For old times' sake
Feb. 23rd, 2021 05:42 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
COW-T #11 (w3, m4): Edificio abbandonato
Il cancello era aperto e così lei era fuggita.
Doveva essere stata una dimenticanza, perché non c’era mai stata una volta che il cancello fosse aperto e loro non fossero lì, pronti ad osservarla, pronti a fermarla se avesse deciso di andarsene - e lei ormai aveva cominciato a perdere le speranze.
Invece era accaduto e lei era rimasta a fissare quel quadrato di libertà, quella assenza improvvisa di sbarre, una soluzione di continuità inaspettata. Poteva azzardarsi?
Si era guardata alle spalle e aveva fatto un cauto passo in avanti e poi un altro.
Quando non aveva sentito voci intimarle di fermarsi, quando nessuna mano era arrivata ad afferrarla e trascinarla via, lei si era lanciata fuori e aveva cominciato a correre, solo per il gusto di poterlo fare.
Aveva seguito la strada che si dipanava tra i campi, restando sul ciglio pur preferendo l’erba morbida all’asfalto ruvido e duro, cercando di carpire con lo sguardo tutto il resto del mondo che si trovava al di fuori della sua solita portata, fino che non aveva visto una farfalla volteggiare a poca distanza dalla propria testa e questa, per una volta, aveva potuto seguirla.
Le spighe di grano le frusciavano contro i fianchi, tanto alte che rischiavano di finirle negli occhi, ma non le importava. La rugiada del mattino le aveva bagnato il naso, le si era infilata tra le ciglia e lei aveva sentito per la prima volta la libertà.
Aveva corso fino a che non le era mancato il fiato, fino che i polmoni non avevano cominciato a bruciarle in petto e la gabbia toracica a sembrarle troppo stretta e allora, solo allora, si era lasciata cadere a terra, da sola nel mondo in mezzo a quel campo di grano, la farfalla completamente dimenticata. Si era rotolata tra le spighe e gliene erano rimaste parecchie incastrate addosso, ma non importava. Ne aveva spazzata via una particolarmente fastidiosa vicino all’orecchio e poi si era tirata in piedi e aveva ricominciato a correre.
Aveva sentito un odore strano e aveva tentato di seguirlo.
Era strano ed era ovunque e non era facile, ma dopo essersi lasciata alle spalle le spighe di grano, avviluppato da edera incolta, l’edificio le si era parato davanti, fatiscente e abbandonato, con i suoi cardini cigolanti da cui pendeva quello che una volta era stata un portone di legno.
Vi si era avvicinata cauta, un passo alla volta, pronta a fuggire al minimo segno di pericolo, ma pericoli non sembravano esservene perché tutto era silenzioso attorno a lei.
Le grandi finestre erano vuote, assi divelte, schiarite dal sole prima e mezze marcite dal tempo e dalla pioggia poi, ma nelle orbite vuote di quelle al pian terreno stava accovacciato un gatto.
Aveva fatto un passo verso di lui e quello l’aveva guardata e aveva scossato la coda guardingo.
Lei non sapeva cosa volesse dire quel gesto e aveva fatto per avvicinarsi di più.
Il gatto aveva spalancato le fauci, rosse di sangue e aveva soffiato, stringendo tra gli artigli quella che doveva essere la carcassa di topo, ma che ormai era soltanto un ammasso sanguinolento.
Lei non aveva fame, no affatto, in ogni caso, il gatto avrebbe potuto essere più amichevole, per cui con uno sbuffo decise di ignorare l’avvertimento.
Il gatto le aveva soffiato ancora, poi vedendo che non si sarebbe fermata, aveva raccolto tra le fauci la carogna ed era scappato dentro.
Lei lo aveva seguito, aveva salito l’ampia scalinata che portava al portone divelto saltando due gradini alla volta e quasi scivolando lungo il marmo ricoperto di escrementi di uccelli che dovevano aver fatto il nido tra le tegole cadenti.
L’ampio atrio non recava tracce del gatto e lei quasi aveva pensato di tornare fuori, che il campo di grano era più allegro e divertente. Però ci poteva essere altro da vedere, chissà cosa si poteva nascondere dietro quelle porte semi aperte in quel lungo corridoio.
Aveva spinto con tutto il proprio corpo la prima porta, perché in quella stanza poteva trovarsi il gatto, dopotutto aveva sentito un rumore, e il legno aveva ceduto, scivolando sui cardini con un rumore sinistro. Non era chiusa a chiave e lei era entrata - non si era preoccupata delle scrivanie abbandonate, delle sedie impilate negli angoli, degli stucchi scrostati e dei muri che cadevano a pezzi.
Aveva percorso la stanza, ma il gatto non c’era, così se l’era lasciata dietro senza nemmeno voltarsi a guardarla. Aveva altro di meglio da fare.
Era stata metodica nell’esaminare e cercare in ogni stanza, era salita persino al piano di sopra, - arrischiandosi lungo le scale pericolanti, anche se lei non pesava abbastanza per far cedere il legno - ma del gatto non vi era traccia. Aveva trovato un nido di uccelli, però, piccioni dalle piume lucide e dalle uova bianche, ma era troppo in alto perché lei potesse saltare e guardare meglio.
Le era venuta fame ad un certo punto, perché non aveva fatto altro che correre tutta la mattina, ma non c’era nulla di commestibile in quel posto e per di più l’acqua che aveva provato a bere da una pozza sapeva di fango e muffa. Non era stata schizzinosa, ma all’improvviso aveva cominciato a mancarle casa.
Si chiese se sarebbe stata in grado di tornare, se persa come si era dietro mille distrazione, avrebbe potuto riconoscere la traccia per ritrovare la strada di casa. Le faceva un po’ paura l’idea e poi si sentiva sola, non era mai stata così tante ore senza la compagnia di qualcuno.
Aveva percorso le scale a ritroso, ed era rimasta a fissare il corridoio, buio ora che la luce del pomeriggio aveva cambiato le ombre agli oggetti.
E se il gatto fosse stato in agguato?
Improvvisamente da inseguitrice era passata a sentirsi inseguita e la cosa la spaventava a morte, le faceva rizzare i peli.
Poi da fuori era giunto un grido e lei aveva alzato la testa, cercando di captarlo meglio.
Il grido era venuto di nuovo, una parola urlata, un suono che era il suo nome! E lei - lei conosceva quella voce!
Così si era lanciata lungo il corridoio, incurante del gatto perché quella voce dal gatto avrebbe potuto salvarla e si era lanciata giù dalla scalinata, cercando di raggiungerla il più in fretta possibile. Questa volta era riuscita a scivolare davvero e gli ultimi due gradini le avevano colpito la pancia, facendola guaire di dolore.
Il rumore però doveva aver attirato la voce, perché continuava a sentir urlare il proprio nome, ma era sempre più vicino.
Si era tirata su, ignorando la botta, e poi eccola lì, la proprietaria della voce.
L’umana le si era parata davanti - il suo personale cavaliere, senza cavallo bianco - pronta a salvarla e lei le era corsa incontro, raggiante di gioia, con la coda che non riusciva a stare ferma, incurante se le sarebbe toccata una sgridata.
L’umana invece era caduta in ginocchio e l’aveva abbracciata, stringendosela contro il petto.
“Oh, mio Dio, non farlo mai più!” Aveva detto e se anche lei non aveva capito le parole, se non altro ne aveva compreso il senso.
Lacrime calde erano scese a bagnarle la testa e lei aveva sollevato lo sguardo per guardare meglio l’umana. Quella aveva fatto un verso strozzato e lei non aveva potuto fare altro che leccarle il muso, inseguendo il sapore salato dalle guance fino agli occhi nel tentativo di fermarlo.
L’umana se l’era caricata in braccio e lei l’aveva lasciata fare, anche se odiava essere trasportata così e preferiva di gran lunga camminare da sola, ma si rendeva conto che in quel momento non poteva esattamente cercare di dire la propria.
Mettendosela in equilibrio su una spalla, l’umana aveva stretto l’oggetto scintillante che aveva in mano e se lo era premuto all’orecchio, dicendovi qualcosa dentro. Gran parte di quei suoni per lei non avevano significato, ma non importava.
Andava tutto bene. Sarebbe tornata a casa.
“L’ho trovata! Era nel vecchio municipio abbandonato. Sì, Dio mio, puoi smettere di cercare e venire a casa. Questo cane mi farà venire i capelli bianchi e morire giovane!”