ChissàDove
Mar. 31st, 2020 11:09 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
COW-T #10 (week 7, m4) - prompt: warning:violence
Prompt di scorta week3 - J2) immagine
Wordcount: 1600
Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga.
Dopotutto lo avevo fatto per tutta una vita.
Avevo iniziato a otto anni, uno zaino della sopravvivenza che contava una bottiglia d’acqua da mezzo litro, dieci pacchetti di cracker e un kit-kat.
Mi ero sentito così fiero di me stesso allora, come se quelle provviste potessero durarmi più di un giorno. Ma avevo otto anni e mi ero sentito particolarmente previdente.
Scappare di casa era stato facilissimo, restarne fuori molto più problematico. Faceva freddo, perché non avevo preso la giacca, stupidamente considerando che, visto che mia madre mi ricordava in continuazione di farlo, ora che lei non sapeva che me stessi andando avrei potuto non farlo.
A mia discolpa, ripeto che avevo otto anni.
Comunque fece freddo e mi pentii di non aver preso la giacca.
Così tornai a casa.
La mia fuga era durata esattamente cinque ore e ventidue minuti.
Mia madre non si accorse di niente, ovviamente, perché tornai a casa fingendo di essere andato a scuola. E la cosa finì lì.
No, mi correggo la cosa sarebbe dovuta finire lì. Avrei dovuto disfare lo zaino e dimenticarmi di quell’idea balzana di andarmene a vivere nei boschi solo perché avevo letto “La bambina che amava Tom Gordon” e pensavo che io in realtà in quei boschi avrei potuto viverci e non sarei stato altrettanto inetto. I boschi sarebbero diventati la mia casa, avrei addomesticato le belve feroci e, quando mi fossi stancato di fare l’eremita sarei ritornato a casa, novello Tarzan delle scimmie, a cavallo di un giaguaro per riparare tutti i torti della mia vita, principe azzurro dall’inusuale - ma molto più scenografica - cavalcatura.
A mia discolpa, continuo a ribadire che avevo otto anni - ed ero un bambino particolarmente stupido. Fuggii al parco pubblico e cavalcai l’altalena a molla le cui pareti rappresentavano la testa di un elefante.
Le cose che facciamo da bambini.
La seconda volta presi la giacca, e i fiammiferi, perché mi ero reso conto di non avere la minima idea di come creare una fiamma solo con un bastoncino di legno e forse sarebbe stato più utile avere una fiamma a portata di mano invece che perdere prezioso tempo per imparare a farlo. Avevo preso anche il coltellino svizzero di mio padre, quello dal manico rosso, che si apriva di scatto e rivelava una lucente lama metallica dal bordo affilato. O un cavatappi puntuto che sembrava minacciare di cavarti gli occhi se solo lo avessi osservato abbastanza a lungo.
Rimasi fuori più tempo quella volta, tredici ore e trentasette minuti.
Avevo undici anni allora e ancora nessuno si accorse della mia sparizione. E come potevano?
Mamma era svenuta in bagno, dove si era chiusa a leccarsi le ferite. Papà era sparito a ChissàDove - un luogo che mamma chiamava con disprezzo, quasi sputandolo tra i denti serrati, e che per me aveva sempre avuto un aura di mistero dal momento che tutte le volte che mio padre vi andava tornava conciato in maniere diverse, ma sempre con l’alito dolce e pungente, che aveva lo stesso odore della bagna per dolci che mamma usava per fare la zuppa inglese.
Anche quella volta mi rifugiai in un parco - non lo stesso dell’altra volta, perché insomma, non avevo più otto anni, e sapevo benissimo che quel microscopico appezzamento che nemmeno poteva essere chiamato parco non mi avrebbe nascosto di nuovo. Il parco che scelsi quella volta era più grande, e più grandi erano i ragazzi che lo frequentavano. Adolescenti dalle braghe larghe, che fumavano (forse) sigarette rollate a mano, ridendo sguaiati e imprecando come scaricatori di porto.
No, stonavo tra quella gente, seduto compitamente su una panchina scrostata con disegni di genitali in uniposca nero sulle doghe di legno marcescente.
Tornai a casa senza troppe remore, convinto che la scena sarebbe stata sempre al stessa.
Ma mamma non era in bagno e papà non era ChissàDove.
Papà era in casa e da ChissàDove doveva esserci tornato da poco perché il suo alito puzzava davvero ancora di alchermes - rum, avrei scoperto da più grande, ma che importava la qualità del veleno?
Si era accorto che il coltellino svizzero mancava. E visto che mancava ne aveva usato uno da cucina, uno di quelli grossi che mamma usava per tagliare le carote in tante rondelle sottile, con quelle mani che volavano sul tagliere come quelle di una grande chef, senza mai ferirsi.
Quella lama non aveva mai tagliato carne prima d’ora, mai assaggiato il sapore del sangue, perché mamma era veloce, ma attenta, e non si era mai tagliata. Mai, prima di quel momento.
Hai visto cosa mi hai fatto fare? Aveva chiesto mio padre, e si era voltato verso di me e mi aveva dato una sberla, talmente forte il mio collo aveva scricchiolato e per un istante avevo pensato che la mia testa sarebbe rotolata via.
Poi era arrivato il bruciore, forte come un ferro arroventato dove la palma e le cinque dita si erano imprese sulla mia guancia.
Dove cazzo lo hai messo, eh? Aveva detto e mi aveva strattonato la giacca e aveva chiuso la mano intorno alla cinghia dello zaino e aveva tirato e avevo sentito il rumore dello strappo della tela cerata.
Avevo barcollato all’indietro, lasciando andare la mia ancora di sopravvivenza e lui l’aveva squarciata, aprendola con foga. La cerniera rossa adesso sembrava un ferita sanguinolenta e slabbrata, dopo essere stata aperta con tanta violenza.
Aveva svuotato il contenuto sul pavimento. I cracker e l’acqua e le merendine e i fiammiferi. Era tutto rotolato fuori come terreno franato da una montagna. E poi aveva afferrato la plastica rossa con il cerchio bianco sopra e la croce rossa incastonata dentro e l’aveva fatto scattare.
Adesso ti insegno io a prendere ciò che non è tuo.
- - -
Avevo sempre uno zaino pronto, sempre sotto il letto, cracker e acqua e fiammiferi e un coltellino svizzero dal manico nero e nessuna croce rossa su campo bianco dipinta sopra. E soldi. Una cosa l’avevo imparata. Senza soldi non vai da nessuna parte.
Me ne andai di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Me ne andai dalla signora Galloway.
Me ne andai dai cognugi Rizzoli.
Me ne andai dalla casa famiglia in cui mi misero e dalla famiglia affidataria a cui mi affibbiarono e dalla seconda casa famiglia in cui mi misero.
Me ne andai e me ne andai e me ne andai.
Non lo dissi allora cosa facevo, anche se furono gli altri a dirmelo.
È scappato di casa di nuovo, quel ragazzo! Non sappiamo proprio che farcene.
Beh, ma io non stavo scappando, non ne la mia testa, lì non lo avevo ancora ammesso.
Io me ne stavo solo andando.
Mi immaginavo che scappare avrebbe voluto dire calarsi dalla finestra con il favore delle tenebre. Io in fondo prendevo solamente l’uscio, andandomene alla luce del giorno, zaino in spalla, salutando la ‘madre’ di turno, e poi continuavo ad andare, fino a che non si accorgevano che sarei dovuto essere già di ritorno e invece non c’ero.
Il trucco era essere imprevedibile.
Per scappare, bisognava aspettare che abbassassero la guardia, che non si aspettassero che me ne volessi andare. Dovevo lasciare sbollire i moventi.
Avevo litigato con la ‘nuova mamma’ o con ‘il nuovo papà’ oppure avevo risposto male all’assistente sociale?
Il trucco era stringere i denti, aspettare una settimana, forse anche due, dipendeva, e poi arraffare lo zaino nascosto sotto il letto e sorridere mentre uscivo di casa, ‘ci vediamo dopo, buon lavoro, sì, certo, buona giornata anche a te, no, non è oggi il compito di chimica’.
Gli ci voleva più tempo così a rendersi conto che ero sparito.
- - -
Mi resi conto presto che il problema, quando vivevi da solo ed eri un adulto, era che non si poteva scappare di casa.
Me ne andai comunque.
Eppure con il corpo rimasi sempre lì.
Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga.
- - -
Mi ci volle parecchio tempo e parecchia più disintossicazione per arrivare a chiedermi se anche mio padre in fondo non se ne fosse voluto andare.
Prendere la porta e uscire.
E andare, invece che in un parco come me, a ChissàDove.
Fu il mio momento di chiarezza.
Che il mondo è tondo e se continui a scappare alla fine torni sempre al punto di partenza.
Me ne andai anche quella notte, nonostante sapessi che andare era futile e vano e non avesse senso e avrebbe buttato all’aria tutto.
Ma restare, quello non lo sapevo fare.
- - -
Perciò sono qui, ora, e mi guardo indietro e poi guardo anche avanti, e perché no, di lato sia a destra che a sinistra come se dovessi attraversare la strada, ma la strada non c’è più, non è neanche un sentiero nel parco, nemmeno una pista tra le fronde del bosco.
La strada è ChissàDove.
A forza di scappare e tornare al punto di partenza e continuare a girare in tondo come una bussola impazzite, le direzioni si sono confuse tutte e il paesaggio è sempre lo stesso.
Quanto schifo mi farò domani?
A destra la regia dice ‘parecchio’, a sinistra invece ‘un bel po’. In avanti ridono direttamente, come se la domanda fosse talmente banale da non meritare una risposta.
Dietro sollevano le sopracciglia con un ‘guarda che facevi già schifo prima’.
Che paesaggio di merda, in una strada di merda.
Ecco quello che so fare: come darmi alla fuga.
E direi che al momento mi è rimasta una sola direzione - e spero che non sia circolare anche quella.
Adesso andiamo giù.