Feb. 23rd, 2021

Occaso

Feb. 23rd, 2021 04:56 pm
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COW-T #11 (w3, m4): Città di notte

Ti porto in un posto, dice e tu non puoi fare nient’altro che annuire, la gola secca e l’alcool che ti dà alla testa. Hai bevuto un po' troppo, puoi ammetterlo, e forse ti si è sciolta un po' troppo la lingua, ti sei lasciata andare con questo affascinante sconosciuto.
 

Hai detto che ti piacerebbe vivere un’avventura, no? Allora vieni, ti porto in un posto, dice e tu mormori a mezza voce che probabilmente lo conosci già, che vivi in questa città da una vita e la conosci come il palmo della tua mano. 

Ma la città di notte è diversa, dice lui e un brivido ti corre lungo la schiena.

La città di notte è un labirinto, una serie di vicoli che sembrano tutti uguali, perché tutti i gatti sono grigi di notte e la luce dei lampioni è talmente fioca che distinguere tra un lastricato di sanpietrini e un asfalto pieno di buche è possibile solo con le piante dei piedi. 

Si finisce male così, ad accettare la mano di uno sconosciuto e farsi portare ‘in un posto’ lo sai, si finisce sui giornali, si finisce in un bidone della spazzatura in almeno in tre sacchi diversi, scovate da un barbone che cercava cartoni per ripararsi dal freddo della notte o rovistate da un gatto che aveva sentito odore di sangue. 

Però. 

Però c’è il brivido dell’ignoto che ti risale lungo la colonna vertebrale, paura e desiderio. 

Ti porto in un posto che non hai mai visto, e anche se ci sei già stata non lo hai mai visto così, andiamo ad esplorare, dov’è il tuo coraggio? e tu sorridi con poca convinzione, ti lasci prendere la mano e trascinare lungo una strada di cui pensavi di conoscere il nome, ma quando sollevi lo sguardo sul cartello bianco smaltato in blu quello non è il nome che ti aspettavi di vedere. 

C’è qualche problema? chiede. 

Tu scossi la testa, Pensavo di essere in un altro punto della città.

Perché, in che punto siamo? 

Ma il nome che hai letto qualche istante prima ti sfugge di mente, non lo ricordi affatto, nemmeno riesci a visualizzarlo - le lettere non sono altro che un branco di formiche azzurre che si muovono e cambiano forma sotto i tuoi occhi e c’è qualcosa che non va, lo sentivi da prima, prima che cascasse il crepuscolo e sigillasse la città nell’oscurità, ma non hai dato retta a quel sesto senso che ti diceva di scappare, tornare a casa e metterti al sicuro sotto una coperta calda. 

Continui a camminare, lo segui come se la sua presenza illuminasse la strada abbastanza per compiere un altro passo, perché altrimenti ti saresti già fermata, inghiottita dalle ombre, paralizzata a decifrare cartelli che hanno perso di significato. 

Coraggio, andiamo, è un avventura.

Dove? chiedi, Dove stiamo andando esattamente? 

Qui. 

Ti guardi in torno, lui non smette di camminare e tu non smetti di arrancargli dieto. 

Qui? 

In città.

Siamo già in città, pensavo avessi una meta un po' più precisa in mente. 

La nostra meta è l’alba, sciocchina. Chi si ferma prima è perduto. 

 

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COW-T #11 (w3, m4): Edificio abbandonato


Il cancello era aperto e così lei era fuggita. 

Doveva essere stata una dimenticanza, perché non c’era mai stata una volta che il cancello fosse aperto e loro non fossero lì, pronti ad osservarla, pronti a fermarla se avesse deciso di andarsene - e lei ormai aveva cominciato a perdere le speranze. 

Invece era accaduto e lei era rimasta a fissare quel quadrato di libertà, quella assenza improvvisa di sbarre, una soluzione di continuità inaspettata. Poteva azzardarsi? 

Si era guardata alle spalle e aveva fatto un cauto passo in avanti e poi un altro. 

Quando non aveva sentito voci intimarle di fermarsi, quando nessuna mano era arrivata ad afferrarla e trascinarla via, lei si era lanciata fuori e aveva cominciato a correre, solo per il gusto di poterlo fare. 

Aveva seguito la strada che si dipanava tra i campi, restando sul ciglio pur preferendo l’erba morbida all’asfalto ruvido e duro, cercando di carpire con lo sguardo tutto il resto del mondo che si trovava al di fuori della sua solita portata, fino che non aveva visto una farfalla volteggiare a poca distanza dalla propria testa e questa, per una volta, aveva potuto seguirla.

Le spighe di grano le frusciavano contro i fianchi, tanto alte che rischiavano di finirle negli occhi, ma non le importava. La rugiada del mattino le aveva bagnato il naso, le si era infilata tra le ciglia e lei aveva sentito per la prima volta la libertà. 

Aveva corso fino a che non le era mancato il fiato, fino che i polmoni non avevano cominciato a bruciarle in petto e la gabbia toracica a sembrarle troppo stretta e allora, solo allora, si era lasciata cadere a terra, da sola nel mondo in mezzo a quel campo di grano, la farfalla completamente dimenticata. Si era rotolata tra le spighe e gliene erano rimaste parecchie incastrate addosso, ma non importava. Ne aveva spazzata via una particolarmente fastidiosa vicino all’orecchio e poi si era tirata in piedi e aveva ricominciato a correre. 

Aveva sentito un odore strano e aveva tentato di seguirlo. 

Era strano ed era ovunque e non era facile, ma dopo essersi lasciata alle spalle le spighe di grano, avviluppato da edera incolta, l’edificio le si era parato davanti, fatiscente e abbandonato, con i suoi cardini cigolanti da cui pendeva quello che una volta era stata un portone di legno. 

Vi si era avvicinata cauta, un passo alla volta, pronta a fuggire al minimo segno di pericolo, ma pericoli non sembravano esservene perché tutto era silenzioso attorno a lei. 

Le grandi finestre erano vuote, assi divelte, schiarite dal sole prima e mezze marcite dal tempo e dalla pioggia poi, ma nelle orbite vuote di quelle al pian terreno stava accovacciato un gatto. 

Aveva fatto un passo verso di lui e quello l’aveva guardata e aveva scossato la coda guardingo. 

Lei non sapeva cosa volesse dire quel gesto e aveva fatto per avvicinarsi di più.

Il gatto aveva spalancato le fauci, rosse di sangue e aveva soffiato, stringendo tra gli artigli quella che doveva essere la carcassa di topo, ma che ormai era soltanto un ammasso sanguinolento. 

Lei non aveva fame, no affatto, in ogni caso, il gatto avrebbe potuto essere più amichevole, per cui con uno sbuffo decise di ignorare l’avvertimento. 

Il gatto le aveva soffiato ancora, poi vedendo che non si sarebbe fermata, aveva raccolto tra le fauci la carogna ed era scappato dentro. 

Lei lo aveva seguito, aveva salito l’ampia scalinata che portava al portone divelto saltando due gradini alla volta e quasi scivolando lungo il marmo ricoperto di escrementi di uccelli che dovevano aver fatto il nido tra le tegole cadenti. 

L’ampio atrio non recava tracce del gatto e lei quasi aveva pensato di tornare fuori, che il campo di grano era più allegro e divertente. Però ci poteva essere altro da vedere, chissà cosa si poteva nascondere dietro quelle porte semi aperte in quel lungo corridoio. 

Aveva spinto con tutto il proprio corpo la prima porta, perché in quella stanza poteva trovarsi il gatto, dopotutto aveva sentito un rumore, e il legno aveva ceduto, scivolando sui cardini con un rumore sinistro. Non era chiusa a chiave e lei era entrata - non si era preoccupata delle scrivanie abbandonate, delle sedie impilate negli angoli, degli stucchi scrostati e dei muri che cadevano a pezzi. 

Aveva percorso la stanza, ma il gatto non c’era, così se l’era lasciata dietro senza nemmeno voltarsi a guardarla. Aveva altro di meglio da fare. 

Era stata metodica nell’esaminare e cercare in ogni stanza, era salita persino al piano di sopra, - arrischiandosi lungo le scale pericolanti, anche se lei non pesava abbastanza per far cedere il legno - ma del gatto non vi era traccia. Aveva trovato un nido di uccelli, però, piccioni dalle piume lucide e dalle uova bianche, ma era troppo in alto perché lei potesse saltare e guardare meglio. 

Le era venuta fame ad un certo punto, perché non aveva fatto altro che correre tutta la mattina, ma non c’era nulla di commestibile in quel posto e per di più l’acqua che aveva provato a bere da una pozza sapeva di fango e muffa. Non era stata schizzinosa, ma all’improvviso aveva cominciato a mancarle casa. 

Si chiese se sarebbe stata in grado di tornare, se persa come si era dietro mille distrazione, avrebbe potuto riconoscere la traccia per ritrovare la strada di casa. Le faceva un po’ paura l’idea e poi si sentiva sola, non era mai stata così tante ore senza la compagnia di qualcuno.

Aveva percorso le scale a ritroso, ed era rimasta a fissare il corridoio, buio ora che la luce del pomeriggio aveva cambiato le ombre agli oggetti. 

E se il gatto fosse stato in agguato? 

Improvvisamente da inseguitrice era passata a sentirsi inseguita e la cosa la spaventava a morte, le faceva rizzare i peli. 

Poi da fuori era giunto un grido e lei aveva alzato la testa, cercando di captarlo meglio.
Il grido era venuto di nuovo, una parola urlata, un suono che era il suo nome! E lei - lei conosceva quella voce! 

Così si era lanciata lungo il corridoio, incurante del gatto perché quella voce dal gatto avrebbe potuto salvarla e si era lanciata giù dalla scalinata, cercando di raggiungerla il più in fretta possibile. Questa volta era riuscita a scivolare davvero e gli ultimi due gradini le avevano colpito la pancia, facendola guaire di dolore. 

Il rumore però doveva aver attirato la voce, perché continuava a sentir urlare il proprio nome, ma era sempre più vicino.
Si era tirata su, ignorando la botta, e poi eccola lì, la proprietaria della voce. 

L’umana le si era parata davanti - il suo personale cavaliere, senza cavallo bianco - pronta a salvarla e lei le era corsa incontro, raggiante di gioia, con la coda che non riusciva a stare ferma, incurante se le sarebbe toccata una sgridata. 

L’umana invece era caduta in ginocchio e l’aveva abbracciata, stringendosela contro il petto. 

“Oh, mio Dio, non farlo mai più!” Aveva detto e se anche lei non aveva capito le parole, se non altro ne aveva compreso il senso. 

Lacrime calde erano scese a bagnarle la testa e lei aveva sollevato lo sguardo per guardare meglio l’umana. Quella aveva fatto un verso strozzato e lei non aveva potuto fare altro che leccarle il muso, inseguendo il sapore salato dalle guance fino agli occhi nel tentativo di fermarlo.

L’umana se l’era caricata in braccio e lei l’aveva lasciata fare, anche se odiava essere trasportata così e preferiva di gran lunga camminare da sola, ma si rendeva conto che in quel momento non poteva esattamente cercare di dire la propria.

Mettendosela in equilibrio su una spalla, l’umana aveva stretto l’oggetto scintillante che aveva in mano e se lo era premuto all’orecchio, dicendovi qualcosa dentro. Gran parte di quei suoni per lei non avevano significato, ma non importava. 

Andava tutto bene. Sarebbe tornata a casa. 




“L’ho trovata! Era nel vecchio municipio abbandonato. Sì, Dio mio, puoi smettere di cercare e venire a casa. Questo cane mi farà venire i capelli bianchi e morire giovane!” 

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 COW-T #11 (week3, m1):  Age gap 

(Benoit Blanc, 51 anni, Marta Cabrera, 31 anni - età degli attori durante il film, perché non ho la più pallida idea di che età si supponga che abbiano)




Marta cammina avanti e indietro nei corridoi deserti della casa troppo grande, e i suoi passi rimbombano tetri. 

Non c’è nessuno in casa a parte lei, perché sua sorella è a scuola e sua madre si rifiuta di lasciare il lavoro anche se adesso hanno abbastanza soldi per potersi permettere di comprare l'intera villa dove va a fare le pulizie in nero per una miseria. 

Il punto è che forse Marta dovrebbe fare la stessa cosa, cercarsi un altro lavoro, anche se non ne ha più davvero bisogno, perché dopotutto lei la sua laurea in Infermieristica ha sudato per prendersela, e per di più non è esattamente tipo da starsene con le mani in mani. 

Solo che il suo nome adesso è sulle pagine di tutti i giornali e Marta non può certo andare di casa in casa a fare colloqui con gente che la riconosce come la ragazza a cui il vecchio Thromby ha lasciato tutto. Sa come funziona il mondo, cosa dicono le malelingue di lei, e sicuramente nessuno correrebbe il rischio di assumere una che 'va a letto con il nonno pur di farsi intestare la casa', no tante grazie, preferiscono tenersi stretti l'eredità. Così Marta non ha nemmeno tirato fuori il curriculum dal cassetto. 

Però adesso si ritrova a percorre quelle stanze vuote come un fantasma che abbia deciso di infestare quella villa nemmeno troppo antica, senza nemmeno poter muovere un piatto o spolverare un mobile perché quello è il compito della servitù - servitù che non le serve, non così tanta per lo meno, ma Marta non può licenziare in tronco cameriere e valletti che conosce da anni solo perché è perfettamente in grado di passare l'aspirapolvere da sola. 

Marta fissa lo schermo del cellulare, quello ancora rotto che non vuole cambiare, ma che dovrebbe almeno portare a riparare e si chiede che dovrebbe fare. Forse ha solo bisogno di un consiglio, uno che non venga da sua madre o da una persona che paga perché gli dica se sia meglio pagare la retta di Meg in assegno o bonifico circolare. 

"Ho il presentimento che seguirà il suo cuore," erano state le ultime parole di commiato di Benoit Blanc e la ragazza non aveva smesso di pensarci da allora. Il suo cuore diceva una cosa molto stupida al momento. 

Marta lo avrebbe seguito lo stesso. 



La pelle di Marta è coperta da una leggera patina di sudore e Benoit sente il sale sulla lingua e il profumo del sapone alla vaniglia nelle narici, mentre le bacia il collo. 

Benoit è sempre stato un uomo intelligente - ça va sans dire, in un ambiente lavorativo come il suo - per cui non gli dovrebbe essere così difficile capacitarsi di come sia finito in una situazione nel genere, a letto con una ragazza così giovane e bella, lui che oramai ha raggiunto la mezz’età e ha messo su quel filo di pancetta che lo declassa da ‘scapolo ricercato’ a ‘fuori dal mercato’- o almeno così credeva. 

Il corpo di Marta freme sotto il suo e la ragazza gli infila le mani tra i capelli, tirandolo verso di sé per poterlo baciare. 

Certo, alla mente gli vengono mille spiegazioni razionali, mille scenari, sporcati da un velo di cinismo che il detective riconosce come proprio, ma che stride in maniera evidente con la situazione. Benoit non è un uomo prono ad illudersi, sa perfettamente come funziona il mondo, ma Marta non è lì con lui per un mal riposto senso di gratitudine - per averle creduto, per non averla arrestata, per averla difesa da quel branco di avvoltoi pronti a spillare sangue.  

Per qualche strano motivo, Marta lo trova affascinante di per sé.

Aveva bussato alla sua porta senza nemmeno avere un’appuntamento - aveva soppiantato, per la verità, l’appuntamento delle dieci - e lui era stato talmente sorpreso dalla sua presenza che non aveva potuto fare altro, dopo aver aperto e chiuso la bocca come un pesce, che limitarsi a dire, “Lei non è il signor Hawthorne.” 

“No, non lo sono. Le ho già detto che lei è un po’ scarso come detective?” La ragazza gli aveva sorriso e Benoit aveva sorriso di riflesso, riportando alla mente la conversazione. 

“Sì, e io le ho detto che lei è un po’ scarsa come omicida.” 

Forse ci meritiamo a vicenda, le aveva anche detto, ma lì sulla soglia di casa sua, non era riuscito a ripeterlo. Avrebbe avuto un altro significato.

“Posso esserle utile in qualcosa?” aveva chiesto invece. 

“Le andrebbe di andare a prendere un caffè?” 

Benoit, da persona estremamente razionale qual era, aveva controllato l’orologio, visto che il signor Hawthorne sarebbe stato lì tra venti minuti e quindi prima di afferrare il cappotto con un ‘aveva in mente un posto in particolare?’ e chiudersi la porta alle spalle, si era preso il tempo per disdire. 

Per cause di forza maggiore mi trovo a dover rimandare il nostro appuntamento. Le telefonerò non appena possibile per fissare un’altra data.  

Cause di forza maggiore. 

Marta. 

Marta che sospira e si stringe a lui, chiude le gambe intorno alla sua vita e Benoit vorrebbe tanto non sentirsi di nuovo un adolescente alle prime armi quando le sue mani incespicano sul gancetto del reggiseno. 

La ragazza sbuffa divertita, si solleva sui gomiti quel tanto che basta per infilare le mani dietro la schiena e aiutarlo, con la disinvolta pratica di chi compie quel gesto tutti i giorni. 

“Mi dispiace,” Benoit distoglie lo sguardo, inadeguato ecco come si sente, perché per quanto lo voglia non è sicuro che sia giusto che lui sia lì, ma Marta gli prende il volto tra le mani e lo obbliga a guardarla. 

“Non fa niente,” sorride e Benoit sa che non gli sta rifilando la solita frase di cortesia, già rimpiangendo di averlo invitato a salire e sperando che si levi di torno il più in fretta possibile.  È  costretto a credere che Marta lo voglia davvero lì, anche se non ha senso, anche se potrebbe avere chiunque altro, perché Marta non può mentire. 

Le sue dita agganciano la spallina e la fanno scivolare giù, le accarezzano il braccio, la spalla, percorrono lievi la linea della clavicola e il fiato di Marta le si spezza in gola, l’anticipazione nei suoi occhi. Benoit sfiora il livido violaceo sul suo petto, all’altezza del cuore, dove il coltello di scena l’ha colpita, nel punto in cui Ransom avrebbe piantato una lama se solo la lama non fosse stata creata per cedere alla pressione. Ci vuole una certa forza per conficcare un pugnale attraverso pelle e muscoli, fasci di connettivo e vasi sanguini, per raggiungere il cuore - o, più facilmente, un polmone, - una certa forza che ha lasciato un’impronta scura di capillari rotti, della stessa dimensione e forma dell’elsa. 

“Avresti potuto morire,” gli cade dalle labbra senza che nemmeno se ne sia accorto.
“Ma sono qui.” 

“E io?” 

“Cosa?”

“Perché sono qui, io?” 

“Preferiresti essere da un’altra parte?” 

“Marta…” 

“Sei l’unica persona che mi ha guardato e non ha visto quello che voleva vedere.”

“È il mio lavoro.” 

“Allora lo fai dannatamente bene.” 

Marta lo bacia ancora e ci riesce, sì che ci riesce a fargli dimenticare quanti anni abbiano, quanto sia inappropriato prima del processo, anche se hanno le prove e una confessione, ma non dovrebbero comunque compromettersi così. 

Marta lo stringe contro di sé e non lo lascia andare e “Avrei potuto morire,” dice alla fine, quando le lenzuola sono stropicciate e le coperte si appiccicano alla loro pelle e Benoit comincia a chiedersi se dovrebbe alzarsi, rivestirsi e andarsene o se può sperare… 

“Ma sei qui.” 

“E sono viva. Tu mi fai sentire così dannatamente viva…” la sua voce si spegne, non dà seguito ai pensieri che le frullano in testa. 

Benoit rimane in silenzio, la lascia riflettere, perché non ha diritto a nulla. 

“Mi spaventa tutto questo, Benoit,” e lui cerca di non concentrarsi sul suo nome, su come il suono esca dalle sue labbra, sul fatto che sia la prima volta che lei lo chiama così, al di fuori dell’impeto della passione. “È troppa responsabilità, io sono solo un’infermiera.”
“E non hai fatto nulla per meritarti tutto questo. È questo che pensi, giusto?” 

“Sì.” 

“Magari è vero. Ma nemmeno i Thromby.” 

“Non dovresti dirmi che mi sbaglio?” 

“Servirebbe?” 

Marta mette il broncio - dura qualche istante, perché lei non può mentire nemmeno con il corpo,  prima che lei scoppi a ridere, “No. No, hai ragione.” 

“Come sempre.”
“Modesto.”
“Ti piaccio così,” Benoit dice e poi trattiene il fiato, aspettando una risposta - una negazione. 

“Già,” Marta gli passa una mano tra i serici capelli biondi, “Adesso dovresti crederci pure tu.”

“Forse ho bisogno solo di essere convinto un po’ di più.” 

Marta solleva un sopracciglio, “Io ho l’agenda libera, Detective Blanc. Pensa di poter trovare un po’ di tempo per farmi perorare la mia causa?” 

Benoit è sempre stato un uomo intelligente - abbastanza da sapere che non sempre gli esseri umani sono razionali, che non sempre scelgono la cosa più giusta e Marta sarà pure giovane, tanto giovane, ma è pur sempre un’adulta e se lei ha deciso che Benoit, per qualche oscura ragione, vada bene, lui non è proprio nessuno per decidere al posto suo. 

Mais ça va sans dire.” 


(“No tengo la mas minima idea de lo que dijiste,” Marta gli risponde e sì, d’accordo, touché. Dopotutto lui non ha mai detto che le proprie di ragioni fossero oscure.) 

 

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