questo, perciò mangia il biscotto e “grazie” dice, ma nessuno dei due è sicuro che sia soltanto per la pastafrolla. 


* * * 


Haru smangiucchia la pastafrolla ormai fredda, e osserva la compagna di stanza. 

“Pensavo che Louis ti fosse passata ormai.” 

Juno sorride, ma i suoi occhi sono ancora velati di lacrime. “Non mi passerà mai. Così come a te non passerà Legosi.” 

Haru spinge verso di lei un biscotto, “Cibo consolatorio.” 

“Pensavo fosse il gelato.” 

“Non quando fuori fa così tanto freddo.” 

“Tempo da lupi.”

“E quando mai non lo è.” 

La sedia vuota di Legosi conserva ancora un po’ del calore del suo corpo. 

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06/12: Albero di Natale


Harry Potter

Snarry

SAFE



There was a fucking three in Potter’s room. An enormous monstrosity that took up great part of what Severus thought it should have once been the living room and now just looked like a portion of the Forbidden Forest transplanted inside of the castle. 

“Hello, Severus,” Potter greeted him still on the threshold. He looked tired and a bit overwhelmed - and also a little bit cute with leaves and golden threads stuck in his hair, as cute as someone taken straight out of a poster ad about Christmas, Severus corrected in his mind, “If you are here to return the mistletoe, I’m busy and I don’t want it back, so…”  his voice trailed off, waiting for his reply. 

“You were telling me about a cup of tea, Harry,” and yes, probably Severus shouldn’t put that much contempt in a name, but Potter - Harry, ugh - brightened nonetheless. 

“Yes! I mean, of course!” Then he looked behind his shoulder, as if he had forgotten completely he was decorating the Christmas three just a few minutes before. “Right now I’m a little busy, though. Unless you don’t mind…” and he actually took a step back to let him in. 

Severus considered laughing in his face, telling him he just had a cup of tea and he should make it count if he really wanted it, scoffing at him that of course he didn’t mind being subjected to only half of his attention, that it was a great bargain actually. 

He just nodded instead, and Potter lead him in. 

“Earl grey?” he asked, expectantly. 

And maybe it was the Christmas spirits, maybe Potter’s tree was really infested by nargles, but “No, thank you. I suppose I should save the caffeine quota for that cup of tea I’ll have to offer you.” 

 
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05/12: Each year I ask for many different things, but now I know what my heart wants you to bring. 
(I had no idea how to fill this prompt and it shows) 


Supernatural

//

SAFE 


He clasps his hand in front of himself, even if he thinks it won’t work. And why should it? He has spent enough evenings and mornings praying - for his soul, for his brother, for his father, for the family he wished they could still have, for a lot of things - and it’s not like it has ever worked. 

It’s not like knowing - really knowing - there’s a God somewhere upstairs should make any difference, it’s not like He’ll suddenly start to hear him and answer to his prayers. 

Still, Sam has to try, because he’s brother is dying and he’s going to hell and Sam will never see him again, or he will have to commit atrocious crimes - more than what they have already done, because he needs to be sure it worked -  to be sent to Hell too. 

He doesn’t know which possibility scares him the most. 

So firstly he prays, he kneel on the hard floor and join his hands in front of his face, the gestures ingrained in his muscular memory.

Each year, each time, I ask for many different things, but now I know what my heart wants you to bring me, the only think I can’t risk losing. 

My brother’s soul. Save him. 

Save Dean. 

 
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04/12: Vacanze


BNHA

BakuDeku

SAFE
Ideal sequel to this, can be read as a standalone. 


To say that Katsuki wasn’t thrilled was an euphemism so big it would be as saying that Japan was a little overpopulated. 

But Deku had insisted, almost dragged him, told him Katsuki owed him a trip because they didn’t had their freaking honeymoon - damn, they almost didn’t had their fucking wedding -  busy as they were fighting villains and now it was the perfect time to take a break, exploit the Christmas holidays to go somewhere, just the two of them, in a very isolated place, possibly with natural springs of hot water and a comfortable bed in which they could tumble at the end of the day. 

So Katsuki had had to agree, to say fine, ok, let’s go, but if you think for just one secondi this is gonna go as you plan you are a deluded fool and Deku had just smiled fondly, rolling his eyes at the ceiling it’s a quiet place, just a weekend, the village has less than three thousand resident and it’s not even a tourist place - and see how that ended. 

“So, just to make sure I have all the facts,” the police officer in front of them looked at his notepad again, his eyes wide as if he couldn’t believe this was really happening in his godforsaken village - Bakugou would have said “feel you” really, except he had seen this coming from a mile away - “would you mind badly to repeat me how exactly you found out that the owner of this establishment was running a human trafficking ring? By the way, are you really sure he’s just unconscious and not dead?” 

Yes, just a weekend. 

What was new. 


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Calendario dell’Avvento (Kaos Borealis)

02/12: All I want for Christmas is you


Beastars

Legosi/Louis

SAFE

Pining

Parte 1 


“Io non ti ho preso niente,” gli aveva detto Louis, con tono di scuse a per un istante al lupo era sembrato quasi che volesse rifiutarsi di prenderlo, che non sarebbe stato educato. 

“Non fa niente,” Legosi aveva risposto, e glielo aveva ficcato in mano con ancora più forza. Gli avrebbe voluto dire che davvero non importava, non stava tirando fuori frasi fatte, che tutto quello che gli serve per Rexmas ce lo aveva già di fronte.

Invece Legosi era rimasto zitto - che Louis lo tacciava sempre di essere un po’ troppo profondamente filosofo, con i suoi grandi gesti e le dichiarazioni grandiose - e si era limitato a grattarsi il collo imbarazzato mentre faticava a trattenersi dallo spostare il peso da un piede all’altro come se avesse ancora tredici anni. Aveva guardato Louis scartare il pacco e si era detto che quello era il momento decisivo, perché o Louis avrebbe accettato quel regalo e tutto ciò che esso rappresentava, oppure Legosi sarebbe tornato a casa con la sua sciarpa e la sua delusione e forse un amico in meno perché Louis non faceva mai le cose a metà. 

Invece, Louis aveva tirato fuori quella sciarpa e 

“È… bellissima, Legosi, davvero, grazie.” 

non aveva detto altro, come se non avesse capito che quella non era una semplice sciarpa, che Legosi aveva voluto dargli una parte di sé da portarsi sempre accanto - come lui si portava una parte di Louis. 

E alla fine, quando le tazze del bar dove si erano incontrati erano diventate ormai vuote e fredde e Legosi doveva proprio andare e anche Louis aveva degli impegni, il cervo si era avvolto la sciarpa al collo con nonchalance, come se il gesto non significasse il mondo.  

“Il tuo regalo te lo porto la prossima volta.” 

Era stato sulla punta delle sua lingua, allora, ’non importa, Louis, basti tu’, ma il cervo era già fuori dal locale, la porta a vetri richiusa alle sue spalle con un tintinnio. 

E forse andava bene così, che probabilmente l’unica cosa che Louis avrebbe capito sarebbe stata che Legoshi voleva la sua altra gamba. 


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 Calendario dell’Avvento (Kaos Borealis)

01/12: Sciarpa di lana


Beastars

Legosi/Louis

SAFE

Pining, potentially one-sided, light angst 



È la cosa più stupida che abbia mai fatto, si dice Louis, e, considerando che Louis è lo stesso cervo che si è messo a capo di una banda di leoni mafiosi e si è volontariamente fatto mangiare una gamba da un carnivoro, di cose stupide lui ne ha fatte parecchie. 

Solo che Louis è abituato a fare cose stupide come in stupidamente disperate, scelte che si fanno per sopravvivere nonostante ti facciano passare dalla padella alla brace e che sai ti costringeranno ad un domino di scelte ancora più stupide e ancora più disperate per continuare a sopravvivere. 

Louis non è abituato a fare cose stupide come in stupidamente imbarazzanti, di quelle che ti fanno arrossire fino alle punta delle orecchie e sembrare anche un po’ pateticamente disperato - perché sicuramente Legosi, quell’imbranato di un lupo che sembra ignorare le regole sociali più basilari e se ne frega di come va il mondo fuori dalla sua bolla piena di virtuosa giustizia, non si rende conto di ciò che implica un regalo del genere. 

No, Legosi si è solo presentato con un pacchetto male incartato e ha insistito perché Louis tirasse fuori quella sciarpa di lana bitorzoluta e sbilenca, piena di buchi, fatta ai ferri nel buio di notti insonni e ore passate in letti di ospedale ad aspettare che ferite si rimarginassero e sospetti di traumi cranici si rivelassero infondati. 

Rex, Louis era accanto a lui metà di quelle volte, forse di più, seduto su sedie di plastica ad alzare gli occhi al cielo dicendogli di stare più attento, che un giorno ci avrebbe lasciato le zampe, mentre Legosi cercava di tenere in equilibrio i ferri tra gli artigli troppo lunghi, sferruzzando quella lana grigia in una sciarpa sempre più lunga - un po’ troppo lunga per Haru, aveva pensato Louis, ma almeno ci sarebbe stata calda e comoda, una volta che se la fosse avvolta addosso.

Però era quello il problema, no? 

Che Legosi quella sciarpa l’aveva regalata a Louis. 

E Louis glielo avrebbe dovuto dire - perché lo sentiva in ogni fibra nonostante il suo naso non fosse acuto come quello di un carnivoro che quello era il pelo di Legosi filato in lana - che fare un regalo del genere aveva molte più implicazioni di quello che il lupo pensava, che una cosa del genere si regala ad una fidanzata, non a… Louis. 

Però. 

Però se gliele dicesse - quando, non se, - quando glielo dirà dovrà rendergli la sciarpa e Louis, per quanto dica il contrario, non vuole. Non ancora. 

Così si drappeggia la sciarpa intorno al collo e se ne va per strada come se avesse davvero qualche diritto di farlo, cullandosi per qualche istante nella finzione dell’immagine che dà agli altri, ignorando la realtà. 

Ed è davvero la cosa più stupida che abbia mai fatto. 

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Boku No Hero Academia - Denki Kaminari/Kyoka Jirou - SAFE - 721 parole 


Prompt dall’event indetto dal gruppo fb WhoLindtLock Drabble: 

KamiJirou: il loro primo bacio è a sorpresa, dietro le quinte del loro concerto al Festival

+ “First Kiss” per la challenge ‘Ospiti dalla Spazio’ di Kaos Borealis 



Le tremavano le gambe, e se avesse dovuto essere onesta, anche le un po’ le mani. Capita dopo essere stati sul palco, i suoi genitori glielo avevano sempre detto, ma Kyoka non ci aveva creduto fino in fondo.

Finché era aveva avuto il microfono in mano era stata meravigliosa - sparita era la leggera nausea da panico, niente più dubbi, niente terrore di steccare una nota o di cadere dal palco. Il mondo aveva smesso di esistere, c’erano solo il ritmo della batteria, il riff di chitarra e la sua voce. 

Ma adesso… lo spettacolo era finito e lei era in down da adrenalina. Non riusciva a smettere di sorridere, diamine, forse le sarebbe anche venuto da piangere, ma no, doveva mantenersi presentabile perché sarebbe dovuta uscire per l’applauso insieme a tutti i suoi compagni di classe, se solo fosse riuscita a staccarsi dalla parete alla quale si era appoggiata per non crollare come un sacco di patate. 

“Jirou! Sei stata fantastica!”

Kaminari stava sorridendo, un po’ maniacalmente ora che ci Jirou ci faceva caso, e sì, certo anche lui doveva sentirsi esattamente come lei ora che avevano finito. Forse anche lui, nonostante la spavalderia, aveva avuto il terrore di sbagliare un accordo della chitarra o di inciampare nel cavo o di chissà che altro. 

Ma non era successo niente di tutto ciò. Era stato tutto perfetto. 

“Anche tu Kaminari!” Jirou sorrise, lasciando andare la risata che aveva trattenuto fino a quel momento. 

“Davvero?” Denki era elettrizzato - non solo letteralmente - perché quasi stava saltellando sul posto nel tentativo di sfogare le energie, ma Jirou non riusciva a trovarlo fastidioso o irritante come al solito. 

“Certo! È stato tutto fantastico!” Cercò di smettere di sorridere perché cominciavano a farle male le guance, ma senza riuscirci.

“Yay!” Il complimento sembrava aver rotto quel poco di controllo che aveva, perché Kaminari cominciò davvero a saltellare sul posto come un Pikachu sotto acidi e Kyoka gli posò una mano sulla spalla nel tentativo di calmarlo un po’, convinta che altrimenti presto si sarebbe ridotto all’idiota fritto che diventava quando usava troppo il suo quirk. 

Kaminari però per tutta risposta la trascinò in un passo di danza che tutto aveva meno che del ritmo - Jirou non si sarebbe sorpresa di sapere che lo aveva inventato sul momento, ma non le importava assolutamente. Si sentiva accaldata, così premuta contro il corpo del suo compagno di classe e le guance dovevano esserle diventate di un rosso acceso, ma Denki sembrava non essersene reso nemmeno conto. 

“Jirou Jirou Jirou! È andato tutto bene! Ero così preoccupato! Ci siamo esibiti davanti all’intera scuola! Ci pensi? Non ero così in ansia nemmeno durante il festival dello sport e lì c’erano i giornalisti!” 

E poi quasi fosse la cosa più naturale del mondo, Kaminari la baciò.  

Premette le loro labbra insieme e poi ricominciò a blaterare dell’esibizione continuando a stringerla tra le braccia, come se non fosse accaduto nulla di fuori dall’ordinario, come se non avesse appena spostato l’asse di rotazione del pianeta Jirou.

“Ehi, ragazzi! Ci aspettano per l’applauso!” urlò  Kirishima nelle quinte, cercando di radunarli tutti, e Denki la lasciò andare, quasi si fosse scottato. Doveva avere un retarder impiantato perché improvvisamente si era reso conto di quello che aveva fatto e l’aveva guardata con terrore. ‘L’ho fatto davvero?’ sembravano chiedere i suoi occhi sgranati. 

“Uh, dovemmo… dovremmo andare,” balbettò, arrossendo tanto quanto Jirou e distogliendo lo sguardo. 

Ma Jirou non gli avrebbe permesso di cavarsela così.
Lo afferrò per il braccio, impedendogli di allontanarsi e Denki incasso la testa nelle spalle, quasi si aspettasse uno schiaffo di risposta. 

Invece Kyoka gli gettò le braccia al collo e lo baciò di nuovo. 

Sentì le labbra di Denki aprirsi per la sorpresa, poi le sue braccia la strinsero di nuovo, rassicurandola sul fatto che il terrore negli occhi del ragazzo fossero per la paura di essere rifiutato e non rammarico per aver baciato una ragazza che non gli interessava. 

Jirou si separò da lui, lasciandolo con un’espressione ebete sul volto, quasi che lei gli avesse davvero fritto il cervello e Kyoka si concesse un sorriso. 

Perché il suo primo bacio potrebbe anche esserle stato strappato a tradimento, ma non avrebbe certo permesso a Kaminari di dettar legge sul secondo. 

 “Adesso dovremmo andare.”

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 Devilman Crybaby 

Akira/Ryo

COW-T #10, w7, m2 (Wing!fic)

+ prompt di scorta (7 seconds - Youssou N’Dour ft. Neneh Cherry) 

Wordcount:


Le ali di Ryo sono bianche e candide e abbacinanti, talmente splendenti che Akira non riesce a vederle, i confini non sono nitidi, le piume indistinguibili tra loro. 

Gli occhi di Amon - gialli come lo zolfo, rossi come il fuoco dell’inferno e neri come il sangue - vedono tutto con anche fin troppa chiarezza. C’è la rada peluria attorno allo scheletro della piuma prima che questa diventi una penna vera e propria, soffice e calda, c’è la membrana dell’ala, sottesa e visibile dove una piuma si è staccata ed è volata via. 

“Sette secondi,” gli sussurra Ryo all’orecchio, “conta o diventerai cieco.” 

Amon - Amon dagli occhi gialli come lo zolfo, rossi come il fuoco dell’inferno e neri come il sangue, Amon dagli occhi che vedono tutto - ride. 

Non sai niente,” dice la parte del demone che è sopravvissuta alla fusione, “niente, Stella del Mattino.” 

“Non voglio rischiare,” dice Ryo.

“Rischiare cosa?” Chiede Akira, ignaro. 

“I tuoi occhi.” 

Il suo giocattolino.” 

“Comportati bene, Amon.” 

“Sempre, mio Signore.” 

Akira non capisce. 

Ma non c’è niente da capire.” 

“I sette secondi sono passati, Akira. Chiudi gli occhi.” 

Akira obbedisce, nonostante Amon stia ridendo e vagamente scherzando nel suggerirgli di non farlo e Ryo abbia gli occhi più tristi che Akira gli abbia mai visto. 

“Che succede, Ryo?” Akira riapre gli occhi e il suo amico è di nuovo qui, bianco e candido e abbacinante nel suo completo niveo. Akira dovrebbe chiedersi come mai sia sempre vestito di quel bianco accecante e insopportabile. 

“Niente, Akira, torna a dormire.” 

Akira chiude gli occhi, la testa piena di neri capelli spettinati posata sul grembo di Ryo, e dorme. 

Ci saranno altri sette secondi, più tardi e altri sette ancora un po’ più avanti. Di sette secondi in sette secondi fino alla fine del mondo. 

Non lo saprà mai, non è vero, mio Signore?” 

La Stella del Mattino scuote la testa, passando una mano in quel cespuglio indomabile che sono i suoi capelli. “No.” 

Sette secondi è tutto il tempo che hanno a disposizione insieme, l’unico tempo che gli è concesso dove Ryo può essere Lucifero e Akira può vederlo - non capisce, no, il suo cervello umano non è ancora abbastanza fuso con quello di Amon, non sono ancora due essere indistinguibili, anche se sono sulla strada giusta per diventarlo. 

Ma anche allora avrà soltanto sette secondi alla volta. Fino alla fine del mondo. 

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