Mar. 31st, 2020
Stressed out
Mar. 31st, 2020 08:48 pmCOW-T #10 - week7, m5 (warning:mental illness)
WC: 660 parole
Ci sarebbe voluto tempo per adattarsi.
L'Alaska era un posto freddo e lui era sempre stato abituato al clima caldo del New Mexico con i suoi deserti infiniti di terra brulla e cespugli aridi.
Era rimasto settimane in quel cottage sepolto dalla neve - lui che la neve non l’aveva mai vista prima, se non in televisione in uno di quegli stupidi film che ti raccontavano del Bianco Natale, uno di quelli che lui aveva smesso di guardare più o meno da quando i suoi genitori avevano smesso di considerarlo loro figlio.
Jessie - no, adesso non si chiamava più Jessie, ma non aveva davvero importanza - aveva scoperto di adorare la neve, bianca e incontaminata. La sensazione farinosa e fredda - gelida, in realtà - di quando gli si sgranava tra le dita e ricadeva a terra lasciandosi dietro solo le palme arrossate e brucianti delle sue mani.
Forse era perché la neve era perfetta per i fantasmi e lui se ne era portati dietro parecchi.
Spesso c’era Jane.
Jane con quel suo sorriso sghembo e gli occhi luminosi. Jane che non lo accusava mai di averla lasciata morire, di averla uccisa.
A volte c’era Andrea.
Andrea era… più difficile. Un proiettile in testa che era lì per causa sua. Jessie se la sognava di notte, solo che questa volta era lui a premere il grilletto e si svegliava in lacrime con una litania di “ti prego, perdonami, non volevo, non volevo, non morire, ti prego, perdonami, non volevo” ancora sulle labbra.
Andrea era più difficile, perché non sorrideva e nei suoi occhi c’era rimprovero e apprensione. E Brock? Chiedeva in silenzio.
Jessie cercava di non pensarci.
Molto più raramente arrivava il signor White.
Aveva la camicia macchiata di rosso, come l’ultima volta che l’aveva visto e per quanto Jessie sapesse di non c’entrare nulla con la sua morte, era anche il fantasma che faceva più male - perché era anche il fantasma che lo aveva ucciso, dopotutto.
Jessie Pinkman era morto quel giorno nel deserto, quando il signor White lo aveva dato in mano a Jack e Todd e quella banda di criminali con le svastiche tatuate sul collo.
Quando erano i giorni del signor White - i White Days, i giorni bianchi, quelli bianchi come la neve che lo circondava - Jessie non diceva ‘mi dispiace’.
Si erano distrutti a vicenda, in fondo.
A volte si chiedeva se non sarebbe morto prima senza averlo incontrato, fatto e bucato nel bagno di un’area di servizio con cazzi disegnati sulle porte e numeri di telefono di chissà poi chi davvero a offrire pompini a buon mercato. Non avrebbe messo la testa a posto, se non avesse incontrato il signor White, non davvero, Jessie non sperava nemmeno di riuscire a mentirsi.
A volte si chiedeva se non sarebbe stato meglio morire davvero in una squallida camera di motel piuttosto che passare tutto quello che aveva passato.
Jessie cercava di non pensarci troppo, perché forse la risposta non gli sarebbe piaciuta e nulla gli avrebbe impedito di portarla a termine. Certo, ora era in Alaska, ma chi poteva dire che nessuno lo avrebbe mai trovato? Chi poteva dire che un giorno qualcuno non avrebbe bussato alla sua porta per convincerlo a tornare ai fornelli? Chi poteva dire che non avrebbe ricevuto la testa mozzata di Brock in un pacco celere?
Il fantasma di Andrea si sarebbe messo a piangere e Jessie non lo avrebbe sopportato.
No, era meglio non rimuginare troppo in quegli angoli bui.
Era in Alaska, Jessie Pinkman era morto e la sua nuova vita era iniziata.
E non importava che fosse solo, che scattasse come una molla ogni volta che un cumulo di neve cascava, troppo pesante, dalla fronda di uno degli alberi fuori dalla sua baita, o che vedesse i fantasmi.
La sua nuova vita era iniziata e andava benissimo.
Certo, Jessie, hai ragione.
Se solo la voce del signor White non fosse stata sempre così condiscendente.
Meta all the way through
Mar. 31st, 2020 08:51 pmCOW-T #10 - week7, m5 (immagine 3 - panorama Roma)
WC: 1000 parole
- programma fic registrato parzialmente scritta e pensata prima del DPCM sul coronavirus - si ride per non piangere, suvvia -
Era una notte buia e tempestosa e Caterina aveva preparato le provviste.
La stufa a pellet ardeva lucente, riscaldando la soffitta che altrimenti sarebbe stato fredda, nonostante quell’inverno fosse stato particolarmente clemente, anche più del solito per essere un’inverno romano.
Caterina si allontanò dalla finestra e dall’aria fredda che passava comunque attraverso l’infisso, lasciandosi alle spalle la veduta dello skyline della città Eterna.
Era tempo di controllare che andasse tutto bene, prima che arrivassero le casiniste.
Connessione wi-fi? Check.
Patatine? Check.
Sottomarca di birra dell’Eurospin? Check.
Plaid? Doppio check.
Pizza da asporto rigorosamente consegnata da un fattorino con mascherina? Triplo check!
Ora mancavano solamente le ragazze e poi la festa avrebbe potuto avere inizio, probabilmente l’ultima a cui avrebbe partecipato se le voci che volevano che quella sera Conte avrebbe diramato un decreto anche per il resto d’Italia erano vere.
Caterina scacciò il gatto dal divano mezzo rotto che aveva recuperato in un robivecchi e pregò che Francesca e Margherita si ricordassero di mandarle un messaggio invece che suonare il campanello, perché altrimenti il cane dei vicini avrebbe cominciato ad abbaiare all’impazzata e non avrebbe smesso per le successive quindici ore.
Se questa piccola grazia le fosse stata concessa, Caterina sarebbe riuscita a passare sopra a tutto il resto, il fatto che fosse una notte buia e tempestosa, che le università fossero chiuse, che ci fossero ancora dei dementi che sparavano Achille Lauro durante le lezioni online, come se dopo cinque giorni lo scherzo non fosse già durato abbastanza, il fatto che la mail del magnifico rettore per quella sera non fosse ancora arrivata (come le mancava Bologna e cosa le era saltato in mente di rimanere a casa fin da Natale a studiare, che tanto l’ultimo esame che le mancava era a fine febbraio e adesso l’Unibo era chiusa e lei era bloccata a Roma) e, ahimè, che Eleonora fosse stata colta dall’ipocondria e al primo starnuto - 'Dio santissimo, sei allergica al polline, ci sono le margherite in fiore da due settimane, non hai il coronavirus!’ - avesse boicottato la serata.
Margherita suonò il campanello e Caterina maledisse tutti i santi perché lo stronzissimo pastore tedesco dei vicini aveva appena smesso di abbaiare per la scampanellata del fattorino della pizza.
Quasi quasi le veniva da piangere, e quando poi vide tra le mani di Francesca un gioco da tavolo dovette proprio trattenersi.
“Hai portato Pandemic?”
“Mi sembrava il gioco appropriato!”
Uh, sì, effettivamente cercare di salvare il mondo dalle malattie sarebbe stato anche appropriato - se solo quel gioco non fosse impossibile da battere e Francesca non avesse la sfiga immonda di riuscire a pescare la carta epidemia, tre volte di fila in cinque turni.
Se solo Caterina al momento non avesse avuto un amore per l’umanità pari a Plague, invece.
Alle spalle di Francesca, Margherita fece un gesto con la testa e sorrise, e Caterina aggrottò la fronte perché non era mai stata brava a comunicare senza parole.
Saltò fuori che la sorella di Francesca, Maria, aveva fatto un favore se non all’umanità almeno a Caterina e Margherita, e aveva fatto sparire metà delle carte città, così che il gioco fosse infattibile.
Se però Caterina doveva ringraziare la sua buona stella - per una volta - era un fatto risaputo che le sfighe non venivano mai sole e con un rombo di tuono e uno scroscio d’acqua, il wi-fi cedette le armi e si dichiarò sconfitto.
“E ora che facciamo se non possiamo guardare Netflix?” chiese Francesca.
“Da telefono?”
“Perché, tu hai abbastanza dati?”
Caterina scosse la testa.
“Sto partecipando al COW-T,” disse Margherita guardandosi le mani.
“Che fai tu con le mucche?”
“Ma che mucche, Cate, non ti ricordi? È quella sfida a squadre dove deve scrivere fanfiction a randella per vincere. Io mi ricordo, Marghe, vai avanti!”
“Beh, niente, pensavo che potremmo scrivere un po’. Il wi-fi non va, ma il computer sì, giusto? Io il tablet sempre in borsa. Possiamo fare a turni.”
“Io potrei usare carta e penna, sono alla vecchia.”
“Perfetto!”
“E poi te la rivendi per il COW-T?”
“Ovviamente!” Il sorriso di Margherita si aprì in un ghigno malefico.
Caterina - che al contrario delle altre due, accanite fanwriter, scriveva una volta all’anno quando le veniva l’ispirazione - ridacchiò. “Io ci sto, però dobbiamo scegliere un fandom comune. Non esiste che mi veniate fuori con roba strana tipo quelle robe superpsichedeliche che scrivi su Devilman Crybaby, che poi mi tocca di stare ad ascoltare mezz’ora di roba che non capisco.”
“D’accordo, cosa vuoi? Harry Potter?” chiese Margherita
“Boooring!”
“Dio, non scrivo su Harry Potter da mezzo secolo, una cosa più attuale no?” chiese Francesca, inarcando un sopracciglio.
“Stavo per proporre Sherlock! Fai tu!”
“E subito dopo, cosa? Merlin?”
“Cos’hai contro Merlin!”
“Game of thrones?”
“No,” intervenne Caterina, “tu hai letto i libri e ci infili dentro cose che non sappiamo e poi France non ha ancora finito la serie.”
“E allora proponi tu, qualcosa, ma che non sia uno di quegli anime che conoscete tu, l’autore e sua madre, eh!” alzò le mani Margherita.
“Quindi non c’è speranza che si voti per Ajin?”
“Dei del cielo, no! Ma una cosa più easy e cheesy tipo One Piece?”
“Ma dove lo vedi easy e cheesy One Piece?” Francesca era a un passo dall’offendersi.
“Solo perché tu sei bloccata a Marineford e non riesci a superare la morte di Ace, non significa che non si possano scrivere cose allegre e divertenti!”
“Ce l’ho!” Quasi urlò Caterina.
“Cosa?”
“Le originali, ragazze! Le originali! Come abbiamo fatto a non pensarci?”
“Ma le originali sono difficili!”
“E allora scrivi di quello che ti pare, ma cambia i nomi. Ma ricordati che deve essere comprensibile anche per noi se non conosciamo il fandom. Pensala come se stessi scrivendo la versione decente delle cinquanta sfumature.”
“Ci sta.” accondiscese Francesca, mentre Margherita annuiva. “Kudos se riconosci il fandom alla base, però!”
“Andata!”
“Bene allora, fuori gli strumenti di scrittura. Tra mezz’ora minuti si passa alla lettura.”
Unforeseen
Mar. 31st, 2020 08:55 pmCOW-T#10 - week7, m6 (Fili intrecciati del destino)
Wordcount: 341 parole
Why things would never happen as they should was a mistery to him.
Why was he always the recipient of such absurd occurrences was even more than a mistery.
Yes, yes, he knew, he knew he was the Chosen One and the Boy Who Lived so of course, if something had to happen it would happen to him.
But still, why every incident, accident and related fortuitous events where always related to him?
Bah.
Divination classes should have been a piece of cake. Should.
Why was should always the focal point?
Still.
Divination classes should have been a piece of cake.
Except of course, that particular lesson... well, it wasn't.
Threads of destiny professor Trelawney called them, and Parvati blushed and asked if there was a spell to actually know ones' soulmate.
As if soulmate ever existed.
No, Hermione would have scoffed at the notion of his soul being destined to fit perfectly with another one - she was more the type who thought a relationship should be built upon the little compromise not some starcrossed love - but again, Hermione was not attending this particular class.
Professor Trelawney said that yes, of course there was a spell, but it appeared that it seldom worked. Another way to say it was utter crap.
That didn't stop the girls from chuckling and gingerly asking if the professor could cast it.
Professor Trelawney looked more terrified and horrified at the idea than Harry was, but alas, her whole class now was very interested in soulmates and discovering theirs so she had to perform.
Harry knew deep down it wasn't a good idea.
He knew it.
But really, after defeating the Dark Lord, what could go wrong?
Yes, he should have known better than to even think that question.
It could be raining.
And thunder he heard for as soon as the spell was cast on the whole class and he could feel his forearm twitch and looking down he saw his soulmark.
Oh, fuck. Really?
The name on his wrist was 'Half-Blood Prince'.
Sic transit gloria mundi
Mar. 31st, 2020 08:58 pmCOW-T #10, week 7, m2
Prompt: Immagine 1 (ragazzo triste)
Wordcount: 433
La lapide è bianca e piena di fiori.
In retrospettiva non avrebbero dovuto rivelare al pubblico dove fosse, non che ci volesse un genio per capire che le sue spoglie mortali sarebbero rimaste a Godric’s Hollow, accanto a quelle di sua madre e suo padre, dove sarebbero dovute essere sedici anni prima, se solo…
Il funerale era stato pubblico, con tanto di fanfara e lacrime e lutto nazionale. Persino i Babbani si erano resi conto che qualcosa non andava. Aveva piovuto per giorni e a largo delle Highland c’era stato persino un uragano. I maghi non avevano mai avuto mezze misure in fondo.
Sarebbero dovuti essere felici, finalmente il Mago Oscuro più temibile della storia - se non si teneva in considerazione Grindelwald e Morgana la Fata e tutti gli altri maghi oscuri che avevano cercato di conquistare il mondo prima di Voldemort - era stato sconfitto.
Onestamente non era questo il finale che si era aspettato.
Per prima cosa non si aspettava di sopravvivere.
Il fatto era che negli ultimi quindici anni e poco più la sua intera esistenza era stata volta a riparare il più grande errore della sua vita e ora… ora si sentiva svuotato.
Sì, certo avevano sconfitto il Signore Oscuro, sì certo aveva vendicato la morte di Lily.
Ma tempo una ventina d’anni ed ecco che le linee si sarebbero sfumate e Voldemort non sarebbe sembrato poi così cattivo e forse in fondo proprio tutti i torti non è che li avesse, no? E ne sarebbe arrivato un altro, così come Voldemort aveva seguito Grindelwald che a sua volta aveva seguito qualcun altro.
La storia si ripete.
Severus avrebbe dovuto gioire, avrebbe dovuto essere soddisfatto di vedere Voldemort cadere. Ma non aveva riportato Lily in vita.
‘Non è che ti sei affezionato al ragazzo, Severus?’
Mai. Mai, eppure…
Eppure tenerlo in vita era stata l’unica cosa che aveva potuto fare. Per Lily, ma anche per sé stesso.
E ora stava guardando la sua lapide bianca piena di fiori.
A che prezzo avevano vinto?
Chi non aveva mai conosciuto il ragazzo avrebbe detto che una vita per salvarne migliaia era un sacrificio che andava fatto.
Severus chiude gli occhi.
No, non sarebbe dovuta andare così.
Lui sarebbe dovuto morire, il suo compito esaurito. E quello stupido ragazzino, Grifondoro fino al midollo, avrebbe dovuto tirare fuori un trucco dalla manica e sopravvivere.
Alas, la vita non è giusta e il mondo non funziona come nei libri.
Harry Potter era morto, martire suicida immolato per salvare il mondo magico da sé stesso, dal mostro che aveva generato.
Sic transit gloria mundi.
Severus caccia indietro le lacrime che non ha versato in diciassette anni, cercando di convincersi che non comincerà proprio ora.
Exchange Part A
Mar. 31st, 2020 09:03 pmBakuDeku
COW-T #10, w7, m7
PART A
Wc: 595 parole
Midoriya Izuku was very happy for the life he was living.
He was a normal guy, he had a good job - one that he really enjoyed, not one of those who wanted to make him bang his head against the headboard of the bed every morning as soon as the clock chimed -, a nice apartment and a loving, even if sometimes irritating, boyfriend to share it with.
That’s why when he woke up, ready to head for the morning meeting of the editorial staff of the journal where he worked, he would have never expected to see himself glowing green in the mirror.
“Kacchan!” Izuku shouted, slightly panicking. But he never heard his reply.
* * *
He opened his eyes just to close them again, shutting out the terrible sight. What had happened? He was surrounded by debris, it looked like a bomb had exploded, but it couldn’t be right? Was it a terroristic attack?
He didn’t recognize his bathroom in that wreckage. Has his building been completely destroyed? How was he alive then? And where was Kacchan?
Oh God, no, he needed Kacchan, he couldn’t be -
Izuku couldn’t even think about that possibility.
“Deku!” He heard his voice, and spin on the spot just to see his Katsuki running to him. “Were you hit?”
“Ka - kacchan! You are alive!” Then Izuku threw himself at him and hugged him.
“Yes, well, no need to be so sappy right now,” Bakugou patted him on his shoulder, realizing he was naked from the waist up.
“Where is -?” your costume?
He would have asked, but Izuku just took his head in his hands, squashing away his words, to looked him in the eyes. “I thought you were dead!”
Bakugou blushed. Deku was too damn close for his own good, and what was all that concern? They had been in worse situation and Deku was the one who had been hit by a quirk, not the other way around.
“Wait, is this the quirk effect? Is it affecting your mind?”
Too good to be true, thought Katsuki.
Izuku tilted his head, “What are you talking about? Quirk?”
“Shit! Memory loss? Do you remember who I am at least?”
“Of course I do, Bakugou Katsuki, you’re my boyfriend, we’ve been living together for years now, and I was just heading to the meeting to hand over my article over that new superhero movie, we watched it together, the one were they had All Might retiring just because the U.A. production couldn’t renew Yagi’s contract… too much money, and the movie obviously sucked, but why are we talking about that damn movie when our apartment has been razed to the ground?”
Bakugou in the meantime was still trying to recover from the ‘you’re my boyfriend, we’ve been living together for years now’, his brain in a slight short-circuit.
Wait, what.
He and Deku… no, never. Right? Never.
Well, not because of Katsuki of course, but… no, never. Not in this life.
Which maybe was exactly the point?
“Hold on a second!” Katsuki almost shouted.
“What?”
“What about your quirk?”
“My quirk? What does it matter now if I always talk or if I have to order by colour our socks now?”
“No, no, quirk as in… superpower?”
“Kacchan, are you sure you aren’t the one who hit his head?”
In reply Katsuki showed him his palms and made some glycerin explode.
“What -? What’s the trick? When did you learn it?”
“No trick. It’s my quirk. I think… I think you are not my Deku.”
Exchange Part B
Mar. 31st, 2020 09:03 pmBakuDeku
COW-T #10, w7, m7
PART 2
Wc: 516
“Kacchan!” Izuku shouted from the toilet and there was panic in his voice, so Katsuki scrambled to his feet.
What was it? A spider again?
But when he looked in the toilet his heart stopped.
His boyfriend was covered in dirt and there was a cut on his cheek and blood dripping from his chuckles and he was wearing some awful green jumpsuit he had never seen before in his life and surely he hadn’t on when he had gone in the toilet ten minutes before wearing only his pajama’s pant.
“Deku? What the fuck? Are you hurt? How are you even dressed?”
Izuku shook his head, as if trying to make some order in his head. “Kacchan?”
“Yes? Who the fuck where you expecting? Godzilla?”
“Who?”
“Did you hit your head?”
“I - no. I don’t think so. Why are you half naked? Are we in a hospital?”
“Why should we be in a hospital? You are worrying me, Deku.”
“I’ve been hit by a quirk - I -”
Bakugou just took him by his arm, and gently pulled him, maneuvering him out of the bathroom and into a bedroom.
“Deku, I need you to breath and let me check your reflexes,” he said and helped him to sit on the bed.
In a daze, Izuku let him.
He didn’t know what was happening, where he was, and why Kacchan was behaving so weirdly.
Katsuki pulled out a light and pointed it in his eyes, letting put a relieved breath as Izuku’s pupils shrinked to the size of pins.
“Follow my finger,” he asked and Deku complied even if he was sure he hadn’t hit his head and couldn’t possibly have a concussion.
“Ok, your head seems fine,” Katsuki said and placed a kiss on his forehead.
Deku is so shocked he can’t even move and simply stares as Katsuki walks to the bathroom to retrieve some alcool.
It must be the quirk fault. He’s trapped in his own head or he has been sent to another dimension, because surely this isn’t his Kacchan.
He takes in the room, the used bed, sheets thrown everywhere, proof that two people have slept there. The dresser with too many clothes for only one person.
The pictures framed on the bedside tables, where a carefree version of himself - one that he never was, because this has never happened - is kissing Kacchan and Kacchan is smiling back at him and not trying to kill him.
“Here, let me tend your hand. How did you hurt yourself so bad, though? Did you fall?”
Izuku shakes his head and Katsuki looks at him suspicious.
“Kacchan… I think - I’m not crazy, I swear, but I think this is not the universe I’m supposed to be.”
It takes him a proper demonstration on the existence of his own quirk to convince him to call sick at work and have Kirishima take his shift at the hospital, but then Katsuki is ready to help him out.
The worst thing is, Izuku is not so sure he really wants to go back.
ChissàDove
Mar. 31st, 2020 11:09 pmCOW-T #10 (week 7, m4) - prompt: warning:violence
Prompt di scorta week3 - J2) immagine
Wordcount: 1600
Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga.
Dopotutto lo avevo fatto per tutta una vita.
Avevo iniziato a otto anni, uno zaino della sopravvivenza che contava una bottiglia d’acqua da mezzo litro, dieci pacchetti di cracker e un kit-kat.
Mi ero sentito così fiero di me stesso allora, come se quelle provviste potessero durarmi più di un giorno. Ma avevo otto anni e mi ero sentito particolarmente previdente.
Scappare di casa era stato facilissimo, restarne fuori molto più problematico. Faceva freddo, perché non avevo preso la giacca, stupidamente considerando che, visto che mia madre mi ricordava in continuazione di farlo, ora che lei non sapeva che me stessi andando avrei potuto non farlo.
A mia discolpa, ripeto che avevo otto anni.
Comunque fece freddo e mi pentii di non aver preso la giacca.
Così tornai a casa.
La mia fuga era durata esattamente cinque ore e ventidue minuti.
Mia madre non si accorse di niente, ovviamente, perché tornai a casa fingendo di essere andato a scuola. E la cosa finì lì.
No, mi correggo la cosa sarebbe dovuta finire lì. Avrei dovuto disfare lo zaino e dimenticarmi di quell’idea balzana di andarmene a vivere nei boschi solo perché avevo letto “La bambina che amava Tom Gordon” e pensavo che io in realtà in quei boschi avrei potuto viverci e non sarei stato altrettanto inetto. I boschi sarebbero diventati la mia casa, avrei addomesticato le belve feroci e, quando mi fossi stancato di fare l’eremita sarei ritornato a casa, novello Tarzan delle scimmie, a cavallo di un giaguaro per riparare tutti i torti della mia vita, principe azzurro dall’inusuale - ma molto più scenografica - cavalcatura.
A mia discolpa, continuo a ribadire che avevo otto anni - ed ero un bambino particolarmente stupido. Fuggii al parco pubblico e cavalcai l’altalena a molla le cui pareti rappresentavano la testa di un elefante.
Le cose che facciamo da bambini.
La seconda volta presi la giacca, e i fiammiferi, perché mi ero reso conto di non avere la minima idea di come creare una fiamma solo con un bastoncino di legno e forse sarebbe stato più utile avere una fiamma a portata di mano invece che perdere prezioso tempo per imparare a farlo. Avevo preso anche il coltellino svizzero di mio padre, quello dal manico rosso, che si apriva di scatto e rivelava una lucente lama metallica dal bordo affilato. O un cavatappi puntuto che sembrava minacciare di cavarti gli occhi se solo lo avessi osservato abbastanza a lungo.
Rimasi fuori più tempo quella volta, tredici ore e trentasette minuti.
Avevo undici anni allora e ancora nessuno si accorse della mia sparizione. E come potevano?
Mamma era svenuta in bagno, dove si era chiusa a leccarsi le ferite. Papà era sparito a ChissàDove - un luogo che mamma chiamava con disprezzo, quasi sputandolo tra i denti serrati, e che per me aveva sempre avuto un aura di mistero dal momento che tutte le volte che mio padre vi andava tornava conciato in maniere diverse, ma sempre con l’alito dolce e pungente, che aveva lo stesso odore della bagna per dolci che mamma usava per fare la zuppa inglese.
Anche quella volta mi rifugiai in un parco - non lo stesso dell’altra volta, perché insomma, non avevo più otto anni, e sapevo benissimo che quel microscopico appezzamento che nemmeno poteva essere chiamato parco non mi avrebbe nascosto di nuovo. Il parco che scelsi quella volta era più grande, e più grandi erano i ragazzi che lo frequentavano. Adolescenti dalle braghe larghe, che fumavano (forse) sigarette rollate a mano, ridendo sguaiati e imprecando come scaricatori di porto.
No, stonavo tra quella gente, seduto compitamente su una panchina scrostata con disegni di genitali in uniposca nero sulle doghe di legno marcescente.
Tornai a casa senza troppe remore, convinto che la scena sarebbe stata sempre al stessa.
Ma mamma non era in bagno e papà non era ChissàDove.
Papà era in casa e da ChissàDove doveva esserci tornato da poco perché il suo alito puzzava davvero ancora di alchermes - rum, avrei scoperto da più grande, ma che importava la qualità del veleno?
Si era accorto che il coltellino svizzero mancava. E visto che mancava ne aveva usato uno da cucina, uno di quelli grossi che mamma usava per tagliare le carote in tante rondelle sottile, con quelle mani che volavano sul tagliere come quelle di una grande chef, senza mai ferirsi.
Quella lama non aveva mai tagliato carne prima d’ora, mai assaggiato il sapore del sangue, perché mamma era veloce, ma attenta, e non si era mai tagliata. Mai, prima di quel momento.
Hai visto cosa mi hai fatto fare? Aveva chiesto mio padre, e si era voltato verso di me e mi aveva dato una sberla, talmente forte il mio collo aveva scricchiolato e per un istante avevo pensato che la mia testa sarebbe rotolata via.
Poi era arrivato il bruciore, forte come un ferro arroventato dove la palma e le cinque dita si erano imprese sulla mia guancia.
Dove cazzo lo hai messo, eh? Aveva detto e mi aveva strattonato la giacca e aveva chiuso la mano intorno alla cinghia dello zaino e aveva tirato e avevo sentito il rumore dello strappo della tela cerata.
Avevo barcollato all’indietro, lasciando andare la mia ancora di sopravvivenza e lui l’aveva squarciata, aprendola con foga. La cerniera rossa adesso sembrava un ferita sanguinolenta e slabbrata, dopo essere stata aperta con tanta violenza.
Aveva svuotato il contenuto sul pavimento. I cracker e l’acqua e le merendine e i fiammiferi. Era tutto rotolato fuori come terreno franato da una montagna. E poi aveva afferrato la plastica rossa con il cerchio bianco sopra e la croce rossa incastonata dentro e l’aveva fatto scattare.
Adesso ti insegno io a prendere ciò che non è tuo.
- - -
Avevo sempre uno zaino pronto, sempre sotto il letto, cracker e acqua e fiammiferi e un coltellino svizzero dal manico nero e nessuna croce rossa su campo bianco dipinta sopra. E soldi. Una cosa l’avevo imparata. Senza soldi non vai da nessuna parte.
Me ne andai di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Me ne andai dalla signora Galloway.
Me ne andai dai cognugi Rizzoli.
Me ne andai dalla casa famiglia in cui mi misero e dalla famiglia affidataria a cui mi affibbiarono e dalla seconda casa famiglia in cui mi misero.
Me ne andai e me ne andai e me ne andai.
Non lo dissi allora cosa facevo, anche se furono gli altri a dirmelo.
È scappato di casa di nuovo, quel ragazzo! Non sappiamo proprio che farcene.
Beh, ma io non stavo scappando, non ne la mia testa, lì non lo avevo ancora ammesso.
Io me ne stavo solo andando.
Mi immaginavo che scappare avrebbe voluto dire calarsi dalla finestra con il favore delle tenebre. Io in fondo prendevo solamente l’uscio, andandomene alla luce del giorno, zaino in spalla, salutando la ‘madre’ di turno, e poi continuavo ad andare, fino a che non si accorgevano che sarei dovuto essere già di ritorno e invece non c’ero.
Il trucco era essere imprevedibile.
Per scappare, bisognava aspettare che abbassassero la guardia, che non si aspettassero che me ne volessi andare. Dovevo lasciare sbollire i moventi.
Avevo litigato con la ‘nuova mamma’ o con ‘il nuovo papà’ oppure avevo risposto male all’assistente sociale?
Il trucco era stringere i denti, aspettare una settimana, forse anche due, dipendeva, e poi arraffare lo zaino nascosto sotto il letto e sorridere mentre uscivo di casa, ‘ci vediamo dopo, buon lavoro, sì, certo, buona giornata anche a te, no, non è oggi il compito di chimica’.
Gli ci voleva più tempo così a rendersi conto che ero sparito.
- - -
Mi resi conto presto che il problema, quando vivevi da solo ed eri un adulto, era che non si poteva scappare di casa.
Me ne andai comunque.
Eppure con il corpo rimasi sempre lì.
Ecco cosa sapevo fare: come darmi alla fuga.
- - -
Mi ci volle parecchio tempo e parecchia più disintossicazione per arrivare a chiedermi se anche mio padre in fondo non se ne fosse voluto andare.
Prendere la porta e uscire.
E andare, invece che in un parco come me, a ChissàDove.
Fu il mio momento di chiarezza.
Che il mondo è tondo e se continui a scappare alla fine torni sempre al punto di partenza.
Me ne andai anche quella notte, nonostante sapessi che andare era futile e vano e non avesse senso e avrebbe buttato all’aria tutto.
Ma restare, quello non lo sapevo fare.
- - -
Perciò sono qui, ora, e mi guardo indietro e poi guardo anche avanti, e perché no, di lato sia a destra che a sinistra come se dovessi attraversare la strada, ma la strada non c’è più, non è neanche un sentiero nel parco, nemmeno una pista tra le fronde del bosco.
La strada è ChissàDove.
A forza di scappare e tornare al punto di partenza e continuare a girare in tondo come una bussola impazzite, le direzioni si sono confuse tutte e il paesaggio è sempre lo stesso.
Quanto schifo mi farò domani?
A destra la regia dice ‘parecchio’, a sinistra invece ‘un bel po’. In avanti ridono direttamente, come se la domanda fosse talmente banale da non meritare una risposta.
Dietro sollevano le sopracciglia con un ‘guarda che facevi già schifo prima’.
Che paesaggio di merda, in una strada di merda.
Ecco quello che so fare: come darmi alla fuga.
E direi che al momento mi è rimasta una sola direzione - e spero che non sia circolare anche quella.
Adesso andiamo giù.