Mar. 1st, 2022

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Cenerentola (2021) 

Principe Robert/Conte Wilbur (one-sided, unrequited) 

COW-T #12, w3, m2: Good riddance (Time of your life) - Green Days 


Tattoos of memories, and dead skin on trial

For what it's worth, it was worth all the while



È tutto sbagliato, Wilbur si dice, ma finge che vada tutto bene. E poi lo accompagna alla nave. 

Non dovresti partire, vorrebbe gridargli, dovresti restare qui. Con me, dannazione! 

Ma parlare, urlare e pestare i piedi non servirebbe a nulla, Wilbur conosce Robert da una vita e sa come è fatto, sa che quando si mette in testa una cosa non c’è verso di fargli cambiare idea. È un testardo che deve sbattere la faccia contro ogni singolo errore, non importa se poi gli rimarrà la cicatrice.
Se Wilbur dovesse dirgli qualcosa, fargli notare che sta buttando all’aria la sua vita, l’unica cosa che otterrebbe sarebbe una lite. Si lascerebbero a male parole, e la frattura nella loro amicizia sarebbe soltanto avvelenata dalla lontananza. 

Wilbur non può lasciare che accada. 

Così non dice nulla. 



Wilbur si stampa un sorriso in faccia sopra i denti serrati e la mascella contratta; cerca di darsi un contegno e superare il pomeriggio, nonostante la litania di ‘non è così che doveva andare’ che gli invade la mente non accenni a fermarsi. 

La cosa peggiore è che non può credere che tutto questo stia accadendo con il consenso del re - della regina, oh, certo, quella non sarebbe una novità, ma il re è sempre stato un po’ ottuso e poco prono ai cambiamenti e ora… ora che sarebbe stata l’unica volta buona di piantare i piedi e dettare legge, proprio ora re Rowan decide di buttare all’aria le tradizioni. 

Wilbur attende al proprio posto, non più alle spalle del principe, ma lontano, nell’angolo di sala che compete alla sua famiglia da generazioni, quello che occupa nelle cerimonie più formali e ligie all’etichetta - come se tutto questo affare non fosse una farsa e davvero dovesse essere trattato con il massimo rispetto. Wilbur si trattiene dall’alzare gli occhi a cielo. 

Poi Robert arriva, trascina al braccio la forse futura sposa e sì, certo, Wilbur lo vede il bellissimo quadretto che compongono, ma quello rende soltanto più dolorosa la morsa attorno al suo cuore. 

Robert sorride, il principe che ha abdicato, come un idiota e Wilbur deve impedire al suo labbro tremante di piegarsi in un’espressione di rabbioso disgusto. Ella, al suo fianco, è radiosa. 

Robert parla e parla, blatera di posti nuovi da visitare e di viaggi per mare, come se fosse stato il sogno di tutta una vita. Come se non avesse desiderato diventare re dall’età di cinque anni. 

Wilbur ascolta in silenzio e, quando Robert, richiamato dal padre, lo lascia solo il suo ‘amore’, nel silenzio si rifugia. 

“Io non ti piaccio molto, vero?” chiede Ella, alla fine, come se dovessero davvero parlare dell’elefante nella stanza. Sulla faccia ha una smorfia di circostanza, una di quelle che sembra dire ‘mi dispiace non poter piacere a tutti’, come se lei non avesse nessuna colpa, come se Wilbur non avesse buoni motivi per detestarla.

“Non dovete piacere a me, dovete piacere al principe,” Wilbur tenta di addolcire il proprio tono, è il migliore amico di Robert e deve andare d’accordo con la futura sposa, “e il principe è pazzo di voi.”
Sceglie con cura le parole, perché ci crede davvero che Robert sia completamente impazzito - tutta la corte lo è, com’è possibile che nessuno dica nulla, che nessuno si opponga ad un viaggio intorno al mondo dietro le gonne di una sarta. Sembrano tutti felici e contenti di liberarsi di lui, forse pensano davvero che sia il figlio imbecille del re e stanno tirando un sospiro di sollievo al pensiero di avere Gwen come futura regina. O forse stanno soltanto fingendo di non vedere che il re è nudo, come in quella vecchia favola. 

“E non c’è niente che potrei fare dire per farvi cambiare idea.” Non è una domanda, la ragazza è abbastanza intelligente, se non altro. 

Wilbur risponde comunque. 

“Potreste evitare di fargli buttare all’aria tutta la sua vita.” 

Ella sorride, non incontra il suo sguardo.  “È una sua scelta, non mia.” 

È una stupidaggine bella e buona, e il pensiero deve essere evidente sul suo viso, perché Ella cerca di spiegare. 

“Io posso scegliere soltanto per me stessa, e non posso fingere di sapere cosa sia meglio per un altro, e certamente non posso farlo al punto di andare contro i suoi desideri.” 

“Molto comodo,” Wilbur si lascia scappare, poi si maledice per la sua linguaccia un po’ troppo lunga. 

“Oh, al contrario,” Ella non sembra turbata, “Sarebbe molto più facile fare ciò che tutti si aspettano, molto più comodo se ci sposassimo e Robert diventasse re. O se lasciassi Robert e gli impedissi di seguirmi. Ma so cosa si prova a sentirsi dire di non poter fare qualcosa per il mio stesso bene, come se qualcun altro a parte me stessa potesse davvero sapere cosa è meglio per me.”
Wilbur sorriderebbe dell’ingenuità - troppi anni passati a corte per sapere che nessuno è davvero libero di fare quello che vuole. La ragazza vuole vendere vestiti, il principe vuole la ragazza. Scoppierà come una bolla di sapone. 

“E poi?” chiede, “Quando sarete la sarta più famosa di tutti i regni, cosa sarà Robert?” 

“Forse dovreste lasciare che sia un problema suo.” È così condiscendente, Ella, quando glielo dice, come se stesse spiegando l’alfabeto ad un bambino, che Wilbur quasi non ci può credere. 

Non sa niente, questa ragazzina con la testa piena di stelle, di cosa sia l’amore, niente di cosa una persona possa fare, sopportare, per esso. 

Robert ritorna giusto il tempo per prendere sotto braccio la forse futura sposa e trascinarla verso il prossimo nobile a cui presentarla. Non si volta nemmeno una volta per salutare Wilbur.



“Lo sai che resteremo sempre noi due, no?” Robert gli dice quando lo abbraccia alla nave. “Non cambierà niente.” 

Ma cambierà tutto, e Wilbur si chiede se Robert sia davvero tanto ingenuo o se stia solo facendo finta, per non pagare mai le conseguenze delle sue azioni. 

Wilbur se lo stringe contro il petto comunque. E poi lo lascia andare.  

Per quello che vale. 

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BOKU NO HERO ACADEMIA 

Bakugou Katsuki/Midoriya Izuku

Post chapter 327 

COW-T #12, w3, m2: A thousand years - Christina Perri 


I will be brave

I will not let anything, take away

What's standing in front of me

Every breath, every hour has come to this


Ci sono un sacco di cose che Bakugou non dice. 

Non dice che ha paura. Mai. 

Non dice che certe volte fa fatica a dormire, che rimane sveglio a guardar cambiare i numeri rossi sulla sua sveglia chiedendosi che diamine ci fa in una scuola per eroi quando lui dell’eroe non ha niente. 

(Quando gli rifiutano la licenza provvisoria, non dice di aver pensato, ‘adesso lo sanno tutti’.) 

Non dice che ha mai avuto amici, perché per averli avrebbe dovuto far avvicinare qualcuno e Bakugou corre solo rischi calcolati. 

Non dice che le sue facciate sono solo questo, facciate. È abrasivo, rabbioso, e ruvido, come carta vetrata; è orgoglioso e pieno di sé, un pallone gonfiato. Un accoppiata che difficilmente rende simpatici. 

Katsuki non dice che questo è un nodo che non riesce a disfare, che sono talmente tanti anni che fa sempre le stesse cose che ormai sono meccanismi inculcati in un lui come un riflesso pavloviano. Che anche se volesse tornare indietro, cosa direbbe a Kirishima, a Kaminari, a Sero? 

Cosa direbbe a Deku

Che è uno stronzo lo sanno già ed è tutto quello che devono sapere di lui. 

(E allora perché continuano a cercare di essere suoi amici, Kirishima e Kaminari e Sero? 

E Deku? 

Almeno lui dovrebbe aver già imparato.) 

No, ci sono un sacco di cose che Katsuki non dice. Un sacco di cose che non dirà mai. 


-


Katsuki sente la ferita sul fianco tirare. Glielo hanno detto i medici che era troppo presto per rimettersi in movimento, ma lui è un bastardo testardo, come se essere trapassato da parte a parte fosse abbastanza per fermarlo. 

“Muovi il culo, coglione.” 

Interrompe qualsiasi cosa stesse dicendo Iida a metà, ma figurarsi se gli è mai importato di cose del genere. Sente gli occhi della Faccia Tonda scavargli un buco nella nuca, ma lei non dice nulla, proprio come Bakugou aveva immaginato. 

“Uh?” Izuku solleva la testa dalla montagna di coperte in cui è affondato e lo guarda attraverso le palpebre socchiuse. Ci sono profonde occhiaie nere sotto i suoi occhi e Katsuki non sa esattamente dare un nome alla fitta che sente nel petto. (Bugiardo. Un’altra cosa che non dice.) 

“Quando è stata l’ultima volta che hai dormito otto ore di fila?” 

Deku scossa la testa, forse cercando di scacciare la nebbia nel suo cervello affaticato. “Sto bene, sono sveglio.” 

Bakugou quasi ringhia. Midoriya Izuku è un idiota e non gli è bastato ridursi allo sfinimento, non gli è bastato dover essere riportato a casa con la forza, lavato e nutrito di prepotenza, ora deve pure rifiutarsi di dormire. E per cosa, poi? Solo per stare qualche altra ora con i suoi amici. Idiota. 

“Bakugou ha ragione.” 

Katsuki quasi si stacca la testa dal collo tanto velocemente si gira a guardare Todoroki. Il ragazzo lo fissa con espressione imperscrutabile e, quando ha la sua attenzione, inclina leggermente la testa verso di lui in un cenno di assenso. 

Katsuki non ci sta capendo un cazzo, ma non è esattamente nella posizione di discutere, non quando Todoroki gli sta dando ragione. 

Izuku si alza lentamente in piedi, barcolla e casca addosso a Katsuki. 

Oh, quindi se è lui quello sensato, Deku pensa di poterlo ignorare, ma non appena il Bastardo a Metà dà il suo beneplacito allora l’idiota decide di ascoltarlo? Katsuki si dice che non gli dà fastidio, no, assolutamente. L’irritazione è solo per il tempo che gli fanno perdere. 

(È Katsuki che lo ha trovato, Katsuki che lo ha riportato a casa, Katsuki che lo conosce da quando avevano tre anni. Dovrà pur contare qualcosa.) 

“Kacchan?” 

Katsuki lo sta ancora sorreggendo, lo sta ancora stringendo e questa volta Deku è sveglio e cosciente e lui si sente avvampare. Merda. 

“Non riesci neanche a reggerti in piedi da solo.” Doveva essere tagliente come l’intera personalità di Bakugou, doveva essere caustico e beffardo. La sua voce lo tradisce e Katsuki sembra quasi… preoccupato. Come se ci tenesse. 

“Dovresti accompagnarlo,” Todoroki interviene prima che Katsuki possa fare qualche altra stupidaggine - come spingere via Deku, come stringersi al petto Izuku. 

“No, no, ce la faccio!” Midoriya scuote la testa, cercando di dimostrare come suo solito di essere un idiota testardo che non conosce i propri limiti. 

“Non essere ridicolo,” Katsuki alza gli occhi al cielo e sposta il suo braccio attorno alle proprie spalle, caricandosi del suo peso, “andiamo! Come se pesassi abbastanza da essermi di intralcio.”  

Se fosse un po’ più in forze probabilmente protesterebbe di più, ma tutti quei mesi in fuga hanno avuto un prezzo. Non c’è altro da fare che seguire la corrente. 

“Tu e Todoroki siete diventati amici,” è una semplice constatazione, quasi un pensiero mormorato tra sé e sé come al suo solito, e se non fosse stato indirizzato esplicitamente a lui Katsuki lo avrebbe ignorato. 

Non c’è niente di male in quello che ha detto Izuku, ma Katsuki sente comunque la necessità di andare sulla difensiva. 

“Tu non c’eri.” 

“Sono contento,” Deku apre le labbra in quel sorriso che sembra sempre illuminare la stanza e Bakugou lo osserva con la coda dell’occhio.
“Non dovresti,” Katsuki si stringerebbe nelle spalle se solo ad esse non ci fosse aggrappato Deku. 

Izuku ridacchia debolmente, perché non ha abbastanza forze per un’intera risata. 

“Perché no? Mi piace che i miei amici siano amici anche tra di loro.” 

“Io non sono tuo amico.” 

Gli esce dalle labbra prima che ci possa anche solo riflettere. Non voleva dirlo, non ha mai voluto dirlo, ma se anche avesse voluto, non voleva che suonasse così - crudele. Non sono tuo amico, quello che gli ha ripetuto per anni e non importa se adesso lo intende in un altro modo, se intende che non vuole essere solo suo amico, se si è finalmente reso conto che a tenersele dentro certe cose ti mangiano. Niente di quello che pensa davvero importa, se quello che dice è sempre uguale a sé stesso. 

“Non pensi sia ora di finirla con questa pantomima?” Izuku chiede invece, senza che il sorriso gli muoia sulle labbra, “Ti sei fatto trapassare da parte a parte per salvarmi, penso che tu possa ammettere di volermi un po’ bene.” 

C’è un’ombra di sfida nel suo tono, quasi gli stesse dando del codardo, e Katsuki detesta quando fa così, detesta che sappia esattamente quali tasti premere per fargli fare quello che vuole. 

Non posso, vorrebbe dire, sarebbe una bugia, sarebbe sciocco dirti che ti voglio bene quando io “Ti amo.”

Izuku si inchioda al centro del corridoio, incespica nei propri passi e quasi casca con uno squittio stridulo. 

Katsuki lo sorregge e lo bilancia e se lo ritrova improvvisamente troppo vicino. 

“Non è -” Izuku si lecca le labbra e Katsuki segue il movimento della lingua con gli occhi, “Non è divertente, Kacchan.”
Katsuki potrebbe ridere, potrebbe fingere che sia stata soltanto una battuta, di pessimo gusto, perché no, come se lui fosse il tipo. Ma ha passato anni a fingere che non fosse vero, a trattarlo come una merda per tenerlo a distanza, per cercare di tenerlo al sicuro e adesso che è riuscito a dirlo, non pensa di rimangiarsi nulla. 

“Non era una battuta.”  

Izuku lo guarda come se fosse appena stato schiaffeggiato, “Perché?”
“Che cazzo di domanda è ‘perché’?” 

“Che cazzo di inizio è ‘ti amo’?” 

Katsuki decide di ignorare il fatto che Izuku abbia appena imprecato, per concentrarsi sulla domanda. 

“La verità,” si stringe nelle spalle, ma non riesce ad incrociare il suo sguardo. “Mi dispiace se non è quello che volevi sentirti dire. Possiamo fare finta che io non abbia detto niente. ” 

“Kacchan…” 

Ma Katsuki non lo sta più guardando, “Andiamo, ti riporto in camera.” 

“No.” 

“No? Dannazione, Deku -”

“No,” Izuku scossa e pianta i piedi e anche se è praticamente morto in piedi è la sua mera testardaggine che fa fermare Katsuki. 

“Senti, ho capito, va bene. Lasciami riportarti in camera e poi potrai smettere di rivolgermi la parola -”

“No,” Izuku è una statua, “No, tu non puoi venire a dirmi ‘ti amo’ così. Non puoi,” La sua voce si incrina, “Vaffanculo, Kacchan,” impreca di nuovo, le lacrime agli occhi, e Katsuki si chiede se non sia la sua cattiva infulenza, “dieci anni che ti muoio dietro, dieci anni, e tu adesso non puoi venire a dirmi che mi ami e poi fare finta di niente.” 

Poi Katsuki si ritrova una bracciata di Izuku aggrappato alle spalle, una litania di ‘certo che ti amo anche io’ borbottato sottovoce come suo solito e le sue sinapsi ci impiegano qualche momento a capire cosa Izuku gli stia dicendo.  

“Dieci anni, eh?” gli chiede quando Izuku solleva la testa, ma il tono con cui di solito lo prenderebbe in giro è velato dalla tenerezza. 

“Potrebbero essere pure mille,” Izuku risponde, le guance piene di lentiggini imporporate dalla vicinanza, gli occhi verdi enormi e lucidi di lacrime,  in cui Katsuki rischia di perdercisi. 

Come ha fatto a non rendersi conto di quello che provava prima di farsi quasi ammazzare pur di salvarlo? A volte Katsuki è proprio un coglione. 

“Mille mi sembra un buon compromesso.” 

Poi si china a baciarlo. 


Time has brought your heart to me, I have loved you for a thousand years

I'll love you for a thousand more



(È Katsuki che lo ha trovato, Katsuki che lo ha riportato a casa, Katsuki che lo conosce da quando avevano tre anni, Katsuki che lo ama da un milione di anni. Certo che conta qualcosa.) 

 

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