Feb. 28th, 2019

danzanelfuoco: (Default)
Fandom: Originale
Rating: SAFE
Wordcount: 1654
Prompt: gen + fluff + angst
Challenge: COW-T #9, missione 1
Note: è la prima volta che piango scrivendo qualcosa. 

Sofia ha 5 anni quando sua madre porta a casa un gatto. 

È un cucciolo, brutto e spelacchiato. Gli manca un orecchio e la coda è un moncone rosa.

Papà dice: “Cos’è quel brutto coso?”

Mamma dice: “Abbiamo trovato una cucciolata nel cassonetto. Questo non lo avrebbe adottato nessuno.” 

Papà dice: “E dobbiamo adottarlo proprio noi?”

Mamma non dice niente. 

Ma la sua espressione dice abbastanza. 

Sofia chiama il gatto ‘Acchio. 

Diminutivo di Spelacchio, che per la sua bocca di bambina ecolalica è troppo difficile. 

Sofia urlacchia “‘Acchio, ‘Acchio, ‘Acchio” stringendosi il gatto al petto e il gatto ha un’espressione che dice che in quel momento preferirebbe essere ancora in quel cassonetto a morire di fame e a perdere l’altro orecchio. 

Melodrammatico, pensa mamma. 

Magari, pensa papà, a cui i gatti non sono mai piaciuti. 


Sofia ha 6 anni quando comincia le elementari. 

‘Acchio non capisce perché la sua bambina adesso non stia più tutto il giorno a tormentarlo. 

Non che non sia sollevato, chiariamoci, non ne può più di essere accarezzato continuamente ogni volte che si acciambelli a portata di bambina, tanto da prendere l’abitudine di andare a dormire sui rami frondosi della magnolia di fronte a casa. 

Però, ecco, perché la sua bambina non lo cerca più di mattina?

Forse perché non ha una coda da tirare? 

E poi l’altro giorno l’ha vista accarezzare il cane dei vicini, quello scodinzolante ammasso di bava e no, non ne è stato geloso per niente. 

Però smette di dormire sui rami della magnolia e comincia a dormire sul suo letto. 

Mamma dice: “Ma che carino, sente la mancanza di Sofia.”

Papà dice: “È poco igienico.”

Sofia è al settimo cielo e il cane dei vicini non lo accarezza più. 


Sofia ha 7 anni e Spelacchio pensa proprio che sia il caso di smetterla. 

Le sembra forse un leone lui? 

No, perché per quanto appartengano pur sempre alla categoria “felini” tra lui e un dannato leone c’è un intero mare di sfumature - e dimensioni, a volte Spelacchio vorrebbe arrivare a pesare quasi due quintali come un leone vero e allora sì vorrebbe proprio vedere come Sofia riuscirebbe a sollevarlo. 

Ma Sofia non sembra cogliere il suo disappunto per quanto Spelacchio si contorca e soffi e miagoli. 

Mentre le note iniziali del Re Leone riempiono la stanza, Spelacchio viene sollevato - di nuovo - come se fosse il fottuto Simba. 


Sofia ha 11 anni quando Spelacchio sparisce. 

Passano due giorni.

Mamma dice: “Anche oggi non è tornato.” Ci sono lacrime nascoste nella sua voce.

Papà dice: “Dobbiamo prepararci al peggio.”

Sofia rimane tranquilla e serena. Dall’alto dei suoi undici anni non capisce perché siano tanto preoccupati. Spelacchio tornerà, è troppo presto perché smetta di fare parte della sua vita. 

Non capisce i rischi, non li vuole vedere. Il mondo è ancora un posto bello per lei. 

Mamma istituisce una ronda, tutte le sere fa il giro dell’isolato nella speranza di non vedere il cadavere di Spelacchio a bordo strada, investito da una macchina. 

Sofia vorrebbe andare con lei, ma Mamma glielo impedisce. 

Oh, beh, Spelacchio tornerà.

E Spelacchio torna. Dopo cinque giorni. 

È denutrito, assetato e sporco di olio per motori. 

Mamma dice: “Deve è rimasto chiuso in qualche rimessa.” 

Papà dice: “Peccato, pensavo ce ne fossimo liberati.” 

Ma c’è sollievo nella sua voce. 


Sofia ha 14 anni e adesso Spelacchio è diventato Spes. 

Che in latino significa Speranza.

Perché se non è un gatto miracolato lui, allora chi? 

Sofia va al liceo adesso e Spelacchio deve ringraziare di non essere finito a chiamarsi Socrate o Aristotele come i gatti di tutti i compagni di classe di Sofia. La gattina di Carlotta è diventata Xantippe - con la X perché Carlotta si dà tante arie - e tutto sommato a Spelacchio è andata di lusso. 

Sofia si butta sul letto, accanto al gatto, aprendo il libro di greco nella speranza vana di non prendere un altro tre. 

“Chi me lo ha fatto fare, eh, Spes?” 

Spelacchio apre a malapena un occhio, agita la coda per un istante e la sbatte sul suo libro di testo, lasciandola lì a coprire le dieci frasi assurde che deve tradurre. 

Sofia ridacchia. “Anche tu pensi che sia inutile, vero, Spes?” 

Spelacchio torna a dormire. 


Sofia ha 15 anni e Spelacchio non la perdonerà mai. 

“Oh, Spes, sono al settimo cielo!” 

Sofia lo fa volteggiare per la stanza, tenendolo sollevato davanti a sé sopra la propria testa e Spelacchio, che aveva proprio creduto ingenuamente che quella fase fosse finita quando Sofia aveva compiuto i dieci anni e il Re Leone era stato sostituito da cartoni animati decenti che non prevedevano torture e maltrattamenti nei suoi confronti, spera un po’ di riuscire a scivolare dalla sua presa e finirle in faccia. 

Così, giusto per mettere in pratica un po’ del contrappasso dantesco che Sofia gli ha ripetuto fino alla nausea.

“Non verrò rimandata, non verrò rimandata!” Sofia cantilena, danzando per la camera da letto, stringendosi il gatto al petto e depositando un bacio parecchio rumoroso sulla sua testa. “Oh, sapevo che studiare con te per l’interrogazione di latino avrebbe fatto i miracoli! Sei il mio gatto portafortuna, Spes.”

Eh, già i miracoli. 

Come non essere rimandata in latino. 

O addolcire il cuore di Spelacchio talmente tanto da evitarsi un graffio su quel nasino adorabile. Ok, forse “Spes” la perdonerà in fondo. 


Sofia ha 16 anni e sta piangendo per l’ennesima volta. 

Spelacchio è un gatto e non può parlare, ma se potesse le urlerebbe “Mollalo!” e poi andrebbe dal bastardo figlio di una cucciolata cieca e gli caverebbe un occhio con i suoi artigli. 

Perché nessuno tocca la sua bambina. 

Sofia singhiozza nel suo pelo, accarezzandogli lentamente la testa in cerca di conforto. 

E Spelacchio fa una cosa che nei suoi undici anni di vita Sofia deve avergli sentito fare solo altre due o tre volte. 

Spelacchio fa le fusa. 


Sofia ha 18 anni, finalmente. 

Sono le tre di notte e Spelacchio dorme, perché davvero, quel gatto non fa altro che dormire? 

Sofia ridacchia e potrebbe essere un po’ ubriaca. Parecchio ubriaca. 

Ma non capita tutti i giorni di diventare maggiorenne e in fondo i suoi genitori potrebbero averle permesso di esagerare un po’, solo questa volta, solo sotto supervisione. Ma a Sofia non interessa, si sente la testa leggera mentre si butta sul letto indossando ancora il vestito un po’ troppo corto per i gusti di suo padre, calciando via le scarpe col tacco su cui non è abituata a camminare. 

Sofia affonda il viso nel pelo serico di Spelacchio e quello scossa la coda infastidito. Lei si addormenta così, il trucco un po’ sfatto sul viso, usando il suo gatto come cuscino. 

A Spelacchio poi in fondo in fondo non dispiace nemmeno così tanto. 


Sofia ha 19 anni e Spelacchio pensa che questa sia la sua fine. 

Chiuso nel trasportino, viene sballottato in giro per la macchina. Chi ha avuto la brillante idea di dare la patente alla sua bambina? 

Quella pazza scatenata che prende i dossi in quarta. 

Spelacchio non è sicuro di avere nove vite, ma in questo momento spera davvero che sia così e di non averle già finite tutte. 

“Coraggio, Spes, siamo quasi arrivati” Sofia risponde al suo ennesimo miagolio. 

Spelacchio ne è quasi sollevato - e l’ultima volta che l’hanno portato dal veterinario ha perso i testicoli, il ché è abbastanza indicativo di quanto male Sofia guidi. 


Sofia ha 21 anni e Spelacchio si è bruciato i baffi. 

È così che si rendono conto di come sia ormai praticamente cieco. 

Perché Spelacchio punta dritto al piattino e infila il naso nella candela alla citronella. 

É l’odore di bruciato che spinge sua madre a raccattare il gatto con una mano e spegnergli i baffi. 

Sulle prime Sofia ridacchia della stupidità del suo povero Spelacchio e sua madre con lei. Le vibrisse bianche sono ora brunastre e arricciate così che Spes sembra uscito dritto da un cartone animato dei Looney Tunes.  

Ma nessuno ride per molto, perché Spelacchio è sempre stato un gatto intelligente e non è da lui fare una cosa così stupida come non prestare attenzione ad una fiamma. 

Il veterinario dice: “Ha un tumore al cervello.” 

Il veterinario dice: “Ora vede solo le ombre e i contorni.”
Il veterinario dice: “Potrebbe campare altri cinque anni però, non vi abbattete.” 

Tutto quello che Sofia sente è: “Spelacchio non è eterno, Spelacchio non starà con te per sempre.”

I baffi bruciacchiati cascano e ricrescono. Spelacchio continua ad andare a sbattere contro il tavolino del salotto. 

Sarebbe quasi divertente se non fosse così triste. 


Sofia ha 23 anni e non sta piangendo. Sta singhiozzando senza ritegno. 

Spelacchio è sparito. 

No, non è sparito. È andato via. 

Sofia ricorda quando aveva unica anni e la certezza - così sicura da poter essere quasi considerata un atto di fede -  che il suo gatto sarebbe tornato. 

Ora Sofia ha la stessa certezza che Spelacchio non tornerà. 

Spelacchio ha - aveva? Sarà già morto? L’incertezza è più dolorosa che non avere il suo cadavere davanti agli occhi - diciotto anni. E se n’è andato. 

Rantolava quella mattina. Stupido gatto testardo che non voleva restare chiuso in casa ed era finito per restare sotto la pioggia torrenziale di quella giornata di aprile. 

Mamma aveva provato ad asciugarlo con il phon, ma Spelacchio vicino a quella macchina infernale non ci voleva stare. 

Sofia non ci aveva neanche fatto caso quando gli aveva aperto la finestra per uscire, una carezza distratta sulla testa, prima di tornare a pensare al suo stupido esame di psicologia clinica. Senza pensare che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe visto, senza sapere che quella sarebbe stata l’ultima carezza che gli avrebbe fatto. 

Mamma dice: “Non posso credere che se ne sia andato.” La voce spezzata e lacrime silenziose che le rigano le guance. 

Papà dice: “Ha vissuto anche troppo per un gatto.” 
Ma sta piangendo anche lui.

 


 

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Fandom: Good Omens
Ship: Aziraphale/Crowley (implied, pre-slash)
Rating: SAFE
Wordcount: 826
Prompt: La piuma arrivò risalendo il vento. (La piuma, Giorgio Faletti) 
Challenge: COW-T #9, missione 2

La piuma arrivò risalendo il vento della volontà dell’angelo, nera come la pece, quasi carbonizzata, con gli angoli rovinati, fino a posarsi sulla sua mano tesa. 

“Oh, dear!” Aziraphale gli riservò un’occhiata dispiaciuta. 

“Non dirmelo” Crowley scrollo le spalle e altre piume corvine caddero a terra dalle sue spalle. “Che tu sappia gli angeli non fanno la muta vero?” 

“Quelli sono i serpenti, Crowley, ma tu sei un insieme delle due cose quindi forse è un effetto collaterale della Caduta?” 

Osservando abbattuto una delle sue piume tra le dita, Crowley scosse la testa. “Non lo so, come effetti collaterali sono in ritardo di qualche millennio, no? Cioè mi sarei aspettato di perdere le piume, che so, due o trecento anni dopo la caduta, non duemila.”

Aziraphale avrebbe voluto essere di maggiore aiuto, ma non è che potesse davvero cercare in un “Manuale di manutenzione per ali angeliche” sotto al capito “come mantenere vitali le vostre ali dopo la Caduta”, o no? Mah, al giorno d’oggi scrivevano libri proprio su qualsiasi argomento, quindi forse quel libro esisteva?

Oh, Aziraphale, non era questo il punto. 

Il punto era che Crowley si stava spiumando come una dannata gallina. 

“Hai provato a chiedere a… ai tuoi colleghi?”

Crowley sbuffò. “I miei colleghi, come li chiami tu, non sono molto in vena di scambiare chiacchiere con me dopo il mancato Apocalisse, tu che credi? È già tanto che mi abbiano concesso di rimanere qui sulla terra invece che sbattermi nel più infimo dei gironi a compilare scartoffie.”

Aziraphale avrebbe dovuto stare zitto, perché davvero a caval donato non si guarda in bocca, ma a volte il filtro cervello - bocca gli sfuggiva un po’ di mano. “A proposito com’è che non ti hanno declassato?”

“Che ne so. Hastur ha detto ‘ordini superiori’ prima di minacciare di uccidere il mio tramite e buona fortuna a compilare la richiesta per averne un altro, che tutto l’Inferno avrebbe fatto in modo di far passare almeno almeno quattrocento anni prima di approvarla dopo lo scherzetto che gli ho fatto.”

“Ma non possono!” 

“È l’Inferno, Az, è nato perché c’era qualcuno che aveva detto loro ‘questo non si può fare’ e loro l’hanno fatto lo stesso.” Crowley alzò gli occhi al ciel- no, quello non lo poteva più fare da parecchio tempo e allora perché improvvisamente ora c’era riuscito? 

“Ma che diamin- ?”

“Crowley?” 

Ma la parola non sembrava voler uscire dalla sua bocca. La lingua gli bruciava, stranamente incollata al palato. 

“Che mi sta succedendo?” C’era una nota di panico nella sua voce, una cosa che Aziraphale aveva sentito solo una volta nella sua vita e quella volta il mondo stava per finire. “Az?”

L’angelo lo guarda perdere qualche altra piuma come se fossero coriandoli. 

“Non lo so. Crowley non lo so.” 

Aziraphale avrebbe voluto poter dire qualcosa, poter fare qualcosa. Ma non poteva fare nient’altro che offrirgli il suo divano per dormire quella notte - anche se Crowley aveva un appartamento perfettamente funzionante - e tenergli la mano nella speranza che quel demone dagli occhi gialli non si dissolva nel nulla sotto i suoi occhi. 

Aziraphale non si rese conto di essersi addormentato fino al proprio risveglio la mattina dopo, il viso affondato nella giacca del completo di Crowley. Era strano, per dormire Aziraphale avrebbe dovuto volerlo fare e invece le palpebre gli si erano chiuse quasi da sole. 

“Ma che -?”

Crowley socchiuse le palpebre lentamente, solo per vedere il viso sbalordito dell’angelo a pochi centimetri dalla sua faccia.

“Az?”

“Le tue ali… Crowley! I tuoi occhi!” 

Con uno sbadiglio soddisfatto, uno di quelli che gli ricordava la bellissima dormita durata tutta il quattordicesimo secolo, Crowley tornò un po’ più presente a sé stesso.

“Che hanno le mie ali e i miei occhi?” Chiese tranquillamente, perché se non era svanito nel nulla cosmico che aspettava angeli e demoni alla fine delle loro esistenze, allora andava tutto bene. 

Ma Aziraphale sembrava senza parole. 

“Az?”

L’angelo si chinò su di lui, strappandogli una piuma e portandogliela davanti al viso. Bianca. Candida. Eburnea. 

Non poteva essere sua. 

Le sue ali non erano di quel colore da…  

“Che diamin- oddio non riesco a dirlo. Oddio, ho detto oddio!” Si coprì la bocca confuso. Che altro poteva essere cambiato? Con un guizzo fece passare la lingua biforcut -

“La mia lingua!”

“E I tuoi occhi” ripetè Aziraphale. “Non sono più gialli.”

Crowley si tolse di dosso l’angelo quasi senza pensarci, correndo allo specchio per veder ricambiare il suo sguardo da un paio di occhi chiarissimi, quasi cristallini. 

L’angelo lo seguì dopo qualche istante e Crowley si voltò a guardarlo come se quello potesse avere le risposte. 

“Sei… risalito?” Aziraphale sembrava sconvolto tanto quanto lui, la piuma bianca ancora tra le dita. 

“Io -”

Le braccia di Aziraphale si chiusero attorno alle sue spalle, la sua testa nell’incavo del suo collo. “Va tutto bene. Ci sono io.” 

Affondando il naso nei suoi ricci biondi, Crowley pensò che forse bastava. 


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 Fandom: Ajin Demi-human
Ship: Kei Nagai/Kaito 
Rating: SAFE
Wordcount: 1096
Prompt: Se ne stava ranicchiato tra due auto in sosta e aspettava il prossimo colpo cercando di coprirsi il volto. (Romanzo criminale, Giancarlo De Cataldo)
Challenge: COW-T #9, missione 2

Kei ne stava rannicchiato fra due auto in sosta e aspettava il prossimo colpo cercando di coprirsi il volto. Doveva riflettere e doveva farlo in fretta, ma avere Sato che cercava di ucciderlo solo con le proprie mani a mezzo metro di distanza, un colpo dopo l’altro, non lo aiutava di certo. 

Come cazzo era possibile che il suo piano ben congegnato fosse andato a puttane così in fretta? 

“Kei, Kei, Kei. Te lo avevo detto che saresti finito male, no?” Sato ridacchiava felice come un bambino a cui avessero appena regalato delle caramelle. “Lo sai cosa ti aspetta, no?” 

Certo che lo sapeva Kei, Sato glielo aveva promesso così tante volte che ormai se ne era fatto una ragione. Gli avrebbe tagliato la testa e avrebbe aspetto che gliene ricrescesse una nuova. 

Kei se lo era sognato talmente tante volte che era quasi giunto al punto di chiedere a Tosaki di farlo per lui, così da esorcizzare il timore. Non aveva alcun dubbio che Tosaki glielo avrebbe rifiutato, solo per dispetto. O forse se fosse riuscito a presentare l’idea come abbastanza strategica… Ma poi tutto questo era successo, non c’era stato tempo e ora Kei si ritrovava ad un passo da affrontare l’esperienza più vicina alla morte definitiva che avrebbe potuto provare. 

Oh beh, tanto la sua vita faceva già abbastanza schifo prima, pensò mentre Sato gli sollevava il viso pesto tenendolo per i capelli. 

Diamine, di sicuro l’orrida faccia di Sato con quel sorrisetto compiaciuto non era l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere prima di morire. 

E fu allora, mentre l’uomo col cappello sollevava il coltello militare per affondarlo nella carne morbida del suo collo, che Kei udì lo sparo.

Sato mosse qualche passo in avanti, prima di cadergli addosso, un proiettile che gli aveva fatto saltare mezza testa. 

Con che diamine gli avevano sparato, un bazooka? Fu il primo pensiero che passò per la mente ancora sotto shock di Kei. 

Ma Kei non poteva permettersi il lusso di perdere tempo con lo shock dell’ennesimo cadavere e dell’ennesima esperienza traumatica. 

Scostando con uno spintone il cadavere dell’Ajin, Kei si tirò in piedi incespicando. E una moto si fermò davanti a lui. 

“Kaito?” 

“Salta su!” 

“Cosa ci fai qui?” 

“Ti ho detto: salta su!” Gli fece un cenno con la mano, indicando con il capo le particelle di materia nera che già stavano volteggiando intorno al cadavere dell’uomo, ricostruendolo atomo per atomo. 

Prima che le cose potessero peggiorare - degenerare come sempre facevano i loro piani perfettamente studiati - Kei affondò il pugnale nella gola di Sato, per darsi qualche minuto in più di vantaggio e salì a cavalcioni sulla moto, stringendo le braccia attorno alla vita di Kaito, mentre questo si allontanava sfrecciando sulle strade deserte. 


* * * 


Kaito in qualche modo lo aveva trovato e lo aveva aiutato. Di nuovo. 

Ancora peggio, aveva parlato con Tosaki e Tosaki aveva deciso che sì, d’accordo, Kai poteva restare anche se era umano e non faceva parte del governo. Purché sapesse che se moriva erano tutti problemi suoi perché lui lì non ci sarebbe dovuto essere. 

Probabilmente tutto quello che faceva Tosaki era per dare fastidio a Kei. 

Che pensiero irrazionale, si rimproverò il ragazzo. Sicuramente in qualità di funzionario governativo Tosaki aveva scelto la strategia che reputava migliore. 

In ogni caso doveva assolutamente parlare con Kaito e convincerlo ad andarsene. Quell’idiota sentimentale non capiva che stava mettendo la sua vita in pericolo per nulla, per un ragazzo con cui era stato amico troppi anni prima perché valesse davvero qualcosa. 

Kai non era un Ajin, Kai sarebbe morto e non sarebbe tornato indietro. Kei lo aveva coinvolto anche già abbastanza. 

Diamine, Kaito sarebbe dovuto tornare a casa da sua madre, da suo padre che probabilmente era già uscito dal carcere e dal suo gatto, se ancora ne aveva uno. Sicuramente non si sarebbe dovuto far assegnare una stanza al quartier generale vicino a quella di Kei e di Nakano. 

Kei non lo poteva permettere e non lo avrebbe permesso, pensò mentre dirigendosi a grandi passi verso la sua stanza, bussando ed entrando senza aspettare risposta. 

“Kai…” 

Il ragazzo stava sdraiato sul letto a fissare il soffitto come se contenesse le risposte dell’universo, le braccia incrociate sotto la testa. 

“Non dire niente” lo pregò.  

“Perché sei qui?” Kei lo ignorò. 

“Per aiutarti.” 

“Sì, ma perché? Ti ho abbandonato in mezzo alle montagne.”

“Sì, sono finito in riformatorio per averti aiutato.”

“Ti hanno arrestato?!” 

“Ho aiutato un Ajin a scappare,” Kaito si tirò su per poterlo guardare in faccia, “ti aspettavi che mi dessero una pacca sulla spalla e mi dicessero di non farlo più?”

“No, ma…” 

“Non lo capisci, vero?” 

Kei scosse la testa. 

“Non lo capirai mai.”

C’era una nota di tristezza in Kaito che Kei non gli aveva mai visto, nemmeno quando sua madre lo aveva costretto a cancellare il suo numero di telefono e ad ignorare la sua esistenza, fingendo di non essere mai stato suo amico. Persino allora Kai non aveva tirato fuori quello sguardo da cane bastonato che gli stava spezzando il cuore. 

Forse, se lo avesse fatto allora, Kei avrebbe buttato alle ortiche tutti gli insegnamenti di sua madre sull’essere una persona rispettabile e sul posto che avrebbe dovuto avere nella società. Perché quello sguardo faceva fare cose strane al petto di Kei, cose irrazionali, cose che lo portavano all’esasperazione, perché non capiva. 

Kei Nagai per la prima volta nella sua vita non capiva, per quanta logica provasse ad applicare al suo pensiero. 

“Se tu me lo spiegassi!” 

Kei non aveva urlato, eppure nella sua testa vi era un eco, come se lo avesse fatto. 

“È inutile” gli disse Kai, una malinconica rassegnazione negli occhi. 

“Come pretendi che io capisca se non sei razionale!”

 Kai avrebbe voluto ridere. Razionale. Tutto si riduceva a questo con Kei. 

Razionale

Non c’era niente di razionale nel mondo. 

Kei poteva fingere quanto volesse di poter applicare il suo ordine strategico all’universo, ma alla fine dei giochi le cose veramente importanti erano disordinate ed entropiche e illogiche. 

Kai buttò al vento ogni briciolo di razionalità e quando l’ebbe fatto ci gettò dietro anche il buon senso. In due passi coprì la distanza che li separava, gli gettò le braccia al collo e gli chiuse le labbra con le proprie. 

Oh

Oh, risuonò nella mente di Kei, come se ogni pezzo del puzzle fosse finalmente andato al suo posto. 

Oh, gli mancavano le premesse per capire e ora aveva tutto un senso. 

Kei lasciò che le sue mani si posassero sulle spalle dell’amico, tirandoselo più vicino. 




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